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IL BIOFEEDBACK APPLICATO ALLO SPORT

9 Set 19

A cura di davide.mate

di Dott.ssa Stefania Straniero, Istituto Universitario Salesiano Venezia

INTRODUZIONE

Per diversi decenni, nel mondo dello sport, si è potuta osservare una netta separazione tra gli aspetti neurofisiologici dell’atleta e l’allenamento fisico e tecnico, come se fossero due ambiti inconciliabili, spostando totalmente il focus sull’allenamento muscolare e del gesto atletico, considerati elementi centrali per ottenere prestazioni ottimali.

Potenziare la massa muscolare è relativamente semplice se si segue un allenamento costante costruito ad hoc per l’atleta, ma ciò che permette di distinguere un buon atleta da un campione è la capacità di gestire i processi psicofisiologici attraverso una modulazione consapevole del sistema nervoso centrale.

Questa abilità è fondamentale perché influenza notevolmente i fattori fisici correlati al gesto atletico, come l’incremento della velocità di esecuzione, la potenza, la precisione di un movimento e la resistenza.
 

ORIGINI DEL BIOFEEDBACK E PRIME APPLICAZIONI NELL’AMBITO SPORTIVO

L’origine del Biofeedback risale agli anni ’60 negli Usa, grazie alle ricerche di numerosi studiosi comportamentisti. I primi studi sono stati condotti da Miller sul condizionamento cardiovascolare che mettono in luce la correlazione tra gli stati emozionali e i processi fisiologici.

Le prime riflessioni sull’applicazione dei principi della psicofisiologia nell’ambito sportivo e di come questi influenzino la preparazione e la prestazione, sono state presentate nel 1970 da Green e Walters. Questi due ricercatori sono stati i primi a cogliere come l’aspetto fisiologico influenzi quello mentale ed emozionale e come, viceversa, ad ogni cambiamento mentale ed emozionale, consapevole o inconsapevole, vi sia un corrispondente cambiamento dello stato fisiologico.

Gli psicologi dello sport hanno studiato e sperimentato numerose tecniche e strategie per ridurre lo stress, potenziare il senso di autoefficacia e le capacità attentive, senza però possedere una procedura che permettesse loro di monitorare e verificare se e come gli atleti interiorizzassero queste tecniche.

Per queste ragioni gli sperimentatori hanno iniziato a spostare il loro interesse nei confronti di una nuova procedura scientifica chiamata Biofeedback, la quale consente all’atleta di divenire consapevole dei propri processi interni, riuscendo ad “oggettivare” i processi mentali sottostanti la prestazione sportiva, rendendoli in questo modo “controllabili”. Finalmente negli anni ’80 questa procedura ha iniziato ad acquisire credibilità, spostando l’attenzione degli psicologi dello sport sugli aspetti psicofisiologici degli atleti e di come questi possano influenzare la performance.

Questo significa che un training di Biofeedback permette all’atleta di diventare consapevole di determinati processi psicofisiologici solitamente involontari e porli, entro certi limiti, sotto un controllo volontario, riuscendo a stabilire delle associazioni significative tra lo stato emozionale soggettivo e l’attività fisiologica. “Questo è reso possibile grazie all’utilizzo di una strumentazione costituita da specifici sensori in grado di rilevare determinati parametri psicofisiologici come la respirazione, la variabilità cardiaca, la conduttanza cutanea, l’aritmia sinusoidale respiratoria, l’elettromiografia di superficie e la temperatura periferica, trasformando i segnali rilevati in feedback di tipo acustico e/o visivo in tempo reale."1

Inizialmente gli psicologi dello sport hanno utilizzato il Biofeedback sia per permettere agli atleti di modificare il proprio stato di attivazione che nella ricerca applicata in questo ambito, con l’obiettivo di identificare gli stati psicofisiologici ottimali per incrementare la performance sportiva.
Per questo motivo la prima vera applicazione del Biofeedback nell’ambito sportivo è avvenuta nel 1983, quando Zaichkowsky l’ha utilizzato per modificare lo stato di attivazione emozionale degli atleti.”2

Dagli studi e dalle ricerche è emerso che questo strumento aiuta l’atleta a migliorare la sincronia tra mente e corpo, facilitando il raggiungimento di uno stato di omeostasi dell’organismo che favorisce il benessere e quindi una reazione resiliente allo stress.

Il training di Biofeedback contribuisce a sviluppare nell’atleta la consapevolezza della correlazione tra stati emotivi e stati fisiologici, permettendogli di riconoscere le proprie emozioni e di apprendere delle strategie specifiche per gestirle. Ne consegue che, quando l’atleta si trova a dover esprimere al massimo le proprie potenzialità, possiede uno strumento per gestire le emozioni disfunzionali che potrebbero compromettere la performance. Avere la consapevolezza di poter gestire le proprie emozioni attraverso la modulazione dei processi fisiologici, trasmette all’atleta un maggior senso di controllo e sicurezza, elementi indispensabili per alimentare la percezione della propria autoefficacia.

 

MODELLI DI RIFERIMENTO

Il Biofeedback assume come modello di riferimento quello bio-psico-sociale, ovvero una strategia di approccio alla persona considerata parte integrante del contesto nella quale è inserita, prestando attenzione agli aspetti organici, mentali e relazionali in quanto si influenzano vicendevolmente.3

Per comprendere meglio come funziona questa procedura è necessario approfondire i modelli moderni che spiegano il funzionamento dei meccanismi cerebrali e dei substrati coinvolti nell’integrazione dei segnali del corpo con gli stati psicologici, quali l’umore, le emozioni e lo stress. Questi modelli si concentrano principalmente su meccanismi specifici, come l’inibizione/attivazione del sistema nervoso simpatico e parasimpatico attraverso l’attività del nervo vago. Il modello più recente è quello di Thayer e Lane sull’integrazione neuro-viscerale. Questo modello suggerisce che i meccanismi top-down e bottom-up condividano lo stesso insieme di processi fisiologici, caratterizzati da percorsi bidirezionali che forniscono linee di comunicazione tra mente/cervello e corpo.

I meccanismi top-down si attivano mediante l’elaborazione mentale a livello della corteccia cerebrale e, attraverso vie discendenti, influenzano la periferia. I meccanismi bottom-up, invece, sono attivati dalla stimolazione di specifici recettori somato-sensoriali, viscero-sensoriale e chemio-sensoriale che influenzano le attività mentali attraverso vie ascendenti, le quali, partendo dalla periferia, giungono al tronco encefalico e alla corteccia cerebrale.

Lo scopo del training di Biofeedback è quello di modificare direttamente, attraverso il controllo volontario del soggetto, le risposte cognitive, motorie e neurovegetative disregolate attraverso l’apprendimento di un’autoregolazione sempre più sofisticata.

Con il termine disregolazione, introdotto da Schwartz nel 2003, si indica un processo attraverso il quale i fattori ambientali possono modulare il sistema nervoso centrale, l’omeostasi dell’organismo, l’autoregolazione ed il controllo degli organi periferici.

Il training di Biofeedback viene impiegato per intervenire direttamente in questo processo disfunzionale, con l’obiettivo di fornire un nuovo ciclo di feedback positivi che possano aiutare l’individuo a riportare il proprio organismo in uno stato di omeostasi.

 

STUDI E RICERCHE SUL BIOFEEDBACK APPLICATO ALL’AMBITO DELLO SPORT

Tra gli studi più significativi riguardanti l’applicazione del Biofeedback nell’ambito sportivo, spicca quello che ha investigato una procedura per poter trasferire le abilità di autoregolazione, apprese assieme allo psicologo, dal setting alle reali condizioni di allenamento. A tal proposito Blumenstein e Weinstein, nel 2002, forniscono una procedura chiamata “Wingate 5-Step Approach”, caratterizzata da cinque fasi e dai relativi test che servono a valutare il livello di autoregolazione dell’atleta prima di ogni fase.

Le prime tre fasi vengono svolte assieme allo psicologo e sono le seguenti:

  1. Fase 1: è una fase educativa durante la quale vengono spiegate all’atleta alcune tecniche di allenamento mentale (10-15 incontri, della durata di 55-60 minuti, 2-3 volte alla settimana);
  2. Fase 2: fase di identificazione e rinforzo delle modalità di risposta fisiologica più efficienti rilevate dal Biofeedback (10-15 sessione);
  3. Fase 3: questa fase si concentra sulla simulazione e gli atleti svolgono un training mentale che richiami situazioni analoghe al campo d’allenamento. Per questo motivo vengono presentati degli stimoli caratterizzati da fattori stressanti, con l’obiettivo di implementare le capacità dell’atleta di autoregolare il proprio stato di attivazione anche quando si trova sotto pressione (15 incontri della durata di 50-60 minuti, per 2-3 volte alla settimana).

Le ultime due fasi, invece, si svolgono nel campo d’allenamento e nel campo gara:

  1. Fase 4: l’atleta si prepara mentalmente per una competizione imminente, utilizzando un Biofeedback portatile. Lo scopo principale è quello di permettere all’atleta di entrare nel vivo della competizione e di migliorare le proprie abilità autoregolative (10-15 incontri);

  2. Fase 5: gli atleti utilizzano in gara le tecniche mentali acquisite precedentemente.

Un altro ambito indagato con molto interesse da parte degli psicologi dello sport è quello riguardante i livelli ottimali di attivazione emotiva. Lo stato d’animo positivo è una componente molto potente ai fini di una buona prestazione, in particolare nelle situazioni in cui è fondamentale essere resilienti. Un corretto training di Biofeedback permette all’atleta di diventare consapevole delle proprie emozioni, individuando quelle maggiormente funzionali per la prestazione. In questo modo egli può imparare a gestire l’intensità delle proprie emozioni e raggiungere uno stato di attivazione ottimale prima della competizione e mantenerlo per tutta la durata di questa.

Un obiettivo del training è quello di permettere all’atleta di entrare nella zona di funzionamento ottimale attraverso un allenamento sistematico, in modo che possa riuscire a riprodurre quello stato prima e durante le competizioni.

Inoltre, la prestazione è influenzata dall’ansia competitiva che risulta essere l’emozione prevalente vissuta dalla maggior parte degli atleti. La frequenza cardiaca, l’elettromiografia, la respirazione e la conduttanza cutanea sono variabili che permettono di identificare quali siano gli atleti che riescono a gestire al meglio l’ansia, utilizzando strategie di autoregolazione per le componenti somatiche e cognitive dell’ansia.

Negli ultimi anni il Biofeedback è stato largamente utilizzato per aiutare gli atleti che praticano sport di precisione, come quelli di tiro, con l’obiettivo di raggiungere un maggiore controllo degli elementi cognitivi e fisici. Attraverso un training di Biofeedback è possibile abbassare i livelli di ansia competitiva per gli atleti iper-attivati e, al contrario, alzare i livelli di ansia competitiva per gli atleti ipo-attivati. È importante dunque individuare quali siano i livelli di baseline dell’atleta in modo tale che, attraverso la procedura del Biofeedback, egli impari ad autoregolarsi prima della competizione, in modo da raggiungere uno stato psicofisiologico funzionale che gli permetta di esprimere al massimo le proprie potenzialità durante la prestazione.

 

CONCLUSIONI

Considerando la metodologia di lavoro che affianca il Biofeedback, è importante approcciarsi a questo come una procedura e non come un semplice strumento.

Bisogna quindi inserirlo all’interno di un contesto di psicologia clinica o di psicologia della salute, avvalersi di metodi e tecniche mirate ed integrarlo con un modello di riferimento generale.

Proprio perché il Biofeedback è visto come una procedura, risulta fondamentale inserirlo all’interno di una relazione psicologo/atleta collaborativa. Questo perché l’alleanza è l’elemento cardine che permette il cambiamento: attraverso l’incontro con l’altro è possibile creare i presupposti e le condizioni del lavoro che si andrà a fare insieme. Questi elementi diventano l’essenza stessa del lavoro e lo psicologo deve guardare la persona nella sua interezza, senza rinchiuderlo in una semplice etichetta, in modo tale da lavorare sul miglioramento della performance in un’ottica di benessere.

 

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA

  • BECCHI Maria Angela-CARULLI Nicola, Le basi scientifiche dell’approccio bio-psicosociale. Indicazione per l’acquisizione delle competenze mediche appropriate, in Internal and Emergency Medicine 4.
  • BLUMENSTEIN Boris-WEINSTEIN Yitzhak, Biofeedback Training: Enhancing Athletic Performance, in Biofeedback 39 (2011).
  • SACCO Giuseppe-TESTA Donato, Biofeedback e psicosomatica. Teorie e applicazioni, Milano, FrancoAngeli, 2012.
  • SCHWARTZ Jeffrey M.-ANDRASIK Frank, Biofeedback” Third Edition, a Pratictioner’s Guide, New York, The Guilford Press, 2003.
  • TAYLOR Ann Gill et al., Top-down and Bottom-up Mechanisms in Mind-Body Medicine: Development of an Integrative Framework for Psychophysiological Research, in Explore (NY), 2010 January; 6(1):29.
  • L’applicazione del Biofeedback nella psicofisiologia dello sport e nell’allenamento http://www.mypersonaltrainer.it/biofeedback-sport.html, 2015.

1 Giuseppe SACCO – Donato TESTA, Biofeedback e psicosomatica. Teorie e applicazioni, Milano, FrancoAngeli, 2012, 13.

2 L’applicazione del Biofeedback nella psicofisiologia dello sport e nell’allenamento http://www.mypersonaltrainer.it/biofeedback-sport.html, 2015.

3 Maria Angela BECCHI- Nicola CARULLI, Le basi scientifiche dell’approccio bio-psicosociale. Indicazione per l’acquisizione delle competenze mediche appropriate, in Internal and Emergency Medicine 4, 3.

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