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FUGA NELLE TENEBRE

22 Apr 19

A cura di Gilberto Dipetta

Noi siamo cetre un poco sgangherate
Il vento quando passa sulle corde

Come catene sospese, risveglia dei versi
Dei rumori dissonanti.

Noi siamo antenne un poco singolari
Come dita si innalzano nel caos,

In cima ad esse echeggia l’infinito ma, ben presto,
cadranno giù, spezzate.

Noi siamo sensazioni un po’ disperse
Senza speranza di concentrazione.

Nei nostri nervi tutto si confonde.
Ci duole il corpo, duole la memoria.

Ci scacciano le cose, e la poesia è il rifugio
Che sempre più invidiamo.

                                                                                                                                          Kostas G. Kariotakis

Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor
(Che nasca un giorno dalle mie ceneri un vendicatore)

Virgilio/Didone
 

 
 
 
Notte di Pasqua. Scrivo tra un’andata e l’altra in PS, dove un diciottenne agitatissimo, allucinato e delirante, sta ultimando, tra sedazione e violente crisi, lo screening per accedere in reparto. Le notti prefestive, in questa periferia sterminata, sono ormai un’orgia illimitata di sostanze. Così il sole dell’Occidente tramonta come le palpebre sugli occhi dei giovani sballati. Qualcuno, inevitabilmente, si fulmina. Io sono qui a cercare di rincollarne i pezzi.
Queste righe, tuttavia, stanotte, se è vero che la Pasqua è un passaggio, mi servono a prendere lentamente congedo da Raf, che, tra lunedi e martedi della settimana scorsa, ha smesso di lottare contro la vita. Aveva 37 anni.  Di lui si erano perse le tracce un venerdì di fine marzo. Era venuto in reparto, a cercarmi. Non ero di turno. Era visibilmente alterato. Mentre cercavano di contattarmi, avendo capito che non c’ero, era scivolato via repentino, ingoiato dalla notte. Senza dare tempo di organizzare un’accoglienza. Aveva una felpa nera e inforcava il suo motorino. Dopodichè più nulla per qualche giorno. Di lui solo il volto sull’etere di Facebook, e i disperati appelli della sorella. Poi, in qualche modo, era riemerso, in rianimazione presso una clinica, politraumatizzato, a diversi chilometri da qui. Durante la sua fuga nelle tenebre, lasciato il motorino, a piedi, si era scontrato con un Tir. Raf aveva la stazza del toro, e i tori si scontrano con tutto, poiché non temono nulla. Avevo avuto un brutto presentimento dal primo momento. Avevo scritto, a Maria Grazia, la collega che, andando via, me lo aveva lasciato in eredità, e che gli voleva molto bene, quanto me, “temo che questa volta Raf abbia trovato la sua via per l’infinito.” Dimenticarlo è impossibile.
Dal pomeriggio penso a lui. La sera primaverile è digradata dolce, punteggiata dal cinguettio dei verdoncini e dal tubare delle tortore. Lo scirocco è già presago dell’estate. Penso che Raf, questa primavera, non la vedrà più. Era un cuoco valentissimo, di quelli che solo i Campi Ardenti esprimono. Abitava in un angolo di questa costa meravigliosa, in una stradetta lunga, antica e tortuosa che si chiama via Inferno, e ne andava fiero.  La strada sorgeva su di una necropoli all’aperto, costruita dopo una delle epidemie di colera dei primi dell’Ottocento. I resti umani erano stati rimossi a fine Ottocento, e la zona era stata edificata. Secondo un’altra storia, però, sotto quel tratto di costa passava, sommerso, l’Acheronte, il fiume del dolore, che conduceva al lago d’Averno, la porta dell’Inferno. E proprio sul quel tratto di costa era stata rapita, da Ade, Proserpina, e condotta nell’oltretomba, diventando la regina degli Inferi. Queste note non sono irrilevanti. L’essere nel mondo di Raf era, infatti letteralmente impastato alla mitologia di questi luoghi. Benchè non avesse studiato, egli era un frequentatore tanto dell’Ade quanto dell’Olimpo. Interlocutore privilegiato di Dio, semideo egli stesso, conoscitore, sulla propria carne,  della metafisica, assillato da irrispondibili domande ontologiche, sulle quali solo alcuni filosofi, nella storia, hanno perso il sonno. Domande del tutto irrilevanti per la maggior parte degli uomini. “Perché c’è l’Essere, anziché il Nulla?”; “Perché l’Essere è fondato sul Nulla?” “Dove finisce il Bene e dove comincia il  Male?”; “Chi vincerà la lotta della Luce contro le Tenebre?”. Il nostro dialogo era cominciato per caso, nel 2013. Dopo il suo secondo violentissimo ricovero, durante il quali Raf attraversava tutti gli stadi della destrutturazione del campo di coscienza, per poi riemergere, da pietra a pianta, da vegetale ad animale, da pesce a rettile, da rettile a mammifero, da animale ad uomo, da uomo a dio. E così, insieme alla sua psichiatra, che si faceva carico della difficile ovvietà del senso comune, io e lui ci lasciavamo andare nell’universo mondo della metafisica. Era cominciata quasi per caso, tra di noi, la disoccultazione di quella botola che copre, nella realtà quotidiana, l’abisso precipitoso del Kosmos/Chaos: con un battito di ciglia. Un pomeriggio Raf, una delle prime volte che ci vedevamo a tre, insieme alla collega, dirigendo lo sguardo su di me, cominciò a battere le ciglia degli occhi in modo innaturale, aritmico. Sembrava un codice Morse. Mi venne di sintonizzarmi con lui. Cominciai ad imitarlo, come un’ecoprassia. Battito, pausa, raffica di due battitti, pausa. Dopo qualche minuto iniziò, tra noi, un discorso senza soggetto, senza predicato e senza verbo, allusivo, metaforico, danzante, che solo lo sguardo allarmato e sbigottito della collega riuscì a interrompere. Temi genealogici, mistici, grandiosi, cosmo-teogonici, persecutori. Raffaele diceva che per telepatia aveva scoperto questa affinità con me. E che eravamo, in qualche modo, collegati. A volte la connessione funzionava meno, in rapporto all’effetto dei farmaci. Si rendeva del resto conto che stare continuamente connesso lo portava ad impazzire. Il nostro sforzo, rappresentando io la metafisica e la collega la fisica, era quello di creare uno shunt silenzioso tra i due ambiti, che è ciò che fonda la vita di ognuno di noi. Ma non ci siamo riusciti. Raf era affascinato dalle divinità egizie con la testa di cane, e, ultimamente, dal culto di Mitrha, la divinità indo-iranica che guida le anime nel loro viaggio. I legionari romani, che avevano prestato servizio in Oriente, portarono questi culti a Puteoli, primo porto di Roma, dove anche san Paolo è sbarcato. E Raf era una incredibile stratificazione architettonica di culture e miti e credenze epoche diverse. Gli smottamenti tellurici della varie crisi psicotiche avevano dissepolto, in lui, i vari strati dell’immaginario antropologico. Il tempo del mondo naturale, il tempo della storia, dentro di lui, erano impastati, separati con fatica dal tempo del quotidiano, dell’ovvio, del senso comune. Anche quando la madre è morta egli la sentiva parlare. E, prima che il padre morisse, Raf lo aveva guidato sulle soglie dell’Ade. Mi raccontò che il padre aveva paura di fare l’ultimo passo, era ormai in coma da giorni, e Raf lo precedette, varcando la soglia, poi si voltò, disse al padre :”Papà tutto a posto”, e solo allora il padre potette lasciarsi andare. Era dedito alla cannabis, ma come un antico sacerdote che assume la pianta di Dio. Di tutto, infatti, poteva privarsi, ma non della cannabis. Quando proprio non aveva soldi, si fumava la pianta ornamentale che aveva a casa. Si sentiva controllato da un Sistema, del quale noi eravamo parte. La parte buona, quella che lo garantiva. Ma, in quanto figlio di Dio, o Dio egli stesso, da questo sistema era anche temuto e osteggiato. A tratti disforico, con un lampo di aggressività negli occhi che faceva colare il sudore lungo la schiena, veniva ai colloqui in ospedale accompagnato dal vecchio e malandato padre, che mi regalava sempre un sigaro, con il sorriso sulle labbra. Per un periodo lo abbiamo sostenuto con una borsa lavoro come aiuto cuoco in una struttura intermedia, lo abbiamo aiutato a percepire una pensione di invalidità. Ma erano solo briciole per la sua grandezza. Per l’impegno che ci metteva nel mantenere l’ordine metafisico del mondo. Era, in quanto arcangelo Raffaele, il protettore dei viandanti e dei folli. Lui, così radicato sull’angolo di costa del suo Monte, di fronte al suo mare, era uno di loro, un senza fissa dimora, uno che si trovava nel mondo ma non era del mondo. Un periodo allevava conigli, e ce li portava in regalo a Natale. Un periodo polli, e ce li portava in regalo a Natale. Ma erano quisquilie. Per lui, angelo caduto, spirito puro rivestito della miseria della carne, era tutto un insopportabile compromesso. Contrariamente ai deliri sistematizzati dei paranoici, il suo delirio era politematico e insaturo. Egli non ne conosceva tutti gli elementi. Alcuni erano certi, molti incerti, da sottoporre al vaglio. E veniva ai colloqui proprio per avere nuovi elementi di conoscenza. Aveva un gruppo di amici, più piccoli di lui, che ospitava a casa, per i quali cucinava, fumavano insieme la cannabis, ma lui non si svelava neanche a loro. Diventava trasparente solo a se stesso, dopo aver fumato la pianta di Dio.  Portava avanti il suo magistero in segreto, dividendo con il mondo le banalità del mondo, e con noi l’insopportabile tragedia della verità. I suoi poteri speciali, la sua capacità di guarire il cancro, di uccidere a distanza i nemici, di prevedere gli attentati terroristici, gli rendevano meno insopportabile la sua condizione. Aveva amato una donna, in gioventù, Elisa, che era diventata, nella sua memoria, la Beatrice di Dante, la Laura di Petrarca, la Fiammetta di Boccaccio. Una musa, una dea, le cui fattezze talvolta ritrovava nel volto di una donna incontrato per caso, la sera, al tramonto sul mare, quando gli ultimi barbagli di luce trascolorano i contorni. Allora Elisa gli appariva, e lui provava tutta la mortificazione di non potersi mai avvicinare a lei. Raf era come un angelo che si sente vicino agli umani, ma che, a dispetto del suo corpo di toro, non ha la carne, come gli angeli di Wim Wenders, che, ne "Il cielo sopra Berlino", contemplano gli umani con nostalgia. Che baratterebbero volentieri le grandi ali piumate con la gravità del corpo. Ma, quando questo accade, scoprono che non si può avere una donna e la responsabilità dell’umanità, contemporaneamente. Quando lo ascoltavo fare questi discorsi, immaginavo Soreen Kierkegaard, il solitario di Copenaghen, che restituisce l’anello di fidanzamento a Regina Olsen, e le dice che, purtroppo, la sua vita deve appartenere solo a Dio. Raf aveva avuto il primo ricovero nel 2006, all’età di 24 anni. A suo dire fin da allora era stato invaso dalla lava incandescente della metafisica, ma non ne aveva parlato mai a nessuno. Gli altri esseri umani a volte gli apparivano come ibridi, “metasondri”, li chiamava con uno dei suoi neologismi. Allora lavorava all’Isola d’Elba. Fu trapassato da voci e correnti che gli attraversavano il corpo. i contenuti della sua metafisica, tuttavia aveva iniziato a palesarli solo nel 2013, quando avevamo iniziato a vederlo insieme, seppure con modalità disgiunta (io la metafisica e Maria Grazia la fisica). Dopo l’andata via di Maria Grazia, lo seguivo insieme ad Anna Grazia, che lavora su territorio. Era puntuale con la scadenza delle fiale, aveva un buon rapporto con la dottoressa e con gli infermieri e sentiva che, tutti insieme, ci facevamo carico di lui. Era cortese anche con le varie giovani tirocinanti, Gemma, Giovanna, Rosanna, Vittoria, che si sono succedute in questi anni. Il piano ontico e quello ontologico, tuttavia, separati come due binari, salvo qualche scambio catastrofico,  dentro di lui sono rimasti sempre il grande mistero da risolvere. La sua solitudine, dopo la perdita della madre e poi di quella del padre, era diventata immensa. Da quell’angolo di via Inferno ogni giorno e ogni notte l’infinito lo tentava, attraverso gli anelli di fumo della sua mente, nei quali dimenticava l’oggi fino a domani, come cantava Bob Dylan. Dopo che hai traghettato nell’Ade i tuoi stessi genitori, ti domandi che ci fai tu qui. Ancora qui. Aveva voglia, anche lui, di vivere una vita normale. Ma gli era impossibile farlo.   Se non lo avessi conosciuto, non direi che potesse esistere un essere umano così. Sempre sul filo di rompersi, con un umore ribollente come la caldera flegrea, e il pensiero acuto come un diamante sul vetro del tempo. Ho sempre avuto dubbi profondi su quale fosse la sua diagnosi. Oggi che l’ho perduto non mi interessa più. Scrivo di lui, stanotte, non più da psichiatra, la cui memoria è ammobiliata da congedi impossibili, ma da compagno di viaggio.  Raf sentiva le tenebre che lo chiamavano da dentro, ma catturava la luce dell’alba incidente sullo specchio di mare dove si affacciava. Direi, oggi, che ho conosciuto un traghettatore di anime, un essere teso come una corda, nel passaggio dall’uomo a Dio, dalla finitudine all’infinito, teso, come una corda che si è spezzata molte volte, che siamo riusciti a riannodare molte volte, e che ora si è rotta in modo definitivo, restituendo a Raf la sua libertà dalla prigione del corpo, dalle catene della vita ordinaria, nell’ora più buia che precede l’alba. Vorrei tanto, un giorno, che fossi tu, Raf, fiero abitatore di via Inferno, a traghettarmi per il passo più difficile, lungo il fiume del dolore, al di là della freccia del tempo. 
        

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2 Commenti

  1. c.pontalti

    Questa volta non ho
    Questa volta non ho riflessioni” scientifiche” da porre in dialogo con Gilberto. Desidero solo testimoniare la mia vicinanza, viandante assieme a lui, nella radicalità dell’ inafferrabile del nostro mestiere. E’ un percorso, quello donatoci da Gilberto, che svuota ogni definizione: scienza, linee guida, manuali operazzionati, o arte o bottega
    dell’artigiano?? Il mistero ultimo del senso dell’esistere non è in mano nostra ne di nessuno, tranne della persona che ne è il depositario legittimo. Raf ci guida nel mistero che si incarna in lui e Gilberto è il rispettoso e dolente compagno di viaggio. Solo così possiamo comprendere, malamente, che il caso Raf non è un fallimento della terapeutica, è il sigillo del limite e del rispetto. Desidero testimoniare a Gilberto che sono con lui sul confine dell’Ade per lasciar andare Raf e restare ancora, noi e lui, sulla soglia. Un’ultima riflessione. Mi sembra di capire che Raf ha una sorella (aveva?). Condividere con lei questo diario di viaggio la può aiutare?

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    • gilbertodipetta

      Caro Corrado, sento la tua
      Caro Corrado, sento la tua mano sulla spalla, come si conviene tra umani che condividono, con fatica e con gioia, le vicissitudini di altri umani. Ti ringrazio soprattutto per aver sottolineato il crollo di tutti i paradigmi di fronte al mistero dell’esistenza, e al tempo stesso di aver sottolineato che l’unica formazione che ha un senso, per il terapeuta, è quella umana, rispetto alla quale i nostri pazienti e le loro storie sono insostituibili trainer. Farò in modo, tra un pò, che la sorella abbia questa storia che le appartiene. Grazie, come sempre.

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