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Noa Pothoven: affermazioni categoriche e domande scomode

7 Giu 19

A cura di dinange

Il suicidio di Noa, la diciassettenne svedese più volte stuprata che non è riuscita a ‘sopravvivere’ alle violenze subite ed alle profonde ferite in fondo all’anima ch’esse le hanno provocato, equivale a un pugno nello stomaco che piega in due soprattutto noi psicoterapeuti.
Leggo in rete da una parte una serie di critiche feroci, ma ‘postume’ e destinate a durare lo spazio di un elzeviro, al modello olandese di cura psichiatrica (pare che anche da quelle parti sia ‘sopravvissuto’ l’elettrochoc), di eutanasia (infantile!?!) e di suicidio assistito. Dall’altra – e quasi in opposizione a queste critiche – assisto a moti di benevola comprensione dello stato e delle istituzioni psichiatriche olandesi poiché nell’ultima scena del dramma nulla hanno fatto per ‘aiutare’ Noa a morire, rimandando semmai ogni 'assistenza' al compleanno del suo ventunesimo anno di età; col risultato di spingere la giovane a farlo ‘in tutta autonomia’, coram populo (di Instagram) e ‘circondata dall’amore dei suoi genitori’. Dall’altra ancora leggo dei vari tentativi di interpretazione basati – presumo – sui boatos che provengono dai media, e perciò come minimo azzardati.
 
Poiché però Noa aveva comunicato a chiare lettere e reiteratamente il suo proposito suicida penso che è su questo elemento ‘incontrovertibile’ che occorra riflettere: ciò che mi colpisce del suo dramma, del successivo percorso di cura e dell’altrettanto reiterata pubblicità del suo proposito suicida è la categoricità delle sue affermazioni. Mi chiedo: e se dietro questa categoricità ci fosse stata una domanda? O meglio un insieme di domande, che andavano oltre se stessa: oltre il proprio corpo e  la propria psiche. E che arrivavano alla famiglia? alla società? al rapporto fra i sessi? all’opacità della violenza maschile? al mondo della psichiatria e della psicologia che si è preso cura di lei? e infine allo Stato che, come Ponzio Pilato, se n'è lavate le mani 'fino al compimento del ventunesimo anno di età'?
E, se questo è vero, quale risposta si può pretendere da una preadolescente di dodici anni che dopo reiterati (sottolineo ‘reiterati’) abusi si pone, e pone a tutti coloro che si prendono cura di lei, queste scomode domande, ricevendo in cambio un comodo misconoscimento?
Un anno fa Noa aveva scritto un libro, intitolato “Vivere o imparare”: se ci chiediamo come mai Noa opponesse questi due termini invece di unirli penso che possiamo intuire non solo la natura del suo dramma, ma anche l’enormità delle domande implicite nelle sue affermazioni apodittiche, e le ragioni della sordità elettiva della nostra società di fronte ad esse.

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5 Commenti

  1. gerfavaretto

    La ragazza era olandese e non
    La ragazza era olandese e non svedese . Non è una cosa importante, anche se in realtà lo è per via della polemica sulla eutanasia . ma testimonia della superficialità di questo intervento . Qui sotto le mie considerazioni
    https://youtu.be/wIjQ3blu37w

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    • dinange

      olandese! mi scuso con lei e
      olandese! mi scuso con lei e con tutt*!

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  2. gerfavaretto
  3. mori@ipsnet.it

    Tutto plausibile. Non si può
    Tutto plausibile. Non si può però sostenere un TSO a vita .La libertà dell’individuo va tenuta sempre in considerazione. Mi stupisce che molti operatori della salute diano poco rilievo all’argomento.

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    • dinange

      Caro Giuseppe, ho scritto il
      Caro Giuseppe, ho scritto il post perchè mi hanno insegnato a riconoscere delle domande implicite proprio nelle affermazioni più categoriche, soprattutto in adolescenza.
      Mi insospettisce il fatto che questa povera ragazza abbia continuato praticamente a gridare sempre la stessa cosa per anni! Una psichiatria, così come una psicologia che si limitino a mettersi l’animo in pace, prendendo alla lettera le sue grida sanno di burocrazia.
      E anche tu chiediti che significa “Non si può però sostenere un TSO a vita”? pensi forse che tutto è scritto nei nostri protocolli e nelle nostre burocratiche procedure?

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