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Giorni e nuvole: la perdita di lavoro ovvero la soggettività e le preesistenze nei life stress events

2 Ott 12

Di A_SIBILLA@libero.it

Ho creato un sottotitolo un po’ criptico e pretenzioso perché vedendo il film di Soldini "Giorni e nuvole" ho immediatamente collegato la storia che si svolgeva sullo schermo al dibattito sulla natura e consistenza dei cosiddetti traumi nella genesi d’alcune malattie psichiche (discussione ad esempio presente nei due numeri monografici di Noos, 44 e 45, sul Disturbo Post Traumatico da Stress). Parlando di traumi mi riferisco ad incidenti improvvisi e imprevisti che inducono ferite psicologiche con effetti protratti. Nella scelta del film e dei sottotitoli della recensione viene fuori la mia esperienza attuale di psichiatra che opera in tribunale e affronta numerosi contenziosi medico legali sulla presenza di danno biologico e relativo risarcimento in persone che hanno subito un grave evento negativo, che può andare dalla morte di un congiunto alla perdita di lavoro. In particolare sono stato colpito da un uomo che dopo aver perso il lavoro, come i protagonisti del film di Soldini, usciva di casa unicamente per frequentare dei corsi di formazione. Era l’unica attività che dava un senso alla sua perdita e non lo faceva sentire un inetto. Gli aspetti soggettivi passano in secondo piano nella discussione forense e lo psichiatra non può essere autoreferenziale e si deve confrontare con una cultura differente, quella della Medicina Legale, che tende a rivendicare una visione oggettiva del danno, con uso di scale, tabelle, correzioni e così via per arrivare ad una quantificazione. In quest’impegno ho tutelato individui che avevano perso il lavoro a causa d’incidenti o litigi con i datori di lavoro. Nel dibattito medico legale l’analisi diventa spesso difficile per il tentativo di rendere oggettivo un danno in una situazione in cui gli elementi di soggettività sono importanti. Noi Psichiatri dovremmo essere i teorici e i difensori della soggettività. ma la storia individuale e il legame con l’oggetto perso viene spesso definito "la preesistenza" e nella discussione con colleghi non psichiatri ( purtroppo anche con alcuni psichiatri …) vengono sottolineate le caratteristiche patologiche precedenti al trauma e una mancata reattività viene imputata a tratti di personalità patologici. Questo atteggiamento non è frutto di malafede, ma corrisponde ad una visone "oggettiva"e di conseguenza idealizzata delle perdite.

Il bel film di Soldini può aiutare a comprendere il rapporto evento persona nella perdita del lavoro. In breve la storia. Protagonista è una famiglia strutturalmente "normale": Elsa e Michele genitori ben inseriti nel ceto medio alto, senza problemi economici e con interessante vita sociale e culturale. Hanno una figlia ventenne che si sta sperimentando nella indipendenza e nella vita sentimentale e nella autonomia lavorativa e che ha un rapporto "normalmente" difficile con il padre. Michele (Antonio Albanese) un imprenditore navale che non riesce ad affrontare l’avanzante durezza del mercato globale, è messo in minoranza nell’azienda che ha fondato.
Il nuovo manager, invisibile, ma decisivo, si disinteressa dei rapporti umani con i dipendenti, pensa unicamente al fatturato e dopo avergli tolto tutto il potere compreso quello derivante dal rapporto di amicizia con l’altro socio fondatore, costringe Michele a licenziarsi. Michele inizialmente nasconde alla moglie il suo dramma, anzi la lascia laureare e le offre una ricca festa per l’avvenimento. Il film descrive una perdita o se vogliamo utilizzare una dizione più moderna un evento traumatico. Ricordo che nella scala di Rahe Holmes che descrive e pesa i Life Stress events, la perdita del lavoro ha una posizione di rilevanza intermedia tra il massimo attribuito alla morte di un famigliare stretto e il minimo per cambiamenti nelle abitudini di vita. Dopo la confessione inizia l’evoluzione psicopatologica, descritta con toni narrativi contenuti e in maniera credibile. In un primo momento come Giobbe, si rivolge la domanda cruciale. "Perché proprio a me ?", ovviamente senza trovare una risposta convincente. Per usare un termine tecnico (Castrogiovanni in Noos n° 44)emerge il problema della non concernenza per evenienze gravi in altre parole il venir meno dell’equazione cognitiva tra improbabile e impossibile. Ciascuno di noi pensa che alcuni eventi sono non solo eccezionali per noi, ma anche impossibili. Su questo costrutto cognitivo si basano numerose rassicurazioni.
Michele cerca di "farsene una ragione" e cerca un lavoro che pensa adeguato alle sue competenze con una richiesta di salario idealizzata, perché riferita ad un passato ormai smarrito. Passa da un rifiuto all’altro, pur abbassando le sue richieste, con continue sconfitte. Il degrado individuale e sociale è accompagnato da una progressiva riduzione degli spazi in cui Michele vive. Si trasferisce da un alloggio ampio arredato con gusto e con spazi a disposizione per tutti, ad un piccolo appartamento, con gli oggetti di pregio chiusi in scatole e svenduti. La moglie, Elsa (Margherita Buy) gli sta vicino, ma la perdita del lavoro e del ruolo sociale sembra una tragedia difficilmente condivisibile. Differente è la risposta psicologica della donna, che, dopo il primo momento di sconcerto, è più attiva e trova la forza e l’opportunità di riprendere l’attività lavorativa fatta in passato, rinunciando all’occupazione di restauratrice d’opere d’arte, attività di prestigio e dignitosa, ma senza profitto. Questo è un aspetto fondamentale che differenzia l’evento capitato a Michele dai problemi precariato. Quello di Michele è un problema di lutto: aveva un ruolo sociale ben definito e stabilizzato che gli dava sicurezza nella sua vita individuale e sociale e nelle sue proiezioni cognitive per il futuro. Per questo motivo si sente estraneo agli amici di una volta e pensa che possano capire il suo dramma soltanto i suoi operai che, come lui, sono allontanati dal lavoro. Insieme con loro fa gruppo e abbandona la ricerca di un lavoro intellettuale e riesce a fare lavori di restauro d’alloggi, ritrovando per un attimo una dignità e rapporti umani non umilianti.
Soldini è molto abile nel sottolineare che il valore del lavoro è principalmente nella dimensione sociale e anche il guadagno per Michele è occasione per stare con gli altri in una condizione non mortificante. Ma la storia procede in maniera drammatica e i suoi amici operai sono reintegrati in fabbrica e Michele nella scena più angosciante del film scopre la solitudine più profonda e di non essere all’altezza del lavoro di tappezziere e scappa, rifugiandosi, in senso non metaforico, sotto le coperte. Inizia per Michele la fase più difficile, quella del distacco, la depressione. In questo momento anche la moglie non riesce ad aiutarlo, assumendo atteggiamenti d’incitamento, spingendolo a reagire e a non lasciarsi andare. Quante volte abbiamo sentito queste frasi, così comuni nei parenti dei nostri depressi e spesso anche noi psichiatri le utilizziamo, facendo riferimento alle cosiddette "parti sane dell’Io". Ovviamente questi stimoli ad agire non ottengono alcun risultato e Michele resta sotto le coperte sempre più apatico. Nella conclusione della storia, Michele è salvato dalla figlia, che gli offre un lavoro in cui può mettere le sue competenze. Dopo questa opportunità, ricerca la vicinanza della moglie e il film finisce senza ottimismo e senza tragedia, con un futuro possibile, ma non necessariamente raggiungibile. La frase decisiva di Michele è "ho capito che come prima non ritornerò più". Non è un’affermazione banale, ma è l’elaborazione del lutto a partire dalla constatazione che si può investire su altri oggetti, ma questo non può compensare la perdita subita. A mio parere non è poco in un’epoca storica in cui le perdite sono minimizzate, esorcizzate e anche i funerali sono spettacoli superficiali in cui si applaudono le bare.

Il film di Soldini è molto attento a descrivere i vari passaggi psicologici della crisi di Michele, costruendo una ricca galleria di meccanismi difensivi e ricca d: la negazione, la rabbia, il distacco, ’impotenza, l’helpessness. La narrazione è apparentemente sotto tono, ma ricca di sfumature e quindi credibile e mi ha scatenato meccanismi d’identificazione profondi. Invito a vedere il film e ad immedesimarsi in questa storia narrata così bene, ma vorrei riprendere il problema iniziale sulla cosiddetta personalità premorbosa. Esiste o è un concetto astratto che ci tutela di fronte al grave impatto emotivo che si prova di fronte alla perdita totale di certezze? Come reagiremmo noi in una tale situazione? È ovvio che tanto più un trauma o meglio una perdita attiva meccanismi di carattere psicologico individuale, tanto più sarà probabile l’insorgenza di psicopatologia. Bisogna però dire che alcuni eventi hanno un valore rilevante e universale talmente netto e andare a ricercare una patologia preesistente rischia di essere una razionale rassicurazione di fronte alla reazione emotiva che proviamo. In fondo ci si trova di fronte all’impotenza per un evento che consideriamo eccezionale che diventa improvvisamente possibile e cambia tutti i nostri schemi cognitivi e i nostri punti di riferimento. Chi di noi non ha una personalità premorbosa?

Tra i tanti meriti che ha il film, uno non secondario è quello di aver narrato con competenza una storia di gente comune, che utilizza meccanismi comuni, senza riuscire ad impedire la discesa nell’angoscia dell’helplessness.


Nota di Redazione: Come genovese non posso non segnalare una particolarità stilistica del film di Soldini: vi è una coerenza molto forte nelle locations scelte dal regista per le riprese in esterni del film.
Mai mi era capitato di vedere un film girato nella mia città in cui l'ambientazione fosse stata curata in questa maniera meticolsa e precisa oserei dire filologica: non vi è scena in cui gli interpreti escano da una porta, percorrano una strada e non si ritrovino, in successione temporale precisamente nel posto corrispondente nella realtà. 
E' un fatto da rimarcare poiché ha poco peso nell'equilibrio narrativo della vicenda ma non può non essere segnalato visto che in genere non accade, nel momento in cui una città fa da sfondo ad una vicenda ma i luoghi vengono scelti spesso in funzione drammaturgica certo ma anche in funzione della comodità di realizzazione delle riprese.
Chi non vive a Genova non può aver colto questo aspetto, se vogliamo affettuosamente documentaristico, in un film che è anche un omaggio ai luoghi della mia città raramente ripresa con tanto realismo e tanta maestria.
Francesco Bollorino]

 

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