Ricordo che tra i 12 e i 13 anni ci fu un’altra figura, accanto a quella di Che Guevara[i], a svelarmi l’orrore per la disuguaglianza e l’ingiustizia del mondo capitalistico, e questi fu Raul Follerau, il filantropo e poeta francese che si sforzava di migliorare nel mondo la condizione dei malati di lebbra, e così per molti anni partecipai l’ultima domenica di gennaio alla raccolta dei fondi. E, certo, mi dà tristezza sentire come quarant'anni e oltre dopo siamo ancora lì, allo stesso punto: qualcuno costretto a campare di spazzatura, scartato da tutti. Qualcosa di sbagliato, in come è organizzato il mondo, in come è stato governato in questi quarant'anni il mondo, dev'esserci! Da allora, posso dire che la questione politica mi è parsa sempre chiara: la cosa più importante è la disuguaglianza e – se si mantengono i piedi per terra non ci si perde a guardare le stelle – le direzioni sono soltanto due: a destra, la disuguaglianza aumenta, a sinistra diminuisce (dovrebbe diminuire, se sinistra è). Finché esisterà la disuguaglianza, esisteranno anche queste due direzioni. Poi, i politici possono provare a ingarbugliare le cose, ma quello che guardo è cosa intendono fare della disuguaglianza, dell’ingiustizia tra gli esseri umani; perché tolta la disuguaglianza il resto è solo ornamento. Piuttosto semplice, infondo.
Crescendo negli anni, tra liceo e università, mi sono avvicinato e interessato sempre più alla figura di Franco Basaglia e ho perso di vista Follerau e suoi i malati di lebbra, ma non la questione della disuguaglianza estrema, però. Così, quando ho visto che il 22 maggio scorso la Comunità di Sant’Egidio aveva invitato a parlare alla Basilica dell’Annunziata a Genova un tale Grégoire Ahongbonon, che è soprannominato “il Basaglia africano”, mi sono incuriosito e sono andato a sentire di cosa si trattava; il clima dell’incontro mi ha riportato alle mie radici che qualcuno potrebbe definire catto-comuniste e mi ha fatto tornare in mente quella mia frequentazione giovanile con Raul Follerau. Interessarsi dell’ingiustizia più estrema. Ora non si trattava di malati di lebbra vittima della disuguaglianza più radicale, ma di malati di mente, però.
Grégoire è un esile uomo di colore che appare come un puntino infondo alla grande chiesa, dove siamo qualche centinaio. Al mio fianco, la statua lignea di un Cristo molto umano rappresentato nell’atto dell'essere flagellato. Ha esordito raccontando la sua storia: un uomo nato in un villaggio del Benin ed emigrato in Costa d’Avorio, di famiglia povera, che ha fatto una certa fortuna in una certa fase della vita facendo il gommista e poi il taxista, e poi è precipitato nella miseria. Una crisi depressiva molto profonda, fino a sfiorare il suicidio, l’aiuto morale e materiale di un sacerdote. In quella fase il suo ritorno a un cattolicesimo molto convinto e l’inizio della frequentazione dell’ospedale, da volontario. Ha raccontato che in Costa d’Avorio come nel vicino Benin, e come in molti altri Paesi dell’Africa, dell’Asia o dell’America Latina, chi è malato e viene portato all’ospedale, non riceve cure né assistenza se non ha i soldi per pagarle. Lì la barbarie del capitale è ancora libera di dispiegarsi in tutta la sua ferocia. E quando si dice, a proposito di migranti, “perché non stanno a casa loro?”, spesso si dimentica che “casa loro”, una casa che quotidianamente saccheggiamo in modo violento per abbellire la nostra, per molti di loro è fatta così.
Grégoire ha cominciato a cercare di portare cibo, acqua, lenzuola ai malati più poveri dell’ospedale, abbandonati a se stessi, di raccogliere fondi per pagare loro le cure, e a raccogliere intorno a sé altre brave persone, sensibili al dolore. Risale a quel periodo il suo incontro con i malati di mente, quelli che chiama i poveri tra i poveri, scarti umani in mezzo alla società costretti a vivere nudi ai margini della strada, cercando cibo nell’immondizia, scartati perché la loro incomprensibilità fa paura. Comincia a portare loro pane e acqua fresca nei luoghi dove vivono, poi riesce ad ottenere per loro una cappella abbandonata dentro l’ospedale. Non si accontenta di quelli che incontra nelle città, ma va in cerca dei malati di mente nelle campagne. Ne trova di incatenati da anni in locali insalubri della casa da parte della famiglia perché considerati “marci”, incatenati ai piedi, al collo, in casa, agli alberi. Presenta alcuni di questi casi, la voce ancora rotta dalla commozione. Un uomo era incatenato al suolo nella stessa posizione di Gesù in croce[ii], braccia e gambe bloccate dal filo di ferro; con un paio di cesoie taglia il filo e l’uomo che non stava più in piedi gli dice: «Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo». Poco dopo, esausto, spirava. Certo negli anni non è mancato l'incidente, come quando si ha a che fare con la follia, e soprattutto con la follia quando ha subito ingiustizie, è stata repressa ed ha paura, può capitare; per fortuna Grégoire può ancora raccontarlo, senza drammatizzare.
Le “cure” tradizionali, a volte basate su credenze superstiziose collegate al cattolicesimo, che Grégoire combatte, consistono in bastonature e denutrizione perché il demonio esca dal corpo del malato. In tutta la Costa d’Avorio ci sono 2 ospedali psichiatrici per 20 milioni di abitanti, e sono a pagamento. In Benin 1 per 12 milioni. In alcuni Paesi di quell’area c’è un solo psichiatra. Dal 1994 ha fondato l’associazione “Saint Camille de Lellis”, ispirata all’azione del santo fondatore tra XIV e XV secolo di un ordine ospedaliero, che gestisce oggi 10 centri d’accoglienza e 6 centri di lavoro e reinserimento, a carattere riabilitativo, per 25.000 malati e si è diffusa in Costa d’Avorio, Benin, Togo, Burkina Faso. Il Burkina Faso dove la lotta contro l’ingiustizia è costata la vita a Thomas Sankara, assassinato a 38 anni nel 1987; combatteva l’ingiustizia, è andato a toccare gli interessi neocoloniali dell’Occidente, dava fastidio. Lo staff dei Centri è formato in larga parte da ex malati che hanno scelto di fermarsi e di formarsi, malati che hanno avuto l’esperienza della malattia che aiutano quelli che la stanno attraversando. In tutto ne sono passati per i centri oltre 60.000, molti sono ritornati a casa e continuano a ricevere assistenza attraverso una rete capillare di ambulatori e farmacie.
La storia di Grégoire è narrata in un libro, la cui copertina è nell’illustrazione, nel quale troviamo decine di casi che indignano e commuovono, e viene narrata anche l’azione dell’associazione in favore dei detenuti, o di tutta la popolazione – cristiani, mussulmani, animisti – nel corso della guerra civile di qualche anno fa. Vengono riportate e confutate anche le accuse delle quali la San Camillo è stata varie volte oggetto. Naturalmente non abbiamo modo di verificarne la fondatezza, a partire dalla principale – quella di limitare a propria volta la libertà di malati, che è la stessa che veniva fatta ai contadini di Geel, protagonisti della maggiore esperienza di trattamento della follia in ambito extraistituzionale della storia – tuttavia anche se l'esperienza di Grégoire avesse dei limiti, come può essere, ciò non diminuirebbe la gravità della sofferenza della quale dà testimonia e denuncia, che rimane comunque un'accusa gravissima contro il nostro tempo, la civiltà dei semafori della quale parlava Follerau,
E così, scrive comunque Eugenio Borgna al termine della prefazione: «A Grégoire l’ammirazione, e la riconoscenza, degli psichiatri che nei malati mentali riconoscono la presenza di una umanità ferita dal dolore, e bisognosa di ascolto e di accoglienza, di tenerezza e di amore, sulla scia dell’insegnamento evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso»[iii].
A Genova, Grégoire è passato nel corso di un tour europeo perché sta cercando dei fondi; i fondi che servono per comprare in India – dove sono meno care rispetto ai mercati occidentali – le medicine necessarie per far curare i suoi malati.
Quando Grégoire ha finito di parlare, su Genova scendeva la sera e stavano iniziando i preparativi per il comizio che Casa Pound avrebbe tenuto in centro il giorno successivo. Ci sono belle persone che lavorano per rendere il mondo più umano e più giusto, migliore per tutti. Altre, no.
Crescendo negli anni, tra liceo e università, mi sono avvicinato e interessato sempre più alla figura di Franco Basaglia e ho perso di vista Follerau e suoi i malati di lebbra, ma non la questione della disuguaglianza estrema, però. Così, quando ho visto che il 22 maggio scorso la Comunità di Sant’Egidio aveva invitato a parlare alla Basilica dell’Annunziata a Genova un tale Grégoire Ahongbonon, che è soprannominato “il Basaglia africano”, mi sono incuriosito e sono andato a sentire di cosa si trattava; il clima dell’incontro mi ha riportato alle mie radici che qualcuno potrebbe definire catto-comuniste e mi ha fatto tornare in mente quella mia frequentazione giovanile con Raul Follerau. Interessarsi dell’ingiustizia più estrema. Ora non si trattava di malati di lebbra vittima della disuguaglianza più radicale, ma di malati di mente, però.
Grégoire è un esile uomo di colore che appare come un puntino infondo alla grande chiesa, dove siamo qualche centinaio. Al mio fianco, la statua lignea di un Cristo molto umano rappresentato nell’atto dell'essere flagellato. Ha esordito raccontando la sua storia: un uomo nato in un villaggio del Benin ed emigrato in Costa d’Avorio, di famiglia povera, che ha fatto una certa fortuna in una certa fase della vita facendo il gommista e poi il taxista, e poi è precipitato nella miseria. Una crisi depressiva molto profonda, fino a sfiorare il suicidio, l’aiuto morale e materiale di un sacerdote. In quella fase il suo ritorno a un cattolicesimo molto convinto e l’inizio della frequentazione dell’ospedale, da volontario. Ha raccontato che in Costa d’Avorio come nel vicino Benin, e come in molti altri Paesi dell’Africa, dell’Asia o dell’America Latina, chi è malato e viene portato all’ospedale, non riceve cure né assistenza se non ha i soldi per pagarle. Lì la barbarie del capitale è ancora libera di dispiegarsi in tutta la sua ferocia. E quando si dice, a proposito di migranti, “perché non stanno a casa loro?”, spesso si dimentica che “casa loro”, una casa che quotidianamente saccheggiamo in modo violento per abbellire la nostra, per molti di loro è fatta così.
Grégoire ha cominciato a cercare di portare cibo, acqua, lenzuola ai malati più poveri dell’ospedale, abbandonati a se stessi, di raccogliere fondi per pagare loro le cure, e a raccogliere intorno a sé altre brave persone, sensibili al dolore. Risale a quel periodo il suo incontro con i malati di mente, quelli che chiama i poveri tra i poveri, scarti umani in mezzo alla società costretti a vivere nudi ai margini della strada, cercando cibo nell’immondizia, scartati perché la loro incomprensibilità fa paura. Comincia a portare loro pane e acqua fresca nei luoghi dove vivono, poi riesce ad ottenere per loro una cappella abbandonata dentro l’ospedale. Non si accontenta di quelli che incontra nelle città, ma va in cerca dei malati di mente nelle campagne. Ne trova di incatenati da anni in locali insalubri della casa da parte della famiglia perché considerati “marci”, incatenati ai piedi, al collo, in casa, agli alberi. Presenta alcuni di questi casi, la voce ancora rotta dalla commozione. Un uomo era incatenato al suolo nella stessa posizione di Gesù in croce[ii], braccia e gambe bloccate dal filo di ferro; con un paio di cesoie taglia il filo e l’uomo che non stava più in piedi gli dice: «Signore, non so come ringraziarvi. Non capisco perché i miei genitori mi hanno fatto questo, io non sono cattivo». Poco dopo, esausto, spirava. Certo negli anni non è mancato l'incidente, come quando si ha a che fare con la follia, e soprattutto con la follia quando ha subito ingiustizie, è stata repressa ed ha paura, può capitare; per fortuna Grégoire può ancora raccontarlo, senza drammatizzare.
Le “cure” tradizionali, a volte basate su credenze superstiziose collegate al cattolicesimo, che Grégoire combatte, consistono in bastonature e denutrizione perché il demonio esca dal corpo del malato. In tutta la Costa d’Avorio ci sono 2 ospedali psichiatrici per 20 milioni di abitanti, e sono a pagamento. In Benin 1 per 12 milioni. In alcuni Paesi di quell’area c’è un solo psichiatra. Dal 1994 ha fondato l’associazione “Saint Camille de Lellis”, ispirata all’azione del santo fondatore tra XIV e XV secolo di un ordine ospedaliero, che gestisce oggi 10 centri d’accoglienza e 6 centri di lavoro e reinserimento, a carattere riabilitativo, per 25.000 malati e si è diffusa in Costa d’Avorio, Benin, Togo, Burkina Faso. Il Burkina Faso dove la lotta contro l’ingiustizia è costata la vita a Thomas Sankara, assassinato a 38 anni nel 1987; combatteva l’ingiustizia, è andato a toccare gli interessi neocoloniali dell’Occidente, dava fastidio. Lo staff dei Centri è formato in larga parte da ex malati che hanno scelto di fermarsi e di formarsi, malati che hanno avuto l’esperienza della malattia che aiutano quelli che la stanno attraversando. In tutto ne sono passati per i centri oltre 60.000, molti sono ritornati a casa e continuano a ricevere assistenza attraverso una rete capillare di ambulatori e farmacie.
La storia di Grégoire è narrata in un libro, la cui copertina è nell’illustrazione, nel quale troviamo decine di casi che indignano e commuovono, e viene narrata anche l’azione dell’associazione in favore dei detenuti, o di tutta la popolazione – cristiani, mussulmani, animisti – nel corso della guerra civile di qualche anno fa. Vengono riportate e confutate anche le accuse delle quali la San Camillo è stata varie volte oggetto. Naturalmente non abbiamo modo di verificarne la fondatezza, a partire dalla principale – quella di limitare a propria volta la libertà di malati, che è la stessa che veniva fatta ai contadini di Geel, protagonisti della maggiore esperienza di trattamento della follia in ambito extraistituzionale della storia – tuttavia anche se l'esperienza di Grégoire avesse dei limiti, come può essere, ciò non diminuirebbe la gravità della sofferenza della quale dà testimonia e denuncia, che rimane comunque un'accusa gravissima contro il nostro tempo, la civiltà dei semafori della quale parlava Follerau,
E così, scrive comunque Eugenio Borgna al termine della prefazione: «A Grégoire l’ammirazione, e la riconoscenza, degli psichiatri che nei malati mentali riconoscono la presenza di una umanità ferita dal dolore, e bisognosa di ascolto e di accoglienza, di tenerezza e di amore, sulla scia dell’insegnamento evangelico: ama il prossimo tuo come te stesso»[iii].
A Genova, Grégoire è passato nel corso di un tour europeo perché sta cercando dei fondi; i fondi che servono per comprare in India – dove sono meno care rispetto ai mercati occidentali – le medicine necessarie per far curare i suoi malati.
Quando Grégoire ha finito di parlare, su Genova scendeva la sera e stavano iniziando i preparativi per il comizio che Casa Pound avrebbe tenuto in centro il giorno successivo. Ci sono belle persone che lavorano per rendere il mondo più umano e più giusto, migliore per tutti. Altre, no.
[i] Cfr. in questa rubrica: 50 anni fa la morte di Guevara, POL. it, 9/10/17.
[ii] Ricordo una poesia pubblicata negli anni ‘60 da un internato sulla rivista Questo nostro ambiente, redatta un gruppo di internati dei manicomi genovesi: «Se fossi pittore / darei alla croce / l'immagine di un letto / al letto l'immagine di una croce / al Cristo che sonnecchia /almeno la parvenza / di un vero dio».
[iii] Della psichiatria gentile di Eugenio Borgna è possibile trovare molti contributi scritti e orali in Pol. it. Per questa rubrica, ricordo le recensioni a due volumi: Recensione. L’ascolto gentile di Eugenio Borgna, POL. it, 24/3/18; La nostalgia ferita: note a lato di un saggio di Eugenio Borgna, POL. it, 29/7/18.
Stamane su linkedin ho
Stamane su linkedin ho trovato un articolo di Paolo Peloso.Bellissimo, mi ha fatto tornare indietro nel tempo e dove i suoi eroi erano i miei. Mi sono vergognata. Non trovo parole, ne’ pensieri per capire il cambiamento. Sono la “siura” che da’ ai poveri il sovrappiu’ ma si è’ creata una distanza.
Silenzio, voglio risentire la voce della vita.
Grazie infinite per queste
Grazie infinite per queste belle parole; rispetto il tuo silenzio e credo che esperienze e vicende come questa inducano tutti noi a riflettere con più profondità su noi stessi e sul mondo, come sta andando.