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LA FRAGILITA’ DELLO PSICHIATRA E DELLA PSICHIATRIA

8 Set 19

A cura di gilbertodipetta

Lettera a Repubblica (edizione napoletana) del 5 settembre 2019

Egregio Direttore,
nel dibattito che sta avendo luogo sulle colonne di questo Giornale, a proposito delle pratiche della Salute Mentale e del livello di soddisfazione dei cittadini-utenti, mosso dal caso del giovane paziente deceduto a Napoli per cause ignote, e dalle rivendicazioni della madre rispetto alla presa in carico territoriale, mi pare che poca risonanza abbia avuto la questione degli SPDC, ovvero dei repartini psichiatrici di emergenza, dislocati presso (alcuni) ospedali civili. Le scrivo da uno di questi,  nell’immediata periferia di Napoli, durante una notte di guardia. Il reparto è pieno (12 posti letto), e se stanotte mi arriva un’emergenza, come arriverà, io non so dove ricoverarla. Ovvero dovrò fare un sovrannumero. I posti letto previsti dalla L. 180/78 (1 ogni 10.000) abitanti non li abbiamo mai avuti. Anzi, viaggiamo molto al di sotto. Questo significa avere i nostri reparti sempre sul punto di traboccare, con pazienti da dimettere precocemente, spesso affidati a strutture convenzionate per il decorso post-acuto. Il nostro ruolo è di spegnere l’incendio dello scompenso psicotico acuto nel più breve tempo possibile e poi smistare il paziente, o al territorio, o in una struttura. Negli ultimi anni la nostra situazione è drasticamente peggiorata per una serie di fattori : 1) dalle 20.00 alle 08.00 e nei festivi il 118 porta i pazienti direttamente da noi senza alcun filtro territoriale; 2) l’incremento di sostanze stupefacenti stimolanti nella popolazione dei giovani ha prodotto molti shock psicotici acuti, intrattabili al di fuori di un ambiente ospedaliero; 3) adolescenti e minori con turbe del comportamento “dirompente” vengono condotti da noi, poiché non è previsto alcun altro presidio contenitivo in fase acuta; 4) anziani dementi con gravi turbe del comportamento vengono condotti da noi; 5) pazienti autori di reato con manifestazioni comportamentali abnormi o con riconosciute sindromi psichiatriche vengono condotti da noi.




Gli spazi a nostra disposizione sono esigui. Non sono previsti percorsi differenziati per diagnosi diverse o per classi di età. Non abbiamo personale riabilitativo, completa assenza di psicologi, i turni di guardia sono spesso ad un medico solo e le squadre degli infermieri sono risicate e logore. Molta parte della nostra energia si consuma in PS, dove il paziente genericamente agitato viene condotto, perché abbia da parte dei medici internisti una valutazione pari a quella che avrebbe un soggetto non etichettato psichiatricamente. Questa operazione di diagnosi differenziale non è semplice. Soprattutto quando il paziente non è collaborante. Per il personale ospedaliero il paziente etichettato psichiatrico dovrebbe venire direttamente nel nostro repartino. A questo aggiungasi che molti dei nostri pazienti psichiatrici “cronici” hanno contratto malattie organiche e, a maggior ragione, all’atto del ricovero è importante che lo screening medico sia accurato. Facciamo fronte come possiamo al disagio delle famiglie che credono ancora che il paziente una volta ricoverato da noi non esca più, o che non hanno la minima idea di cosa sia il disturbo mentale. Desidereremmo avere più tempo per parlare tra di noi, con gli infermieri, e con il mondo esterno. Desidereremmo non essere vissuti semplicemente come quelli che “chiudono i matti” quando non c’è più altro da fare. Ci sentiamo sempre più soli, sia rispetto al territorio che rispetto al resto dell’ospedale, e nonostante tutto cerchiamo di fare il nostro lavoro anteponendo a tutto la dignità del paziente. Non sempre, purtroppo, riusciamo a salvare la nostra. Ogni volta, e lo facciamo spesso, che rimandiamo a casa chi invece ci chiede di essere ricoverato, perdiamo la tranquillità. Crediamo, forse a torto, di essere finiti in un buco nero del discorso, ovvero siamo quelli di cui non si parla, che fanno il lavoro sporco, che attuano l’orribile TSO, che praticano terapie contro la libertà. Per noi ogni paziente che, uscendo, ci sorride e ci stringe la mano, ricordando l’ostilità con cui è entrato, è un motivo per andare avanti. Non voglio essere polemico con nessuno. Né chiedere attenzione maggiore di quella che qualunque essere umano nella fase più acuta della sua rottura mentale ed esistenziale merita.  Spero soltanto che questa lettera serva a far capire che sotto questi camici, e dietro le grate delle nostre finestre, ci sono esseri umani come gli altri, forse fragili più degli altri, che alla cura degli altri sono deputati, quando il loro mondo precipita nel buio e tutte le buone, vere o finte, parole degli altri finiscono. La ringrazio, per questo, dello spazio che ci ha dedicato.

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