Samir Toumi è uno scrittore algerino capace di raggiungere una profondità di visuale inusuale. Dissolvendo con il suo sguardo, discreto ma implacabile, la superficie, svela i fantasmi che dimorano nella nostra quotidianità, muovendone, in silenzio, i fili. Il protagonista del suo libro “Lo specchio vuoto” (Mesogea), è il figlio di un eroe della rivoluzione algerina che soffre di “cancellazioni”. Inizialmente sparisce la propria immagine allo specchio, poi comincia a vomitare (svuotandosi delle proprie emozioni), infine cominciano le sparizioni della sua memoria.
Dopo la morte del padre glorioso, condivide nella grande villa di famiglia una vita desolata con la madre depressa, in una rivelazione graduale della verità inesorabile, che configurandosi lo cattura anche nelle sue maglie, su ciò che da sempre è stata la propria esistenza: “Mentre mia madre sopravviveva come una statua, pietrificata su un divano, io seguivo il corso della mia vita come una marionetta disarticolata, senza desideri e, da un tempo a questa parte, anche senza un riflesso”.
La madre/specchio in cui si riflette, non è la macchina ortopedica, alienante, descritta da Lacan, che lo inquadra come marionetta mossa dalla sua volontà. La marionetta si disarticola fino a sparire, perché di fronte a sé il figlio trova la Sfinge egizia, non la terribile madre tebana (l’altra faccia di Giocasta), ma una figura granitica, atarassica, essa stessa un enigma, che spegne il suo desiderio di vivere. Più il protagonista senza nome del libro cerca di restare vivo, più la madre non lo vede e lui non si riflette nel suo sguardo. Lei non lo considera nella sua esistenza reale, ma gli proietta silenziosamente addosso un proprio ideale, chiedendogli di incarnarlo.
L’ideale è il padre rivoluzionario che la madre adora come eroe della patria e respinge, odia come uomo reale. Invano il figlio cercherà di avere accesso al corpo sensuale, desiderabile di lei attraverso il ricordo, persistente ma impotente, dell’amante del padre e della ragazza della gioventù, ugualmente erotica, del fratello più grande. Nulla otterrà se non essere sempre di più sospinto verso l’identificazione con una figura paterna che rigettata nella sua contraddittoria realtà, viene idealizzata come principio folle di azione. Questo principio fa suo, estremizzandolo e fagocitandolo, ogni tentativo di ribellione.
“Lo specchio vuoto”, lettura straordinaria di una costellazione psichica centrale nella società di oggi, è anche una metafora molto triste, ma, al tempo stesso, lungimirante, sul fallimento della rivoluzione algerina e, più in generale, di ogni rivoluzione che resta incastrata nella propria idealizzazione. C’è nella rivoluzione una dimensione luttuosa che è necessario attraversare. Da una parte essa imprime una trasformazione che è sempre traumatica, perché comporta la perdita di certezze consolidate e anche il rischio di destabilizzare valori diacronici, vivi nel loro divenire. Dall’altra comporta il lutto, rivolto all’avvenire, di ciò che potrebbe essere disatteso delle cose da costruire. Il rischio è che il posto dell’elaborazione del lutto lo prenda l’idealizzazione: questa si configura sempre come agire esemplare di “padri della patria” perché esalta l’aspetto maschile, performante dell’azione.
La rivoluzione riesce se fa parte della vita, la trasforma, non se si propone come modello astratto e ideale del vivere, come riproduzione perpetua di se stessa. Se come “Grande Storia”, passato insuperabile, colonizza, immobilizzando, il presente e occlude il futuro, diventa uno specchio vuoto in cui i singoli individui riflettendosi smarriscono immagine, desideri, ricordi.
Dopo la morte del padre glorioso, condivide nella grande villa di famiglia una vita desolata con la madre depressa, in una rivelazione graduale della verità inesorabile, che configurandosi lo cattura anche nelle sue maglie, su ciò che da sempre è stata la propria esistenza: “Mentre mia madre sopravviveva come una statua, pietrificata su un divano, io seguivo il corso della mia vita come una marionetta disarticolata, senza desideri e, da un tempo a questa parte, anche senza un riflesso”.
La madre/specchio in cui si riflette, non è la macchina ortopedica, alienante, descritta da Lacan, che lo inquadra come marionetta mossa dalla sua volontà. La marionetta si disarticola fino a sparire, perché di fronte a sé il figlio trova la Sfinge egizia, non la terribile madre tebana (l’altra faccia di Giocasta), ma una figura granitica, atarassica, essa stessa un enigma, che spegne il suo desiderio di vivere. Più il protagonista senza nome del libro cerca di restare vivo, più la madre non lo vede e lui non si riflette nel suo sguardo. Lei non lo considera nella sua esistenza reale, ma gli proietta silenziosamente addosso un proprio ideale, chiedendogli di incarnarlo.
L’ideale è il padre rivoluzionario che la madre adora come eroe della patria e respinge, odia come uomo reale. Invano il figlio cercherà di avere accesso al corpo sensuale, desiderabile di lei attraverso il ricordo, persistente ma impotente, dell’amante del padre e della ragazza della gioventù, ugualmente erotica, del fratello più grande. Nulla otterrà se non essere sempre di più sospinto verso l’identificazione con una figura paterna che rigettata nella sua contraddittoria realtà, viene idealizzata come principio folle di azione. Questo principio fa suo, estremizzandolo e fagocitandolo, ogni tentativo di ribellione.
“Lo specchio vuoto”, lettura straordinaria di una costellazione psichica centrale nella società di oggi, è anche una metafora molto triste, ma, al tempo stesso, lungimirante, sul fallimento della rivoluzione algerina e, più in generale, di ogni rivoluzione che resta incastrata nella propria idealizzazione. C’è nella rivoluzione una dimensione luttuosa che è necessario attraversare. Da una parte essa imprime una trasformazione che è sempre traumatica, perché comporta la perdita di certezze consolidate e anche il rischio di destabilizzare valori diacronici, vivi nel loro divenire. Dall’altra comporta il lutto, rivolto all’avvenire, di ciò che potrebbe essere disatteso delle cose da costruire. Il rischio è che il posto dell’elaborazione del lutto lo prenda l’idealizzazione: questa si configura sempre come agire esemplare di “padri della patria” perché esalta l’aspetto maschile, performante dell’azione.
La rivoluzione riesce se fa parte della vita, la trasforma, non se si propone come modello astratto e ideale del vivere, come riproduzione perpetua di se stessa. Se come “Grande Storia”, passato insuperabile, colonizza, immobilizzando, il presente e occlude il futuro, diventa uno specchio vuoto in cui i singoli individui riflettendosi smarriscono immagine, desideri, ricordi.
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