E’ stato a margine del convegno L’ospedale psichiatrico e la vita manicomiale. Archivi e altre testimonianze organizzato da Massimo Aliverti il 5 e 6 ottobre 2017, i cui atti sono stati recentemente pubblicati[i], che una gentile funzionaria del Comune di Recanati ha aperto a Chiara Bombardieri, archivista e bibliotecaria di quella miniera inesauribile di storia della psichiatria che è il San Lazzaro di Reggio Emilia e curatrice del relativo Museo; a Gerardo Favaretto, psichiatra in quel di Treviso e redattore di questa rivista; e a me il sospirato portone che introduce all’”ermo colle”. Quello dove il ventunenne Giacomo Leopardi visse nel 1819 le emozioni che gli avrebbero dettato, duecento anni fa, poche parole scarabocchiate su un foglio qualsiasi dei moltissimi – questo virtuale compreso – che mano umana abbia scritto, e sarebbero divenute una delle poesie più celebri della letteratura mondiale, L’infinito. E non nascondo la delusione nel dover constatare come siano state scritte in un luogo qualsiasi, assai poco affascinante, parole tanto preziose, così universali nello spazio e nel tempo, parole che sembrano parlare in modo assoluto della condizione dell’uomo e del senso di vertigine che coglie nel contemplare “il cielo stellato sopra di noi” di kantiana memoria e “le morte stagioni e la presente e viva” decisamente leopardiane. Morte stagioni alle quali si sono aggiunti altri duecento giri della terra intorno al sole, che ci fanno sentire così lontano quel 1819 se pensiamo a tutto quello che da esso ci separa, a come il mondo è cambiato e al fatto che è più del doppio di quanto la vita di un singolo uomo possa aspirare a lambire, che allora aveva la nostra età il nonno del nostro bisnonno; ma che ce lo fanno sentire anche così strettamente vicino, se pensiamo a quanto due secoli spariscano nel perdersi indietro nei millenni dell’esperienza dell’uomo nella storia. Un luogo modesto, dicevamo, rispetto a tanti altri della terra, che possono offrire splendide vedute mozzafiato di mari e orizzonti, gigantesche montagne, pianure a perdita d'occhio. Eppure da quel luogo qualsiasi, di fronte a una siepe qualsiasi al cui posto sorge oggi un muricciolo, il pensiero del poeta ventunenne poté spaziare, perdersi, annegare, naufragare nell’infinito. Perché la siepe che esclude dallo sguardo gran parte dell’ultimo orizzonte e consente di guardarlo con gli occhi della mente, gli occhi del cieco Omero o del cieco Borges, alla sua anima non nasconde ma rivela. E l’infinito che così ci si discopre è abitato in realtà da due infinità, che danno una stessa sensazione di vertigine ma anche la sensazione di due vertigini opposte: quella dell’universo sterminato disabitato dall’uomo, che c’era prima dell’uomo e ci sarà dopo di lui e ne trascende l’esperienza, e quasi fa paura; e quella dell’esperienza e della storia dell’uomo, della quale la stagione del poeta (e così la nostra) è piccola parte, nella quale gli è dolce naufragare, cioè vivere. Paura e dolcezza sono le emozioni che si alternano in quest’attimo di duplice vertigine, nel quale domina tutto l’esperienza di un vuoto, un silenzio e una quiete così profondi da quasi farci lambire con un tremito, chi lo sa, la morte; e poi l’irrompere, a rompere quella silenziosa e inquietante quiete e a tenere compagnia al poeta, dello stormire del vento che muove e anima le piante. Il vento che è vita, tempo, storia, rumore, voce, quasi parola. Che è l’altro infinito nel quale siamo immersi, quello della storia e dell’ora presente dell’uomo, e dell’eterno tutto intorno ad esse, nelle quali è in quell’istante dolce, per il poeta, naufragare. Naufragare nell’esperienza di essere nato alla vita, nell’esserci nell’umanità e nella sua lunghissima e in gran parte ignota storia, nell’esserci nel proprio tempo, nella vita degli uomini, nell’enigma dell’eternità. Ed è una finestra forse rara nella sua opera – qualcosa che rende così particolare L’infinito prima di altri Canti atrettanto noti – la dolcezza di quel lasciarsi e sentirsi naufragare, come scordando per un attimo che le morte stagioni sono, appunto, morte (dolorosamente morte); e che la presente e viva è tale per, presto, cessare (dolorosamente) di esserlo. Ma di questa altra verità, di quest’altra luce sotto cui si può guardare l’esserci dell’uomo e la sua storia (la luce della morte come destino e dolore ineludibile, appunto), il poeta ci dirà altre volte in versi altrettanto inarrivabili e perfetti. Qui e adesso la stagione presente invece è viva, offerta alle possibilità che la vita e l’immaginazione possono aprirle, e contiene perciò l’infinito nella propria finitudine. E allora quello che L’infinito ci lascia dentro, perché ogni poesia merita di essere letta come un discorso aperto e chiuso in se stesso, è la sensazione insieme di spaesamento (naufragar) e di dolcezza (dolce) di un attimo; e da essa, come fosse lo stormire di un vento lieve intorno a noi, possiamo anche noi ancora oggi lasciarci, a nostra volta, per qualche istante carezzare.
Emozioni e parole, queste che qui scrivo, che mi sono state evocate da queste parole antiche che rendono conto dell’esperienza di un altro uomo in pochi istanti di due secoli fa, microscopica e modesta parte – queste mie – delle parole che esse L’infinito ha evocato in tantissimi altri lettori. Ma sono soprattutto parole, quelle originali di questo Canto, che ancora possono offrirci in se stesse, duecento anni dopo, la loro spalancata e incoraggiante perfezione; e che può essere dolce, credo, rileggere e ascoltare una volta di più, e lasciar naufragare musicalmente dentro a noi.
Emozioni e parole, queste che qui scrivo, che mi sono state evocate da queste parole antiche che rendono conto dell’esperienza di un altro uomo in pochi istanti di due secoli fa, microscopica e modesta parte – queste mie – delle parole che esse L’infinito ha evocato in tantissimi altri lettori. Ma sono soprattutto parole, quelle originali di questo Canto, che ancora possono offrirci in se stesse, duecento anni dopo, la loro spalancata e incoraggiante perfezione; e che può essere dolce, credo, rileggere e ascoltare una volta di più, e lasciar naufragare musicalmente dentro a noi.
L'infinito
Sempre caro mi fu quest'ermo colle,
E questa siepe, che da tanta parte
Dell'ultimo orizzonte il guardo esclude.
Ma sedendo e mirando, interminati
Spazi di là da quella, e sovrumani
Silenzi, e profondissima quiete
Io nel pensier mi fingo; ove per poco
Il cor non si spaura. E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando: e mi sovvien l'eterno,
E le morte stagioni, e la presente
E viva, e il suon di lei. Così tra questa
Immensità s'annega il pensier mio:
E il naufragar m'è dolce in questo mare.
Nel video allegato: Vittorio Gassman legge "L'infinito".
[i] M. Aliverti (a cura di), La psichiatria italiana tra Ottocento e Novecento. Dal manicomio al territorio. Roma: Aracne, 2018 con testi di: Massimo Aliverti – Emanuele Armocida – Giancarlo Cesana – Massimo Clerici – Giovanni del Missier – Liliana dell'Osso – Viviana Faschi – Gerardo Favaretto – Silvano Franco – Carlotta Malaguti – Fabio Milazzo – Dario Muti – Nicolò Nicoli Aldini – Laura Occhini – Davide Orsini – Paolo Peloso – Carmine Petio – Antonio Pulerà – Michele Augusto Riva – Gabriele Rocca – Luana Testa – MariaLuisa Valacchi – Mario Vanini
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