Introduzione di Sergio Mellina
Ho letto l’interessante riflessione fatta da Giorgia Tisci e Giuseppe Ceparano su Pol.It. del 15 agosto 2017 a proposito dell’intrusione e del concetto del filosofo francese Jean-Luc Nancy che deriva dal suo testo “L’intruso”. La citazione dei due studiosi è ripresa anche da Gilberto Di Petta, mentre parla con Guenda Bernegger nell’appassionante colloquio-intervista sul tema “Al termine della psichiatria“ [01]. In effetti l’essere estraneo ad alcunché, trovarsi fuori contesto, essere cacciato o non accettato in un gruppo, ha implicazioni in molte e svariate direzioni. Due, quelle principali. La prima, rispetto alla nostra o alle altre collettività umane di cui facciamo parte, tema sociologico e politico che tratteremo magari un’altra volta. La seconda, rispetto alla nostra interiorità, quella più profonda, dove raramente andiamo a ficcare il naso, se non proprio costretti. Questa direzione, la parte inconsapevolmente occulta di noi stessi, quella che dovremmo ricordarci di andare (ogni tanto) ad interrogare, per scuola socratica, il dentro dell’essere, è proprio l’argomento che voglio prendere “in mano” oggi, per introdurre un saggio di Antonino Lo Cascio sui “trapianti”. È un modo per rievocare il mese di nascita dell’amico fraterno. Il nostro mese settembrino di sodali “pignoli” fino ad attingere vette di patofenomenologia anancastica. Ma anche il laborioso settembre dannunziano della transumanza dei suoi pastori. A un mese dalla scomparsa, richiamarlo un po’ tra noi, appassionati di Pol.It., mi pare giusto tributo al suo valore di maestro junghiano. La presentazione di questo suo vecchio lavoro è propiziata da varie circostanze favorevoli. Certo si è che sul “dono“ ci aveva lavorato parecchio. Non dico quanto Marcel Mauss (1872-1950), il famoso antropologo francese di Epinal, (Grand Est), ma quasi altrettanto intensamente, perchè riteneva che lo scambio, il regalo, il passaggio di alcunché da un soggetto ad un altro, non soltanto nelle “società arcaiche“, ma ancor oggi nella collettività degli umani, andasse esaminato a fondo. Esso celava, a suo dire, una complessa dinamica di scambi transattivi, di intenzioni negoziali e di attività diplomatiche di insospettate capacità e significati sociali [02].
«“L’intruso si introduce di forza […] senza permesso e senza essere stato invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero ché, altrimenti, perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno […] non è più l’intruso ma non è più nemmeno lo straniero” (pag. 11)». Sono Tisci e Ceparano che argomentano con forza la loro tesi usando il pensiero di un filosofo francese decostruttivista [03], trapiantato di cuore, citato fin dall’inizio, prima che si possa ingenerare confusione. Infatti, poi riprendono «Parole tratte dal testo “L’intruso” del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Parole, così come l'intero testo, che hanno richiamato alla mente quanto, oggi, sia forte la paura verso lo straniero e quanto forte sia anche la pressione affinché questa paura resti tale, o addirittura aumenti … In realtà l’intruso, lo straniero, non è solo l’immigrato che, quando gli va bene, approda sulla nostra terra, con efficacia. L'intruso, per esempio, può essere anche un organo trapiantato, un tumore che cresce, il componente di una famiglia “allargata”, un nuovo collega di lavoro, una persona che non la pensa come noi e, può essere anche, una parte di noi» [04]. Per inciso, su codesto approdo di disperati, Erri De Luca stigmatizza precisando che giungono «su canotti con motorini da 40 cavalli, non su gommoni».
Jean-Luc Nancy, nel 1992 si accorge di avere una serio disturbo cardiocircolatorio per cui subisce un trapianto di cuore. Riceve il cuore di una giovane donna. Questa esperienza trasforma radicalmente il suo pensiero sulla singolarità e la pluralità come costitutive dell’essere. Come spiega chiaramente nel suo testo Être singulier pluriel (1996), l’idea centrale di Jean-Luc Nancy è il concetto dell’essere singolare plurale. Tutto ciò che esiste se è vero che esiste, allora co-esiste, è con-. È un’affermazione forte che tende a ribaltare l’ordine classico della “filosofia prima“: prima la costituzione dell’essere come essente singolo, poi l’essenza dell’essere con- l’altro, gli altri essenti. No. Non esiste un prima e un dopo, ma un immediato costituirsi insieme con-, con-temporaneamente. Un individualmente plurale e un pluralmente individuale. Nell’indagine sulla costituzione ontologica dell’esser-ci (Dasein), secondo Jean-Luc Nancy, che si rifà a Heidegger, si scopre la cooriginarietà dell’essere-con (Mitsein). Si coglie l’insieme primigenio, il cum-tactum, dell’essere e dell’essente con-l’altro, con-gli altri, tutti, sempre, implacabilmente, per declinarsi nel mondo dell’esistenza (mondanizzarsi). Sono ragionamenti difficili, lo riconosco. Ma io ricordo di aver avuto la fortuna di ascoltare, molti anni fa, su questo tema, parole limpide e indimenticabili da Bruno Callieri. Il concetto era lo stesso, ma aveva il dono della sintesi: «esse est co-esse».
Fatte le debite proporzioni, a me capitò una esperienza simile nel 2010 per la sostituzione della valvola aortica stenotica, in circolazione extracorporea, con bioprotesi tissutale di maiale. [05]. In sostanza Jean-Luc Nancy è un trapiantato di cuore (eteroinnesto biologico di genere), io lo sono di valvola aortica suina (eteroinnesto biologico non umano). Scendendo poi nei dettagli personali, non so proprio come sarebbe la mia stimmung se fossi di credenza e osservanza coraniche.
Quando si fa riferimento allo straniero, all’intrudere in un contesto ostile, al concetto di estraneità o anche semplicemente a quello di indifferenza, di atarassia epicurea, se non peggio, non si può non richiamare Albert Camus (1913-1960) un algerino di lingua francese di Dréan, di umili origini. La sua istruzione avvenne in un periodo tormentato della storia colonialista, fascio-franchista e razzista francese. La guerra per l’indipendenza algerina di quei territori che i "Pied-Noir" [06], erano convinti fosse “L'Algérie française” delle “obbedienze” insensate del generale Jacques Massu, dell’astuta politica apparentemente carismatica di Charles de Gaulle, de La battaglia di Algeri [07], ecc. L’opera che gli diede notorietà quando aveva appena 29 anni, fu L'Étranger del 1942, apparso per Gallimard. Famoso l’incipit sconcertante «Oggi è morta mia mamma. O forse ieri, non so». Lui morirà a 47 anni per un incidente stradale, ma era minato dalla tubercolosi.
Non si può omettere la citazione d’obbligo di un altro franco-algerino di El-Biar, Jacques Derrida (1930-2004), ebreo sefardita, discriminato a scuola dalla repubblica collaborazionista di Vichy, un filosofo, saggista, accademico, epistemologo di lingua francese, è stato il teorico della “decostruzione”, una ipotesi di lavoro che riguarda tutte le discipline umane che si esplicitano attraverso il linguaggio. In questo senso ha grandemente ispirato Jean-Luc Nancy. La “decostruzione” risulterà una teoria utilizzabile anche per affrontare molti problemi della vita attuale dove s’incrociano, si affrontano e si scontrano questioni di spirito e di materia, di fisica e metafisica, singolo e multiplo, individuale e collettivo, dove serve Husserl come il pane, per “tornare alle cose”, a ciò che in fondo siamo anche noi stessi, la nostra matericità, il corpo che sono , il corpo che ho, la mêmeté di Paul Ricoeur, il we group e l’out group sociologico, e così via.
Infine torna a proposito la riflessione preziosa di Massimo Recalcati «…se il cuore si ferma la vita muore. Ma il cuore che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita pur essendo al centro della nostra vita. Non dovremmo allora vedere nel carattere autonomo di questo battito un primo volto – il più prossimo – dello straniero? La vita del cuore non è un'esperienza perturbante, come direbbe Freud, dove la familiarità più intima e l'estraneità più radicale si intersecano? La potenza autonoma della vita, la sua eccedenza, non è forse sempre in parte straniera a se stessa?» [08]. Nondimeno, visto che quando si tratta di nostre proprietà corporali scendiam fin nei dettagli, perchè la biologia è tutt’altro che trascurabile e il nostro corpo ancor meno, come non pensare all’informatica? Si potrebbe direttamente dire: “Ecco! Qui ci vorrebbe un “device!”. Questo nel caso si guastasse, per esempio, un pezzo del nostro corpo (meglio piccolo, un ganglio, un relais) che già di per sé fornisce corrente elettrica. In fondo un pacemaker (marcaritmo) è qualcosa del genere.
Non dovremmo però trascurare di mantenere viva la nostra attenzione anche sull’ambiente che abitiamo, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo. Abbiamo scoperto quanto sia stretta la relazione fra il nostro dentro e il nostro fuori, che andiamo sempre più riscaldando e inquinando. Le risorse del pianeta terra non sono infinite. Greta Thunberg, la sedicenne svedese, ha traversato l’Atlantico per ricordarcelo, protestando contro l’inquinamento e il cambiamento climatico a favore di uno sviluppo sostenibile. Allora, come per combattere il consumismo e contrastare la filosofia dell’usa e getta, come per gli oggetti usati c’è un mercato per una seconda vita e avanza una generale consapevolezza di una politica del riuso, anche per la sostituzione di organi umani ammalorati, rene, cuore, fegato, ecc. ci potrebbe essere una virtuosa politica della donazione ed una corrispettiva e ancor più grata filosofia dell’accettazione. Questo preambolo per dire che mentre rovistavo tra i lavori che avevo in comune con “Nino“ Lo Cascio, finiti dentro i miei scatoloni fatidici, veri “Pozzo di San Patrizio”, è saltato fuori un suo vecchio testo sull’intruso, di quasi vent’anni. Me lo aveva dato da leggere per un’opinione neurofisiologica, psicopatologica e soprattutto fenomenologica. Doveva andarlo a leggere a Lucca da Giuseppe Maffei ai convegni annuali della sua Rivista, dov’era stato invitato, e ci teneva a fare in modo di non scontentare anche i più esigenti psicopatologi fenomenologici tipo Bruno Callieri, nostro fratello maggiore.
(Trascrivo direttamente dalla prima pagina dell’inedito dattiloscritto).
XVI Convegno di Psicoanalisi e Metodo. "Trapianto d'organo: aspetti psicologici e etici". 10-11 novembre 2001. Villa Bottini, Lucca – Tavola Rotonda: "Ospitare l'intruso". Dono e identità. Antonino Lo Cascio, psichiatra, analista didatta A.I.P.A. (Bozza senza bibliografia [09]).
Devo premettere che le osservazioni che comporranno il mio intervento sono d'ordine assolutamente teorico, non avendo alcuna esperienza clinica di trapianti.
Per tentare d'orientarmi in un campo che percorro per la prima volta, mi comporterò come un esploratore non professionista, cercando di comprendere dal mio punto di vista – privo del rigore scientifico dell'antropologo – ciò che potrò incontrare nel mio cammino. Comprendere vorrà dire lasciarmi prendere dalla mia cultura, dai miei pregiudizi, dai miei stupori. Infatti, si tratta di cose realmente nuove, tanto per l'uomo della strada quanto per me stesso, dato che la tecnica dei trapianti d'organo è cosa recente e, credo, in continua evoluzione.
Il tema è tra i più appassionanti in quanto mi sembra che rimandi direttamente al discorso dell'identità o, meglio, all'autopercezione della propria identità. Una tematica squisitamente soggettiva ma non per questo meno grave. Dico soggettiva in quanto non v'è alcuna alterazione oggettiva della personalità, come potrebbe accadere se una certa situazione dismorfica – d'origine non intenzionale – alterasse i tratti del nostro volto facendo sì che la fotografia che accompagna i nostri documenti di riconoscimento, passaporto, patente ecc., non corrispondesse più al nostro viso, stabilmente trasformato e non più riconoscibile attraverso la comparazione tra le due immagini.
Un'altra alterazione oggettiva della nostra identità, pur se di diverso impatto soggettivo, potrebbe derivare da un'alterazione involontaria delle nostre impronte digitali, utilizzate in molti casi come elemento di riconoscimento.
Nell'ambito delle alterazioni soggettive dell'esperienza personale della propria identità, poche sono le malattie, anche gravi, gravissime o mortali che comportano questo tipo di "sintomo". Sintomo che è però frequente in diverse affezioni d'ordine psichiatrico, indipendentemente dalla gravità delle malattie stesse. Anche le malattie del cervello, a cavallo tra neurologia e psichiatria possono ovviamente determinare questo particolare sintomo che in senso globale e generalizzante chiamerò depersonalizzazione. Ma si resta sempre nel campo della patologia.
Invece, come sappiamo, può esistere un problema a carico dell'identità soggettiva personale che sarebbe tanto esatto quanto fuorviante definire iatrogeno. Parlo ovviamente dei problemi di depersonalizzazione parziale che possono insorgere nei pazienti trapiantati.
E, al riguardo, una considerazione iniziale: il trapianto di per sé non è poi un'idea così nuova (e non mi riferisco qui alle trasfusioni). Lo dice bene il termine stesso, 'trapianto', che viene ripreso dalla vecchia botanica. Ma il discorso è ben più antico e si rifà alla paleo-antropologia: ci è familiare una sua ben successiva e antichissima derivazione, costituita da quella modalità della morale che prevede l'introiezione d'un oggetto buono, al fine di purificare un dentro avariato o danneggiato.
Mi riferisco naturalmente – dall'interno dei limiti della mia incompetenza – all'eucaristìa, che trova il suo opposto nella possessione diabolica, appannaggio dei “primitivi” e delle proto-psichiatrie. Il meccanismo d'azione risulta in questo secondo caso del tutto sovrapponibile a quello dell'introiezione del bene, mentre il momento incorporativo diviene qui più variabile, diffuso o legato all'attraversamento di altri e virtuali confini orifiziali. La cultura dei trapianti segue certamente la strada del bene, anche se sappiamo che possono esistere nel trapiantato degli spazi mentali inconsci che fanno paradossalmente convertire l'oggetto, inizialmente considerato buono, in oggetto cattivo.
Jean-Luc Nancy [10] ne "L'intruso" riflette a fondo, e dal di dentro, sulla psicologia del trapiantato, inserendola e generalizzandola nella cultura del soggetto. Decisamente non esiste una mente senza il suo contesto, consapevole e inconsapevole, presente e remoto che sia, tuttavia, va maggiormente considerata l'integrazione profonda del progetto di trapianto e il suo fine. Quest'ultimo, ben condivisibile sul piano razionale, consta d'una complessa procedura che ricerca il prolungamento della vita – minacciata da una malattia concentrata in un organo – attraverso il ricorso ad altro ed altrui organo vitale. Pongo l'accento sull'aggettivo “vitale” nella sua doppia e complessa accezione: vitale in quanto efficiente ma, sopratutto, vitale pur provenendo da un corpo che è abitato definitivamente dalla morte. Un dono di vita che viene da un intervento attivo, che distorce la dimensione di morte del cosiddetto donatore, piegata sia pure in maniera parziale – una parte per il tutto – al destino d'una nuova vita. Infatti se l'organo trapiantando offre un prolungamento di vita al trapiantato, esso stesso, grazie al suo dislocamento, viene sottratto alla propria altrimenti indeclinabile fine assoluta. Un differimento del momento dell'exitus che coinvolge, assieme, organo trapiantato ed individuo ricevente. Il che, permettendo di accostare il primo ad una Fenice – che muore per poter risorgere -, il secondo ad una Chimera – e cioè ad un individuo unico costituito da parti provenienti da individui di varia specie -, ci apre a nuovi destini concreti, fino ad ora unicamente esplorati dalle grandi fantasie dell'umanità.
Ci troviamo di colpo sbalzati nel mondo profondo della mitologia, d'una mitologia che irride e contrasta la morte, una mitologia che lungi dall'essere mero derivato d'un desiderio – o, meglio, del desiderio fondamentale – diventa invece una realtà assolutamente reale. Un traguardo, quello del trapianto, che non è più solamente d'ordine fisico o mentale, ma è perfettamente in grado di dinamizzare il dialogo tra la vita e la morte, e di allontanare nel tempo il destino ultimo d'ogni essere vivente. Se questa sorta di mitologia poietica parla il linguaggio della vita, esiste una mitologia altra e contrapposta, che attiene, complice, alla difesa della morte. E' sulla base di questa seconda mitologia 'nera' che si collocano i correlati psicologici del rigetto: è ovviamente all'interno di questa prospettiva che si attivano i movimenti espulsivi per un versante e di rifiuto per l'altro. Una negazione, che contiene un voler tornare indietro come a cancellare l'avvenuto trapianto o in ogni caso e più semplicemente, che esprime un'ambivalenza del trapiantato relativa alla nuova acquisizione. Questi particolari affetti sono evidenziati da un'angoscia 'assurda' (Freud), o, meglio, da un'angoscia di sapore paranoicale.
In questi casi, che appartengono alla tematica del già nominato intruso, sembra che l'Io sia iperdeterminato da un Inconscio primitivo, sovraindividuale. Intendo l'Inconscio collettivo che non si rapporta con la morte, lasciando inutilizzata quell'energia che il desiderio sia pure irrealistico d'immortalità porta in ogni caso con sé. Come a volte, i romanzi di fantascienza sono in grado di scrivere i futuri, del pari una fantasia irrealistica inconscia, opportunamente rivisitata, revisionata e raccolta, permette poi la messa in realtà di derivati parziali di quello che Jules Masserman [11] definiva "delirio fondamentale d'immortalità" che permette all'uomo di vivere. E' a questo magmatico contingente psichico che si àncora qualsiasi idea dapprima non scientifica e successivamente scientifica di trapianto. Affinché si possa formare nella mente del ricercatore – come per altri versi in quella del trapiantando – un'immagine di trapianto, si devono compiere alcune fondamentali operazioni mentali.
Guardando alla tematica patologica del futuro trapiantato, si deve in primis operare una frammentazione dell'individuo, pur mantenendone un'unità di insieme. Successivamente i singoli frammenti che assieme costituivano il corpo, le singole componenti considerate singolarmente, daranno accesso e visibilità a quella parte che contiene in sé una precisa antifona di morte: una parte morente che, a sua volta, produrrà poi, per estensione all'intero insieme, la morte dell'individuo. Una volta individuata nel trapiantando la parte disfunzionale, si potrà allora passare all'attivazione di una operazione gemella, condotta questa volta su di un altro corpo: in particolare un corpo morto o morente dove si potrà invenire una parte ancora viva, vitale, non sfiorata dalla morte, omologa all'altra malata prima individuata, che si presenta – come un insigth – con la forza immediata dell'evidenza sotto la forma di ricambio.
Questo tipo di operazioni mentali comportano un prezzo da pagare; e ciò non deve meravigliare poiché si tratta sempre d'un derivato del lontano, profondo e irrealistico desiderio d'immortalità. Il prezzo è diversificato a seconda che riguardi il trapiantatore o il trapiantato. Nel primo caso obbliga ad una rinuncia: bisogna saper fare a meno d'un'esperienza di grandiosità, uno pseudo-guadagno, un auto-tributo al proprio narcisismo che avvicina l'operatore – e lo dico nel linguaggio dell'Inconscio arcaico – alla figura del creatore o perfino di colui che è in grado di correggerlo. Se l'operatore non potesse controllare in sé la spinta inflazionante, questa riverserebbe sul piano della realtà la stessa qualità di inflazione confusiva che avrebbe passivamente subìto la personalità del trapiantante, con i danni che è facile immaginare. Quest'opzione, di certo possibile, è sicuramente molto rara.
Il prezzo che riguarda il paziente è di tutt'altro genere, ben più complesso e consiste ad un primo sguardo in una critica definitiva di quel narcisismo ingenuo che fa dell'integrità fisica il nucleo primario della propria identità. Parlo di ingenuità perché questa soltanto può essere la matrice per la quale discendenza dai propri genitori, integrità assoluta del proprio corpo, armonicità e perfino bellezza possono esser ritenuti gli elementi costitutivi della propria identità.
Una posizione che avrebbe come alleato un particolare irrealistico Io-ideale, aspetto d'un Super-Io fortemente dipendente nella sua costituzione da valori che attengono a luoghi comuni o ad istanze di falsificazione. Questi tipi di costruzione sono certamente figli dei tempi o, meglio, nel mondo occidentale, del presente; un oggi violentato nei suoi valori da immagini d'avvenenza, seduzione, eterna bellezza che il vortice della mercificazione ci mette davanti gli occhi. Ciò per ribadire come molti dei nostri costrutti vengano pensati fuori della nostra testa, nei potenti palazzi dell'economia. Entrare invece a diretto contatto con ogni specifica dimensione individuale di rifiuto vuol dire entrare in contatto con il mondo interno, la storia, le personali vicissitudini umane e psicologiche che hanno segnato l'esistenza e l'unicità di quel paziente.
Esistono nel campo della psicoanalisi e della psichiatria delle situazioni morbose che possono essere apparentate al rigetto psicologico del trapianto e che in maniera sia pure molto indiretta mi hanno permesso un primo avvicinamento alla, a me sconosciuta, tematica del trapianto.
Si può pensare almeno a tre esempi; il primo è quello dell'identificazione proiettiva, il secondo è quello di una "Psicosi Sperimentale", il terzo è costituito da una particolare fenomenica della depressione, che va sotto il nome di Sindrome di Cotard. [12]
Il primo esempio prevede un'azione che viene pensata all'esterno della nostra sfera mentale ed ha come esito, indesiderato, l'arrivo nella nostra interiorità di un oggetto altrui, diverso ed estraneo, E' facile comprendere che, quando si realizzi nel trapiantato un rigetto psicologico, il paziente non si sia sufficientemente intenzionalizzato nell'accettazione profonda di tutti gli aspetti dell'intervento salvifico e quindi veda l'indovamento dell'organo trapiantato nel suo corpo come effetto di una volontà altrui, alla quale sia necessario opporsi.
Il secondo esempio riguarda ciò che in psichiatria vengono definite "Psicosi sperimentali" nelle quali si ha l'introduzione nell'organismo di sostanze chimiche esterne capaci di interferire nella vita psichica. C'è una somiglianza fra le psicosi sperimentali e le "Reazioni esogene di Bonhoeffer" dell'antica psichiatria, dove l'elemento esogeno è considerato tale "rispetto al cervello" [13]. L'accostamento tra le due differenti condizioni morbose è funzionale al mio discorso, infatti, in entrambi i casi, gli elementi introdotti sono in grado di determinare delle alterazioni nella mente del ricevente.
Se riportiamo questa particolare condizione morbosa all'esperienza terapeutica e potenzialmente salvifica del trapianto, vediamo come l'elemento genericamente esogeno non differisca poi tanto dal punto di vista dell'Inconscio dall'oggetto trapiantato: questo può, infatti, corrispondere ai vissuti intossicanti realmente posseduti dall'oggetto esogeno. Certa sintomatologia transitoria d'ordine psichiatrico che può seguire all'intervento di trapianto e che comprende confusione mentale, eccitamento maniforme, delirio persecutorio o di grandezza, può essere considerata come una patologia analoga a quella di una reazione esogena o di una psicosi sperimentale, a seconda dei vertici d'osservazione, Con la differenza che ad esempio un delirio persecutorio "da azione esteriore" o a contenuto di veneficio o d'influenzamento divengono, nella cifratura psicopatologica, non più sintomi jaspersianamente incomprensibili bensì elaborazioni rozze e primitive ma ben attinenti all'esperienza di avere nel proprio corpo un pezzo di corpo altrui.
Nella Sindrome di Cotard il paziente depresso esprime inizialmente nel suo deliroide di negazione la perdita dei suoi organi interni e può giungere, sulla base del primo diniego, all'affermazione -caratteristica della Sindrome – che "quell'organo non è suo e che è stato sostituito da un altro a lui alieno".
In entrambi i casi sembra che i pazienti psichiatrici seguano senza saperlo il mito della Chimera e parlino come un paziente psichiatricamente sano che stia vivendo l'esperienza d'un trapianto.
Nonostante abbia prima definito il rifiuto mentale come un'assurda ed angosciosa difesa (Freud) ed abbia poi apparentato il rigetto psicologico a delle sindromi psichiatriche, tutto ciò non ha a che fare con alcuna ipotesi d'omologazione o di psichiatrizzazione, ma riguarda, semmai, il mio modo di accostarmi alla sofferenza psichiatrica. Personalmente ritengo che il trovarsi a vivere in maniera potentemente negativa l'esperienza del trapianto non può meravigliare se solo si pone mente al fatto che proprio il corpo, come dire il diretto interessato, metta in campo a livello biologico delle difese naturali indirizzate all'oggetto proveniente dall'esterno, la cui caratterizzazione primaria è semplicemente quella d'essere estraneo, prima ancora d'essere buono o cattivo.
Pertanto questa bio-logica vede ogni introietto come un nemico, a meno che non abbia delle credenziali d'identità tali che lo rendano riconoscibile come omologo, dunque omologabile, buono, amico, da accogliere. Di certo i troiani assediati, che accoglievano come un simulacro il grande cavallo greco, non erano affetti da tale diffidenza ed erano certamente animati da una fiducia costruttiva nel diverso, nell'estraneo, nell'altro.
Ma se questo episodio mitico afferma, sia pure al prezzo di una dolorosa sconfitta, i valori più alti di una cultura, in genere il Cavallo di Troia viene ricordato, al contrario, come un tributo all'intelligenza e all'astuzia d'Ulisse che, con l'arroganza dell'inganno e non già con il sacrificio delle armi, sgomina gli sciocchi pur se valorosi avversari. Proprio questa lettura mi autorizza ad affermare che poche o pochissime culture sono animate da sentimenti positivi verso il mondo esterno, che viene vissuto come avversario, possibile invasore od oggetto di conquista.
Anzi deve meravigliare che la cultura occidentale – che di certo ha ereditato l'asservimento del potenziale conoscitivo alla distruzione dell'altro (e nel caso specifico anche alla condanna dell'amore, se solo ricordiamo l'origine affettiva e privatissima che mise i greci in guerra con i troiani) – possa aver pensato un progetto salvifico come quello del trapianto. Un progetto non solo mentale, che è stato posto in atto superando mille difficoltà ad ogni livello. Dobbiamo riconoscere che in questo 'regno del male' che è la nostra cultura del potere, del disamore e del sospetto, sussistono piccole zone incontaminate che permettono di pensare in senso positivo e realmente antropofilico. Ma non sempre l'oggetto dell'altrui philia è in grado di gioire e di provare vera gratitudine, infatti egli, come la maggior parte di noi, vive all'interno del male, della depressione, dell'invidia, della paranoia. Pertanto la pratica dei trapianti tiene nel dovuto conto gli aspetti profondi – biologici e psicologici – del trapiantando attraverso una serie d'interventi non solo preventivi, ma capaci anche di attenuare le difese, in questo caso al servizio della morte.
La medicina conosce ormai da sempre (pensiamo alle reazioni iperergiche) l'indiscriminata eccessività di alcune difese che possono perfino condurre a morte (una sorta di "fuoco amico"). In prima linea, la sentinella rivolge sempre la perentoria domanda allo sconosciuto che emerge dalla non visibilità: "Farsi riconoscere". E se non avrà risposta adeguata, lo ucciderà per fermarlo. Utilizzando ancora l'aiuto che ci viene dalla metafora e, se vogliamo, dalle storie di Omero, osserviamo l'immagine di un assedio, che può ben corrispondere ad uno dei possibili modelli del rifiuto.
Accogliendo il punto vissuto del rifiuto, assimiliamo gli assedianti all'organo da trapiantare e identifichiamo i cittadini che sentono l'approssimarsi dello straniero, dell'invasore, al corpo ricevente. In una situazione siffatta è facile immaginare come gli assediati, viste cadere le mura di cinta, si affretteranno a ricostruirne delle altre più all'interno, per tentare la difesa estrema della città, per non dover sottostare all'onta dei vinti, per proteggere la propria civiltà che sarebbe spazzata via e sostituita bruscamente da quella dei vincitori. Il rifiuto psicologico di un organo impiantato nel proprio corpo sarebbe quindi, il risultato d'un orientamento distorto e, pur tuttavia, comprensibile, un movimento di difesa verso un estraneo venuto a portare disgrazia. Come si vede l'inconscio ha una visione polisemica e distorsiva del dono, un inconscio che non ascolta le ragioni del conscio, che invece conosce bene il valore altamente positivo del trapianto. Il rifiuto dell'organo trapiantato è dunque un portato dell'inconscio, un rifiuto irrazionale con il quale fare i conti.
Per entrare nelle dinamiche e controdinamiche dell'inconscio è già sufficiente guardare all'individuo considerandolo dal vertice della sua espressività biologica. Nel caso dell'accoglimento del trapianto, l'Io viene a trovarsi in un rapporto asintonico con il biologico e con l'Inconscio; nel caso del rifiuto l'Io è invece sintonico sia con l'Inconscio sia col biologico. Dunque l'accoglimento è una realizzazione molto difficile ed anche contro natura.
La cultura – che necessariamente in quanto tale è sempre secondo una vecchia definizione contra naturam – si trova a dover contrastare numerosi livelli di rifiuto che convergono su di un assunto di base: considerare in ogni caso l'oggetto del trapianto un corpo estraneo e come tale fare di tutto per non accoglierlo. L'Io è solo, in questa duplice battaglia, che deve condurre sia contro l'Inconscio arcaico che contro il proprio sistema immunitario. I suoi alleati naturali sono il proprio istinto di vita, fiaccato dalla sofferenza e dalla presenza vicina della morte, e quella cultura che ha potuto inventare il trapianto, un aspetto della cultura che potrebbe essere stato fino allora estraneo alla sua visione del mondo. In questa difficile impresa il trapiantato può cercare comprensione e sostegno nelle conoscenze, forse ancora allo stato nascente, delle psicologie del profondo, le cui riflessioni potrebbero agevolare quel percorso esistenziale per il quale la "cosa" da estranea diviene organo vitale e integrato del proprio corpo; un capovolgimento radicale, che permette di uscire dall'anticamera della morte per rientrare in un pieno progetto di vita, il cui valore non sia più obbligato a mediazioni con la sopravvivenza.
Ma poiché il trapiantato si trova, come ogni ricoverato, in uno stato psicologico di regressione, non può che reagire in maniera primitiva e scarsamente integrata: le risposte alla condizione in cui si trova non potranno che essere prevalentemente inconsce. Anzi, dato che la condizione di novità, inesperienza e sollecitazione sono per il trapiantato molto profonde e, per certi versi, maggiori di quelle di ogni altro ricoverato per motivi medici o chirurgici, il paziente non potrà che rispondere in una maniera arcaica, che lo rende perfettamente capace di bypassare i riscontri e i controlli realistici propri dell'Io. Sempre in questa prospettiva, ipotetica, di avvicinamento al paziente, si può coerentemente immaginare in lui il risveglio di frustranti dinamiche che attengono all'antichissima dimensione "cannibalica": il paziente non sa nulla delle caratteristiche del "donatore" e teme che attraverso il trapianto possa esserne colonizzato. Infatti, il prevalere dell'Inconscio arcaico fa sì che egli sia profondamente convinto che l'organo dell'altro mantenga le sue proprie caratteristiche "comportamentali" e che queste vengano imposte anche a sé stesso, ospite passivo di questa parte estranea. E poiché si trova in una posizione di aggressività da difesa, nei riguardi dell'intera matrice dalla quale proviene l'organo, il paziente non può che sentire l'altro, il donatore, come nemico invasore e l'organo come testimonianza ultima di questa sopraffazione. E ancora, in questo circuito di continui ribaltamenti di posizioni e di ruoli, percependo il donatore come un individuo cui è stato espiantato un organo vitale, può identificarsi nell'altro e vivere sé stesso come evirato.
Questo è solo un piccolo possibile esempio assolutamente semplificato del livello animistico nel quale può venire a regredire il paziente. Ed è proprio la dimensione animistica, arcaica che suggerisce di considerare l'esperienza del trapianto come un'esperienza perturbante, con tutto il corteo di vissuti fortemente estraneanti e di orrore che esso comporta.
Se ci riferiamo alla prima letteratura analitica troviamo molto sui possibili vissuti che produce l'organo trapiantato nella psiche del paziente: scrive Freud a proposito della fenomenica de "Il perturbante": "membra staccate dal corpo, una testa mozzata, una mano recisa dal braccio come in una fiaba di Hauff, piedi che danzano da soli …" [14]. Una citazione particolarmente suggestiva dato il discorso che sin dall'inizio è stato collocato in una prospettiva che guarda a parti autonome, separate dal corpo d'origine, portatrici di vita propria.
Ma se il compito dell'analista è, tra gli altri, quello di diffidare delle facili suggestioni, e magari nel mio caso anche di resistere alle sirene di Freud, l'impegno deve poter andare oltre l'eventuale seduzione della suggestione ed approfondire la ricerca per poter comprendere dei fatti apparentemente assurdi e incomprensibili. Ed allora la mia sospettosità viene destituita di significato di fronte all'evidenza quando, sempre a proposito del perturbante, Freud parlerà di complesso di evirazione (ne accennavo prima), di animismo (di cui ho detto), della facilità con la quale il perturbante è in grado di tramutarsi nel suo opposto (qualcosa di familiare, affettuoso, rassicurante) e, dulcis in fundo, del sosia. Una tematica difensiva quella del doppio, di grande portata e interesse, alla quale in tanti ci siamo accostati. Ebbene, proprio l'immagine del sosia sembrerebbe la chiave adatta per comprendere le vicissitudini dell'oggetto trapiantato e del soggetto che ha ricevuto il dono. Ma, sopratutto direi, per dare un senso alle fantasie del paziente riguardo la propria identità, drammaticamente altalenante tra i due corpi ai quali deve fare obbligato riferimento.
Tuttavia, ad una riflessione più attenta, restringerei il classico tema dal doppio, che collega ineludibilmente i due individui, ad una significativa relazione che si limiti a connettere i due organi.
Li considererei pertanto una coppia di contrari, identici ma di segno opposto, legati da un vincolo in quel momento indissolubile. I due organi: quello originario del paziente, che è malato / agonizzante / disfunzionante, pronto all'accantonamento e perciò invidioso e aggressivo, e l'altro, quello trapiantato, sano / già-morto / neo-vivo e per questo invidiato e attaccato. Dunque due parti, una sosia dell'altra. Un compito, in certi casi un dilemma, la cui soluzione può venire qualora l'individuo in crisi, e in crisi di depersonalizzazione, possa accettare profondamente la grandissima responsabilità individuale di essere/avere un organo deficitario, di essere esso stesso deficitario e di trovarsi, per vivere, a dover conquistare dolorosamente dentro si sé una nuova interezza che può essere raggiunta attraverso l'integrazione, l'adozione, direi, dell'altro organo sano. Ciò prevede il riconoscimento della morte di una parte di sé e, contemporaneamente, il compito di elaborarne il lutto.
Siamo ancora agli albori delle scienze che svolgono un'attività riparatoria e di riabilitazione dell'uomo. Oggi, come ieri, è ancora questo il campo d'una chirurgia in rapidissima evoluzione tecnica. Nell'area dei trapianti avvengono però anche grandi evoluzioni non solo nelle tecniche ma, ad esempio, anche nell'ambito della sociologia dei trapianti, e già i donatori viventi cominciano a sostituire i cadaveri. D'altra parte esistono già organi sostitutivi puramente meccanici, che dall'extracorporeo entrano all'interno del corpo e che si trasformano da macchine collettive a componenti del corpo assolutamente individuali. Successivamente potranno arrivare cellule che saranno in grado di risanare un corpo malato, e perfino cellule provenienti dallo stesso individuo. A questo punto la chirurgia potrebbe essere ecclissata ma, con essa, anche la dimensione di solidarietà umana, sociale e personale, che è il terreno sul quale ha potuto svilupparsi l'attuale tecnica dei trapianti.
Se ciò accadesse, sarebbe un grave danno perché, se è vero che non esiste mente sana in un corpo malato, è altrettanto vero che oggi portare a totale buon fine un intervento di trapianto non vuol dire soltanto essere in grado di risolvere tutti i problemi chirurgici, medici e psicologici che compaiono nel campo dell’esistenza del trapiantato, ma vuol dire anche una profonda trasformazione della psiche del soggetto, un risultato globale, una sorta di riabilitazione del corpo e assieme anche dell'anima. Che in fondo, è poi l’unica e l’ultima preziosa risorsa che resta, quando la morte non potrà più essere differita.
Note.
01. Cfr. su Pol.It. la notissima pubblicazione Guenda Bernegger a colloquio con Gilberto Di Petta. 11 febbraio, 2018 di Gilberto Di Petta, inerente il suo blog. CUORE DI TENEBRA. Viaggio al termine della psichiatria. «Questa intervista è apparsa sul n°37, 2017, della “Rivista per le Medical Humanities”, organo ufficiale della Commissione di etica clinica dell’Ente Ospedaliero Cantonale del Cantone Ticino, a firma di Guenda Bernegger, che ringraziamo per l’autorizzazione alla pubblicazione su Psy-on line».
02. Marcel Mauss. Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques. L'Année sociologique, 1924.
03. Si fa qui riferimento a Jean-Luc Nancy, un girondino di Caudéran, Bordeaux, classe 1940, filosofo originale e complesso, della generazione successiva ai Lévinas, Foucault, Derrida e Deleuze. Tesi di laurea a Parigi, poi dottorato con Paul Ricœur, lavoro su Immanuel Kant. Autore prolifico, decustruttivista sulla scia di Derrida, teorico del comunitarismo, del tatto, del senso in tutti i sensi, titolare di filosofia all’Università alsaziana di Strasburgo. Dall’esperienza diretta del suo trapianto cardiaco, derivano interessanti riflessioni sul corpo che aprono una inesauribile fonte di pubblicazioni: Corpus, Paris, Métailié, 1992. (tr. it. Cronopio), Être singulier pluriel, Paris, Galilée, 1996. (tr. it. Einaudi), L'Intrus, Paris, Galilée, 2000. (tr. it. Cronopio).
04. Cfr. POL.it 15 agosto 2017 – Psychiatry on line Italia. Giorgia Tisci e Giuseppe Ceparano. Psicologi Psicoterapeuti ad orientamento Fenomenologico – Antropoanalitico.
05. Praticamente un eteroinnesto con una valvola biologica realizzata con tessuto di maiale. Le valvole porcine sono prodotte a partire dalla valvola aortica del maiale e vengono di norma cucite su un telaio flessibile o semi-flessibile per ottenere una valvola “con stent”. L’operazione che ho subito io (2010) è stata un’alternativa: la radice aortica porcina naturale è stata lasciata intatta per funzionare essa stessa da telaio, dando forma a una valvola “senza stent”. Non posso che ringraziare e complimentarmi con l’equipe del Prof. Francesco Musumeci, primario della cardiochirurgia dell’Ospedale San Camillo di Roma, una delle eccellenze del paese. Inutile aggiungere che sono stato fuori del mondo per un tempo non breve, ho delirato, ho allucinato, ho dovuto essere contenuto, perchè ho fatto il matto agitato, dunque ho realizzato il sogno di tutti gli psichiatri: conoscere e provare l’esperienza schizofrenica acuta, direttamente. Ne parlai e ne scrissi a Bruno Callieri un lungo racconto, che non trovo più, in cui accennavo, tra l’altro, ad “allucinazioni domotiche”.
06. La Rivoluzione algerina o anche la guerra d'indipendenza algerina, insomma, la guerra franco-algerina, ossia il conflitto che oppose l’Algeria libera alla Francia occupante dal 1º novembre 1954 al il 19 marzo 1962, vide scontrarsi il FLN (Front de Libération Nationale), l'esercito francese e l’OAS (Organisation de l'armée secrète), non solo nei territori d’oltremare, ma anche nella Francia metropolitana. Particolarmente aggressiva, codesta organizzazione paramilitare clandestina francese, scatenò una serie di attentati cruenti. Creata a Madrid con la connivenza franchista da Jean-Jacques Susini e Pierre Lagaillarde due avventurieri che guidavano un gruppo di mercenari disperati e perdenti reduci dall’Indocina ex-colonia francese. Lo slogan ritmato e minaccioso dell’OAS, era "Al-gé-rie-fran-çai-se". Voleva impedire l'indipendenza dell'Algeria e la sua liberazione dal dominio coloniale francese. Il termine "Pied-Noir", designava i francesi d'Algeria, rimpatriati a partire dal 1962.
07. La battaglia di Algeri. Italia. Algeria, 1966 regia Gillo Pontecorvo, durata 121 min, Leone d’oro a Venezia, 27ª Mostra internazionale d'arte cinematografica, 1966.
08. Cfr. Massimo Recalcati. È il nostro cuore il primo straniero che incontriamo. Repubblica.It, 22 maggio 2016.
09. Non so quale tipo di bibliografia avesse in mente Antonino Lo Cascio per corredare questo suo lavoro prezioso e di una attualità profetica. Tutti i maestri in qualche modo lo sono, nel senso che anticipano la scienza, l’indirizzo che orienterà la ricerca prossima ventura. A parte il piacere di sentirlo ancora vicino mentre lo trascrivevo e mi soffermavo a ragionare mentalmente in silenzio con lui i passi più ostici del suo pensare, non posso che aggiungere qualche nota sugli autori noti ad entrambi. Tralascio invece la lunga nota di ricerche bibliografiche e tematizzazioni di supporto che feci per lui, oggi superate. Ciò che invece mi appare ora in tutta evidenza è una sorta di gara inconsapevole a ci risultasse il più pirandelliano dei due.
10. Per il pensiero di Jean-Luc Nancy, che Antonino Lo Cascio, peraltro, conosceva alla perfezione e credo lo avesse anche incontrato personalmente, nei suoi lunghi soggiorni in Francia (aveva una casa a Parigi nel XVIII arrondissement), si rinvia alla nota 03.
11. Si veda Jules Masserman (1955), The Practice of Dynamic Psychiatry. M.D. W. B. Saunders Company, Philadelphia and London, 1955. Lo psichiatra citato è Jules Homan Masserman (1905-1994) uno psichiatra e psicoanalista statunitense nato in Polonia a Chudnov, emigrato nel 1908 in USA a Detroit, fu professore di neurologia e psichiatria all’università di Chicago, elaborò un sistema globale di terapia biodinamica e interpretò l’assenza delle "difese" freudiane contro l’ansia, nei comportamenti umani spericolati come illusione di invulnerabilità e immortalità, meccanismi attraverso i quali si negano il pericolo e la morte.
12. Jules Cotard (1840–1889), è stato un neurologo francese, di Issoudun, Dip. dell’Indre (Centro-Valle della Loira). Tutti i lettori di Pol.It. sanno che fu il primo a descrivere in una paziente con una melancolia involutiva il “delirio di negazione” (le délire de négation) al quale gli fu intestato l’eponimo di Sindrome di Cotard. Lo fece in una memorabile lezione tenuta alla Salpêtrière nel 1880. La particolarità che incuriosì e catturò l’uditorio, inchiodandolo nell’emiciclo, fu il fatto che la poveretta negasse di essere viva. Anzi, per l’esattezza, diceva di non avere più i propri organi interni e di non poter mangiare perchè non aveva più lo stomaco. Sulla base di tale esperienza deliroidea si disse poi convinta di non poter morire di vecchiaia come tutti e di essere condannata all’immortalità.
13. Karl Bonhoeffer (1868-1948) è stato un importante neuropatologo e psichiatra tedesco del Württemberg. Fu professore a Heidelberg, Breslavia e Berlino. Menzionato in letteratura per la dottrina delle “Reazioni esogene” nello studio delle “psicosi sperimentali”. Il “Tipo esogeno di reazione” cui ha dato l’eponimo stabilisce che ogni noxa che colpisce l’encefalo dall’esterno (tossica, infettiva, traumatica), causa un insieme sintomatologico aspecifico e similare che comporta un disturbo della coscienza che, dalla confusione mentale può giungere fino al coma, passando per stati oniroidi e stuporosi. Famoso per aver descritto le psicosi sintomatiche da etilismo cronico, lo è stato invece dolorosamente quando Hitler gli fece giustiziare il sesto figlio, Dietrich teologo, sospettato di aver partecipato al suo attentato del 20 luglio 1944. Fu eliminato per impiccagione all'alba del 9 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.
14. Wilhelm Hauff (1802-1827), tedesco di Stoccarda è stato un brillante scrittore di gusto fantastico e romantico, abile nell’inventare fiabe esotiche e comporre opere brevi. Purtroppo anche la sua vita lo fu. Morì a 25 anni
Ho letto l’interessante riflessione fatta da Giorgia Tisci e Giuseppe Ceparano su Pol.It. del 15 agosto 2017 a proposito dell’intrusione e del concetto del filosofo francese Jean-Luc Nancy che deriva dal suo testo “L’intruso”. La citazione dei due studiosi è ripresa anche da Gilberto Di Petta, mentre parla con Guenda Bernegger nell’appassionante colloquio-intervista sul tema “Al termine della psichiatria“ [01]. In effetti l’essere estraneo ad alcunché, trovarsi fuori contesto, essere cacciato o non accettato in un gruppo, ha implicazioni in molte e svariate direzioni. Due, quelle principali. La prima, rispetto alla nostra o alle altre collettività umane di cui facciamo parte, tema sociologico e politico che tratteremo magari un’altra volta. La seconda, rispetto alla nostra interiorità, quella più profonda, dove raramente andiamo a ficcare il naso, se non proprio costretti. Questa direzione, la parte inconsapevolmente occulta di noi stessi, quella che dovremmo ricordarci di andare (ogni tanto) ad interrogare, per scuola socratica, il dentro dell’essere, è proprio l’argomento che voglio prendere “in mano” oggi, per introdurre un saggio di Antonino Lo Cascio sui “trapianti”. È un modo per rievocare il mese di nascita dell’amico fraterno. Il nostro mese settembrino di sodali “pignoli” fino ad attingere vette di patofenomenologia anancastica. Ma anche il laborioso settembre dannunziano della transumanza dei suoi pastori. A un mese dalla scomparsa, richiamarlo un po’ tra noi, appassionati di Pol.It., mi pare giusto tributo al suo valore di maestro junghiano. La presentazione di questo suo vecchio lavoro è propiziata da varie circostanze favorevoli. Certo si è che sul “dono“ ci aveva lavorato parecchio. Non dico quanto Marcel Mauss (1872-1950), il famoso antropologo francese di Epinal, (Grand Est), ma quasi altrettanto intensamente, perchè riteneva che lo scambio, il regalo, il passaggio di alcunché da un soggetto ad un altro, non soltanto nelle “società arcaiche“, ma ancor oggi nella collettività degli umani, andasse esaminato a fondo. Esso celava, a suo dire, una complessa dinamica di scambi transattivi, di intenzioni negoziali e di attività diplomatiche di insospettate capacità e significati sociali [02].
«“L’intruso si introduce di forza […] senza permesso e senza essere stato invitato. Bisogna che vi sia un che di intruso nello straniero ché, altrimenti, perderebbe la sua estraneità. Se ha già diritto d’ingresso e di soggiorno […] non è più l’intruso ma non è più nemmeno lo straniero” (pag. 11)». Sono Tisci e Ceparano che argomentano con forza la loro tesi usando il pensiero di un filosofo francese decostruttivista [03], trapiantato di cuore, citato fin dall’inizio, prima che si possa ingenerare confusione. Infatti, poi riprendono «Parole tratte dal testo “L’intruso” del filosofo francese Jean-Luc Nancy. Parole, così come l'intero testo, che hanno richiamato alla mente quanto, oggi, sia forte la paura verso lo straniero e quanto forte sia anche la pressione affinché questa paura resti tale, o addirittura aumenti … In realtà l’intruso, lo straniero, non è solo l’immigrato che, quando gli va bene, approda sulla nostra terra, con efficacia. L'intruso, per esempio, può essere anche un organo trapiantato, un tumore che cresce, il componente di una famiglia “allargata”, un nuovo collega di lavoro, una persona che non la pensa come noi e, può essere anche, una parte di noi» [04]. Per inciso, su codesto approdo di disperati, Erri De Luca stigmatizza precisando che giungono «su canotti con motorini da 40 cavalli, non su gommoni».
Jean-Luc Nancy, nel 1992 si accorge di avere una serio disturbo cardiocircolatorio per cui subisce un trapianto di cuore. Riceve il cuore di una giovane donna. Questa esperienza trasforma radicalmente il suo pensiero sulla singolarità e la pluralità come costitutive dell’essere. Come spiega chiaramente nel suo testo Être singulier pluriel (1996), l’idea centrale di Jean-Luc Nancy è il concetto dell’essere singolare plurale. Tutto ciò che esiste se è vero che esiste, allora co-esiste, è con-. È un’affermazione forte che tende a ribaltare l’ordine classico della “filosofia prima“: prima la costituzione dell’essere come essente singolo, poi l’essenza dell’essere con- l’altro, gli altri essenti. No. Non esiste un prima e un dopo, ma un immediato costituirsi insieme con-, con-temporaneamente. Un individualmente plurale e un pluralmente individuale. Nell’indagine sulla costituzione ontologica dell’esser-ci (Dasein), secondo Jean-Luc Nancy, che si rifà a Heidegger, si scopre la cooriginarietà dell’essere-con (Mitsein). Si coglie l’insieme primigenio, il cum-tactum, dell’essere e dell’essente con-l’altro, con-gli altri, tutti, sempre, implacabilmente, per declinarsi nel mondo dell’esistenza (mondanizzarsi). Sono ragionamenti difficili, lo riconosco. Ma io ricordo di aver avuto la fortuna di ascoltare, molti anni fa, su questo tema, parole limpide e indimenticabili da Bruno Callieri. Il concetto era lo stesso, ma aveva il dono della sintesi: «esse est co-esse».
Fatte le debite proporzioni, a me capitò una esperienza simile nel 2010 per la sostituzione della valvola aortica stenotica, in circolazione extracorporea, con bioprotesi tissutale di maiale. [05]. In sostanza Jean-Luc Nancy è un trapiantato di cuore (eteroinnesto biologico di genere), io lo sono di valvola aortica suina (eteroinnesto biologico non umano). Scendendo poi nei dettagli personali, non so proprio come sarebbe la mia stimmung se fossi di credenza e osservanza coraniche.
Quando si fa riferimento allo straniero, all’intrudere in un contesto ostile, al concetto di estraneità o anche semplicemente a quello di indifferenza, di atarassia epicurea, se non peggio, non si può non richiamare Albert Camus (1913-1960) un algerino di lingua francese di Dréan, di umili origini. La sua istruzione avvenne in un periodo tormentato della storia colonialista, fascio-franchista e razzista francese. La guerra per l’indipendenza algerina di quei territori che i "Pied-Noir" [06], erano convinti fosse “L'Algérie française” delle “obbedienze” insensate del generale Jacques Massu, dell’astuta politica apparentemente carismatica di Charles de Gaulle, de La battaglia di Algeri [07], ecc. L’opera che gli diede notorietà quando aveva appena 29 anni, fu L'Étranger del 1942, apparso per Gallimard. Famoso l’incipit sconcertante «Oggi è morta mia mamma. O forse ieri, non so». Lui morirà a 47 anni per un incidente stradale, ma era minato dalla tubercolosi.
Non si può omettere la citazione d’obbligo di un altro franco-algerino di El-Biar, Jacques Derrida (1930-2004), ebreo sefardita, discriminato a scuola dalla repubblica collaborazionista di Vichy, un filosofo, saggista, accademico, epistemologo di lingua francese, è stato il teorico della “decostruzione”, una ipotesi di lavoro che riguarda tutte le discipline umane che si esplicitano attraverso il linguaggio. In questo senso ha grandemente ispirato Jean-Luc Nancy. La “decostruzione” risulterà una teoria utilizzabile anche per affrontare molti problemi della vita attuale dove s’incrociano, si affrontano e si scontrano questioni di spirito e di materia, di fisica e metafisica, singolo e multiplo, individuale e collettivo, dove serve Husserl come il pane, per “tornare alle cose”, a ciò che in fondo siamo anche noi stessi, la nostra matericità, il corpo che sono , il corpo che ho, la mêmeté di Paul Ricoeur, il we group e l’out group sociologico, e così via.
Infine torna a proposito la riflessione preziosa di Massimo Recalcati «…se il cuore si ferma la vita muore. Ma il cuore che ciascuno di noi porta al centro del proprio petto e dal quale dipende la sua vita, batte senza che la nostra ragione o la nostra volontà possano comandarne il ritmo. È un paradosso elementare che si iscrive al centro della vita: il cuore che la mantiene viva, è il nostro cuore, ma è, al tempo stesso, una pompa che agisce a prescindere da ogni istanza di controllo. La vita del cuore trascende la nostra vita pur essendo al centro della nostra vita. Non dovremmo allora vedere nel carattere autonomo di questo battito un primo volto – il più prossimo – dello straniero? La vita del cuore non è un'esperienza perturbante, come direbbe Freud, dove la familiarità più intima e l'estraneità più radicale si intersecano? La potenza autonoma della vita, la sua eccedenza, non è forse sempre in parte straniera a se stessa?» [08]. Nondimeno, visto che quando si tratta di nostre proprietà corporali scendiam fin nei dettagli, perchè la biologia è tutt’altro che trascurabile e il nostro corpo ancor meno, come non pensare all’informatica? Si potrebbe direttamente dire: “Ecco! Qui ci vorrebbe un “device!”. Questo nel caso si guastasse, per esempio, un pezzo del nostro corpo (meglio piccolo, un ganglio, un relais) che già di per sé fornisce corrente elettrica. In fondo un pacemaker (marcaritmo) è qualcosa del genere.
Non dovremmo però trascurare di mantenere viva la nostra attenzione anche sull’ambiente che abitiamo, l’aria che respiriamo, il cibo che mangiamo. Abbiamo scoperto quanto sia stretta la relazione fra il nostro dentro e il nostro fuori, che andiamo sempre più riscaldando e inquinando. Le risorse del pianeta terra non sono infinite. Greta Thunberg, la sedicenne svedese, ha traversato l’Atlantico per ricordarcelo, protestando contro l’inquinamento e il cambiamento climatico a favore di uno sviluppo sostenibile. Allora, come per combattere il consumismo e contrastare la filosofia dell’usa e getta, come per gli oggetti usati c’è un mercato per una seconda vita e avanza una generale consapevolezza di una politica del riuso, anche per la sostituzione di organi umani ammalorati, rene, cuore, fegato, ecc. ci potrebbe essere una virtuosa politica della donazione ed una corrispettiva e ancor più grata filosofia dell’accettazione. Questo preambolo per dire che mentre rovistavo tra i lavori che avevo in comune con “Nino“ Lo Cascio, finiti dentro i miei scatoloni fatidici, veri “Pozzo di San Patrizio”, è saltato fuori un suo vecchio testo sull’intruso, di quasi vent’anni. Me lo aveva dato da leggere per un’opinione neurofisiologica, psicopatologica e soprattutto fenomenologica. Doveva andarlo a leggere a Lucca da Giuseppe Maffei ai convegni annuali della sua Rivista, dov’era stato invitato, e ci teneva a fare in modo di non scontentare anche i più esigenti psicopatologi fenomenologici tipo Bruno Callieri, nostro fratello maggiore.
(Trascrivo direttamente dalla prima pagina dell’inedito dattiloscritto).
XVI Convegno di Psicoanalisi e Metodo. "Trapianto d'organo: aspetti psicologici e etici". 10-11 novembre 2001. Villa Bottini, Lucca – Tavola Rotonda: "Ospitare l'intruso". Dono e identità. Antonino Lo Cascio, psichiatra, analista didatta A.I.P.A. (Bozza senza bibliografia [09]).
Devo premettere che le osservazioni che comporranno il mio intervento sono d'ordine assolutamente teorico, non avendo alcuna esperienza clinica di trapianti.
Per tentare d'orientarmi in un campo che percorro per la prima volta, mi comporterò come un esploratore non professionista, cercando di comprendere dal mio punto di vista – privo del rigore scientifico dell'antropologo – ciò che potrò incontrare nel mio cammino. Comprendere vorrà dire lasciarmi prendere dalla mia cultura, dai miei pregiudizi, dai miei stupori. Infatti, si tratta di cose realmente nuove, tanto per l'uomo della strada quanto per me stesso, dato che la tecnica dei trapianti d'organo è cosa recente e, credo, in continua evoluzione.
Il tema è tra i più appassionanti in quanto mi sembra che rimandi direttamente al discorso dell'identità o, meglio, all'autopercezione della propria identità. Una tematica squisitamente soggettiva ma non per questo meno grave. Dico soggettiva in quanto non v'è alcuna alterazione oggettiva della personalità, come potrebbe accadere se una certa situazione dismorfica – d'origine non intenzionale – alterasse i tratti del nostro volto facendo sì che la fotografia che accompagna i nostri documenti di riconoscimento, passaporto, patente ecc., non corrispondesse più al nostro viso, stabilmente trasformato e non più riconoscibile attraverso la comparazione tra le due immagini.
Un'altra alterazione oggettiva della nostra identità, pur se di diverso impatto soggettivo, potrebbe derivare da un'alterazione involontaria delle nostre impronte digitali, utilizzate in molti casi come elemento di riconoscimento.
Nell'ambito delle alterazioni soggettive dell'esperienza personale della propria identità, poche sono le malattie, anche gravi, gravissime o mortali che comportano questo tipo di "sintomo". Sintomo che è però frequente in diverse affezioni d'ordine psichiatrico, indipendentemente dalla gravità delle malattie stesse. Anche le malattie del cervello, a cavallo tra neurologia e psichiatria possono ovviamente determinare questo particolare sintomo che in senso globale e generalizzante chiamerò depersonalizzazione. Ma si resta sempre nel campo della patologia.
Invece, come sappiamo, può esistere un problema a carico dell'identità soggettiva personale che sarebbe tanto esatto quanto fuorviante definire iatrogeno. Parlo ovviamente dei problemi di depersonalizzazione parziale che possono insorgere nei pazienti trapiantati.
E, al riguardo, una considerazione iniziale: il trapianto di per sé non è poi un'idea così nuova (e non mi riferisco qui alle trasfusioni). Lo dice bene il termine stesso, 'trapianto', che viene ripreso dalla vecchia botanica. Ma il discorso è ben più antico e si rifà alla paleo-antropologia: ci è familiare una sua ben successiva e antichissima derivazione, costituita da quella modalità della morale che prevede l'introiezione d'un oggetto buono, al fine di purificare un dentro avariato o danneggiato.
Mi riferisco naturalmente – dall'interno dei limiti della mia incompetenza – all'eucaristìa, che trova il suo opposto nella possessione diabolica, appannaggio dei “primitivi” e delle proto-psichiatrie. Il meccanismo d'azione risulta in questo secondo caso del tutto sovrapponibile a quello dell'introiezione del bene, mentre il momento incorporativo diviene qui più variabile, diffuso o legato all'attraversamento di altri e virtuali confini orifiziali. La cultura dei trapianti segue certamente la strada del bene, anche se sappiamo che possono esistere nel trapiantato degli spazi mentali inconsci che fanno paradossalmente convertire l'oggetto, inizialmente considerato buono, in oggetto cattivo.
Jean-Luc Nancy [10] ne "L'intruso" riflette a fondo, e dal di dentro, sulla psicologia del trapiantato, inserendola e generalizzandola nella cultura del soggetto. Decisamente non esiste una mente senza il suo contesto, consapevole e inconsapevole, presente e remoto che sia, tuttavia, va maggiormente considerata l'integrazione profonda del progetto di trapianto e il suo fine. Quest'ultimo, ben condivisibile sul piano razionale, consta d'una complessa procedura che ricerca il prolungamento della vita – minacciata da una malattia concentrata in un organo – attraverso il ricorso ad altro ed altrui organo vitale. Pongo l'accento sull'aggettivo “vitale” nella sua doppia e complessa accezione: vitale in quanto efficiente ma, sopratutto, vitale pur provenendo da un corpo che è abitato definitivamente dalla morte. Un dono di vita che viene da un intervento attivo, che distorce la dimensione di morte del cosiddetto donatore, piegata sia pure in maniera parziale – una parte per il tutto – al destino d'una nuova vita. Infatti se l'organo trapiantando offre un prolungamento di vita al trapiantato, esso stesso, grazie al suo dislocamento, viene sottratto alla propria altrimenti indeclinabile fine assoluta. Un differimento del momento dell'exitus che coinvolge, assieme, organo trapiantato ed individuo ricevente. Il che, permettendo di accostare il primo ad una Fenice – che muore per poter risorgere -, il secondo ad una Chimera – e cioè ad un individuo unico costituito da parti provenienti da individui di varia specie -, ci apre a nuovi destini concreti, fino ad ora unicamente esplorati dalle grandi fantasie dell'umanità.
Ci troviamo di colpo sbalzati nel mondo profondo della mitologia, d'una mitologia che irride e contrasta la morte, una mitologia che lungi dall'essere mero derivato d'un desiderio – o, meglio, del desiderio fondamentale – diventa invece una realtà assolutamente reale. Un traguardo, quello del trapianto, che non è più solamente d'ordine fisico o mentale, ma è perfettamente in grado di dinamizzare il dialogo tra la vita e la morte, e di allontanare nel tempo il destino ultimo d'ogni essere vivente. Se questa sorta di mitologia poietica parla il linguaggio della vita, esiste una mitologia altra e contrapposta, che attiene, complice, alla difesa della morte. E' sulla base di questa seconda mitologia 'nera' che si collocano i correlati psicologici del rigetto: è ovviamente all'interno di questa prospettiva che si attivano i movimenti espulsivi per un versante e di rifiuto per l'altro. Una negazione, che contiene un voler tornare indietro come a cancellare l'avvenuto trapianto o in ogni caso e più semplicemente, che esprime un'ambivalenza del trapiantato relativa alla nuova acquisizione. Questi particolari affetti sono evidenziati da un'angoscia 'assurda' (Freud), o, meglio, da un'angoscia di sapore paranoicale.
In questi casi, che appartengono alla tematica del già nominato intruso, sembra che l'Io sia iperdeterminato da un Inconscio primitivo, sovraindividuale. Intendo l'Inconscio collettivo che non si rapporta con la morte, lasciando inutilizzata quell'energia che il desiderio sia pure irrealistico d'immortalità porta in ogni caso con sé. Come a volte, i romanzi di fantascienza sono in grado di scrivere i futuri, del pari una fantasia irrealistica inconscia, opportunamente rivisitata, revisionata e raccolta, permette poi la messa in realtà di derivati parziali di quello che Jules Masserman [11] definiva "delirio fondamentale d'immortalità" che permette all'uomo di vivere. E' a questo magmatico contingente psichico che si àncora qualsiasi idea dapprima non scientifica e successivamente scientifica di trapianto. Affinché si possa formare nella mente del ricercatore – come per altri versi in quella del trapiantando – un'immagine di trapianto, si devono compiere alcune fondamentali operazioni mentali.
Guardando alla tematica patologica del futuro trapiantato, si deve in primis operare una frammentazione dell'individuo, pur mantenendone un'unità di insieme. Successivamente i singoli frammenti che assieme costituivano il corpo, le singole componenti considerate singolarmente, daranno accesso e visibilità a quella parte che contiene in sé una precisa antifona di morte: una parte morente che, a sua volta, produrrà poi, per estensione all'intero insieme, la morte dell'individuo. Una volta individuata nel trapiantando la parte disfunzionale, si potrà allora passare all'attivazione di una operazione gemella, condotta questa volta su di un altro corpo: in particolare un corpo morto o morente dove si potrà invenire una parte ancora viva, vitale, non sfiorata dalla morte, omologa all'altra malata prima individuata, che si presenta – come un insigth – con la forza immediata dell'evidenza sotto la forma di ricambio.
Questo tipo di operazioni mentali comportano un prezzo da pagare; e ciò non deve meravigliare poiché si tratta sempre d'un derivato del lontano, profondo e irrealistico desiderio d'immortalità. Il prezzo è diversificato a seconda che riguardi il trapiantatore o il trapiantato. Nel primo caso obbliga ad una rinuncia: bisogna saper fare a meno d'un'esperienza di grandiosità, uno pseudo-guadagno, un auto-tributo al proprio narcisismo che avvicina l'operatore – e lo dico nel linguaggio dell'Inconscio arcaico – alla figura del creatore o perfino di colui che è in grado di correggerlo. Se l'operatore non potesse controllare in sé la spinta inflazionante, questa riverserebbe sul piano della realtà la stessa qualità di inflazione confusiva che avrebbe passivamente subìto la personalità del trapiantante, con i danni che è facile immaginare. Quest'opzione, di certo possibile, è sicuramente molto rara.
Il prezzo che riguarda il paziente è di tutt'altro genere, ben più complesso e consiste ad un primo sguardo in una critica definitiva di quel narcisismo ingenuo che fa dell'integrità fisica il nucleo primario della propria identità. Parlo di ingenuità perché questa soltanto può essere la matrice per la quale discendenza dai propri genitori, integrità assoluta del proprio corpo, armonicità e perfino bellezza possono esser ritenuti gli elementi costitutivi della propria identità.
Una posizione che avrebbe come alleato un particolare irrealistico Io-ideale, aspetto d'un Super-Io fortemente dipendente nella sua costituzione da valori che attengono a luoghi comuni o ad istanze di falsificazione. Questi tipi di costruzione sono certamente figli dei tempi o, meglio, nel mondo occidentale, del presente; un oggi violentato nei suoi valori da immagini d'avvenenza, seduzione, eterna bellezza che il vortice della mercificazione ci mette davanti gli occhi. Ciò per ribadire come molti dei nostri costrutti vengano pensati fuori della nostra testa, nei potenti palazzi dell'economia. Entrare invece a diretto contatto con ogni specifica dimensione individuale di rifiuto vuol dire entrare in contatto con il mondo interno, la storia, le personali vicissitudini umane e psicologiche che hanno segnato l'esistenza e l'unicità di quel paziente.
Esistono nel campo della psicoanalisi e della psichiatria delle situazioni morbose che possono essere apparentate al rigetto psicologico del trapianto e che in maniera sia pure molto indiretta mi hanno permesso un primo avvicinamento alla, a me sconosciuta, tematica del trapianto.
Si può pensare almeno a tre esempi; il primo è quello dell'identificazione proiettiva, il secondo è quello di una "Psicosi Sperimentale", il terzo è costituito da una particolare fenomenica della depressione, che va sotto il nome di Sindrome di Cotard. [12]
Il primo esempio prevede un'azione che viene pensata all'esterno della nostra sfera mentale ed ha come esito, indesiderato, l'arrivo nella nostra interiorità di un oggetto altrui, diverso ed estraneo, E' facile comprendere che, quando si realizzi nel trapiantato un rigetto psicologico, il paziente non si sia sufficientemente intenzionalizzato nell'accettazione profonda di tutti gli aspetti dell'intervento salvifico e quindi veda l'indovamento dell'organo trapiantato nel suo corpo come effetto di una volontà altrui, alla quale sia necessario opporsi.
Il secondo esempio riguarda ciò che in psichiatria vengono definite "Psicosi sperimentali" nelle quali si ha l'introduzione nell'organismo di sostanze chimiche esterne capaci di interferire nella vita psichica. C'è una somiglianza fra le psicosi sperimentali e le "Reazioni esogene di Bonhoeffer" dell'antica psichiatria, dove l'elemento esogeno è considerato tale "rispetto al cervello" [13]. L'accostamento tra le due differenti condizioni morbose è funzionale al mio discorso, infatti, in entrambi i casi, gli elementi introdotti sono in grado di determinare delle alterazioni nella mente del ricevente.
Se riportiamo questa particolare condizione morbosa all'esperienza terapeutica e potenzialmente salvifica del trapianto, vediamo come l'elemento genericamente esogeno non differisca poi tanto dal punto di vista dell'Inconscio dall'oggetto trapiantato: questo può, infatti, corrispondere ai vissuti intossicanti realmente posseduti dall'oggetto esogeno. Certa sintomatologia transitoria d'ordine psichiatrico che può seguire all'intervento di trapianto e che comprende confusione mentale, eccitamento maniforme, delirio persecutorio o di grandezza, può essere considerata come una patologia analoga a quella di una reazione esogena o di una psicosi sperimentale, a seconda dei vertici d'osservazione, Con la differenza che ad esempio un delirio persecutorio "da azione esteriore" o a contenuto di veneficio o d'influenzamento divengono, nella cifratura psicopatologica, non più sintomi jaspersianamente incomprensibili bensì elaborazioni rozze e primitive ma ben attinenti all'esperienza di avere nel proprio corpo un pezzo di corpo altrui.
Nella Sindrome di Cotard il paziente depresso esprime inizialmente nel suo deliroide di negazione la perdita dei suoi organi interni e può giungere, sulla base del primo diniego, all'affermazione -caratteristica della Sindrome – che "quell'organo non è suo e che è stato sostituito da un altro a lui alieno".
In entrambi i casi sembra che i pazienti psichiatrici seguano senza saperlo il mito della Chimera e parlino come un paziente psichiatricamente sano che stia vivendo l'esperienza d'un trapianto.
Nonostante abbia prima definito il rifiuto mentale come un'assurda ed angosciosa difesa (Freud) ed abbia poi apparentato il rigetto psicologico a delle sindromi psichiatriche, tutto ciò non ha a che fare con alcuna ipotesi d'omologazione o di psichiatrizzazione, ma riguarda, semmai, il mio modo di accostarmi alla sofferenza psichiatrica. Personalmente ritengo che il trovarsi a vivere in maniera potentemente negativa l'esperienza del trapianto non può meravigliare se solo si pone mente al fatto che proprio il corpo, come dire il diretto interessato, metta in campo a livello biologico delle difese naturali indirizzate all'oggetto proveniente dall'esterno, la cui caratterizzazione primaria è semplicemente quella d'essere estraneo, prima ancora d'essere buono o cattivo.
Pertanto questa bio-logica vede ogni introietto come un nemico, a meno che non abbia delle credenziali d'identità tali che lo rendano riconoscibile come omologo, dunque omologabile, buono, amico, da accogliere. Di certo i troiani assediati, che accoglievano come un simulacro il grande cavallo greco, non erano affetti da tale diffidenza ed erano certamente animati da una fiducia costruttiva nel diverso, nell'estraneo, nell'altro.
Ma se questo episodio mitico afferma, sia pure al prezzo di una dolorosa sconfitta, i valori più alti di una cultura, in genere il Cavallo di Troia viene ricordato, al contrario, come un tributo all'intelligenza e all'astuzia d'Ulisse che, con l'arroganza dell'inganno e non già con il sacrificio delle armi, sgomina gli sciocchi pur se valorosi avversari. Proprio questa lettura mi autorizza ad affermare che poche o pochissime culture sono animate da sentimenti positivi verso il mondo esterno, che viene vissuto come avversario, possibile invasore od oggetto di conquista.
Anzi deve meravigliare che la cultura occidentale – che di certo ha ereditato l'asservimento del potenziale conoscitivo alla distruzione dell'altro (e nel caso specifico anche alla condanna dell'amore, se solo ricordiamo l'origine affettiva e privatissima che mise i greci in guerra con i troiani) – possa aver pensato un progetto salvifico come quello del trapianto. Un progetto non solo mentale, che è stato posto in atto superando mille difficoltà ad ogni livello. Dobbiamo riconoscere che in questo 'regno del male' che è la nostra cultura del potere, del disamore e del sospetto, sussistono piccole zone incontaminate che permettono di pensare in senso positivo e realmente antropofilico. Ma non sempre l'oggetto dell'altrui philia è in grado di gioire e di provare vera gratitudine, infatti egli, come la maggior parte di noi, vive all'interno del male, della depressione, dell'invidia, della paranoia. Pertanto la pratica dei trapianti tiene nel dovuto conto gli aspetti profondi – biologici e psicologici – del trapiantando attraverso una serie d'interventi non solo preventivi, ma capaci anche di attenuare le difese, in questo caso al servizio della morte.
La medicina conosce ormai da sempre (pensiamo alle reazioni iperergiche) l'indiscriminata eccessività di alcune difese che possono perfino condurre a morte (una sorta di "fuoco amico"). In prima linea, la sentinella rivolge sempre la perentoria domanda allo sconosciuto che emerge dalla non visibilità: "Farsi riconoscere". E se non avrà risposta adeguata, lo ucciderà per fermarlo. Utilizzando ancora l'aiuto che ci viene dalla metafora e, se vogliamo, dalle storie di Omero, osserviamo l'immagine di un assedio, che può ben corrispondere ad uno dei possibili modelli del rifiuto.
Accogliendo il punto vissuto del rifiuto, assimiliamo gli assedianti all'organo da trapiantare e identifichiamo i cittadini che sentono l'approssimarsi dello straniero, dell'invasore, al corpo ricevente. In una situazione siffatta è facile immaginare come gli assediati, viste cadere le mura di cinta, si affretteranno a ricostruirne delle altre più all'interno, per tentare la difesa estrema della città, per non dover sottostare all'onta dei vinti, per proteggere la propria civiltà che sarebbe spazzata via e sostituita bruscamente da quella dei vincitori. Il rifiuto psicologico di un organo impiantato nel proprio corpo sarebbe quindi, il risultato d'un orientamento distorto e, pur tuttavia, comprensibile, un movimento di difesa verso un estraneo venuto a portare disgrazia. Come si vede l'inconscio ha una visione polisemica e distorsiva del dono, un inconscio che non ascolta le ragioni del conscio, che invece conosce bene il valore altamente positivo del trapianto. Il rifiuto dell'organo trapiantato è dunque un portato dell'inconscio, un rifiuto irrazionale con il quale fare i conti.
Per entrare nelle dinamiche e controdinamiche dell'inconscio è già sufficiente guardare all'individuo considerandolo dal vertice della sua espressività biologica. Nel caso dell'accoglimento del trapianto, l'Io viene a trovarsi in un rapporto asintonico con il biologico e con l'Inconscio; nel caso del rifiuto l'Io è invece sintonico sia con l'Inconscio sia col biologico. Dunque l'accoglimento è una realizzazione molto difficile ed anche contro natura.
La cultura – che necessariamente in quanto tale è sempre secondo una vecchia definizione contra naturam – si trova a dover contrastare numerosi livelli di rifiuto che convergono su di un assunto di base: considerare in ogni caso l'oggetto del trapianto un corpo estraneo e come tale fare di tutto per non accoglierlo. L'Io è solo, in questa duplice battaglia, che deve condurre sia contro l'Inconscio arcaico che contro il proprio sistema immunitario. I suoi alleati naturali sono il proprio istinto di vita, fiaccato dalla sofferenza e dalla presenza vicina della morte, e quella cultura che ha potuto inventare il trapianto, un aspetto della cultura che potrebbe essere stato fino allora estraneo alla sua visione del mondo. In questa difficile impresa il trapiantato può cercare comprensione e sostegno nelle conoscenze, forse ancora allo stato nascente, delle psicologie del profondo, le cui riflessioni potrebbero agevolare quel percorso esistenziale per il quale la "cosa" da estranea diviene organo vitale e integrato del proprio corpo; un capovolgimento radicale, che permette di uscire dall'anticamera della morte per rientrare in un pieno progetto di vita, il cui valore non sia più obbligato a mediazioni con la sopravvivenza.
Ma poiché il trapiantato si trova, come ogni ricoverato, in uno stato psicologico di regressione, non può che reagire in maniera primitiva e scarsamente integrata: le risposte alla condizione in cui si trova non potranno che essere prevalentemente inconsce. Anzi, dato che la condizione di novità, inesperienza e sollecitazione sono per il trapiantato molto profonde e, per certi versi, maggiori di quelle di ogni altro ricoverato per motivi medici o chirurgici, il paziente non potrà che rispondere in una maniera arcaica, che lo rende perfettamente capace di bypassare i riscontri e i controlli realistici propri dell'Io. Sempre in questa prospettiva, ipotetica, di avvicinamento al paziente, si può coerentemente immaginare in lui il risveglio di frustranti dinamiche che attengono all'antichissima dimensione "cannibalica": il paziente non sa nulla delle caratteristiche del "donatore" e teme che attraverso il trapianto possa esserne colonizzato. Infatti, il prevalere dell'Inconscio arcaico fa sì che egli sia profondamente convinto che l'organo dell'altro mantenga le sue proprie caratteristiche "comportamentali" e che queste vengano imposte anche a sé stesso, ospite passivo di questa parte estranea. E poiché si trova in una posizione di aggressività da difesa, nei riguardi dell'intera matrice dalla quale proviene l'organo, il paziente non può che sentire l'altro, il donatore, come nemico invasore e l'organo come testimonianza ultima di questa sopraffazione. E ancora, in questo circuito di continui ribaltamenti di posizioni e di ruoli, percependo il donatore come un individuo cui è stato espiantato un organo vitale, può identificarsi nell'altro e vivere sé stesso come evirato.
Questo è solo un piccolo possibile esempio assolutamente semplificato del livello animistico nel quale può venire a regredire il paziente. Ed è proprio la dimensione animistica, arcaica che suggerisce di considerare l'esperienza del trapianto come un'esperienza perturbante, con tutto il corteo di vissuti fortemente estraneanti e di orrore che esso comporta.
Se ci riferiamo alla prima letteratura analitica troviamo molto sui possibili vissuti che produce l'organo trapiantato nella psiche del paziente: scrive Freud a proposito della fenomenica de "Il perturbante": "membra staccate dal corpo, una testa mozzata, una mano recisa dal braccio come in una fiaba di Hauff, piedi che danzano da soli …" [14]. Una citazione particolarmente suggestiva dato il discorso che sin dall'inizio è stato collocato in una prospettiva che guarda a parti autonome, separate dal corpo d'origine, portatrici di vita propria.
Ma se il compito dell'analista è, tra gli altri, quello di diffidare delle facili suggestioni, e magari nel mio caso anche di resistere alle sirene di Freud, l'impegno deve poter andare oltre l'eventuale seduzione della suggestione ed approfondire la ricerca per poter comprendere dei fatti apparentemente assurdi e incomprensibili. Ed allora la mia sospettosità viene destituita di significato di fronte all'evidenza quando, sempre a proposito del perturbante, Freud parlerà di complesso di evirazione (ne accennavo prima), di animismo (di cui ho detto), della facilità con la quale il perturbante è in grado di tramutarsi nel suo opposto (qualcosa di familiare, affettuoso, rassicurante) e, dulcis in fundo, del sosia. Una tematica difensiva quella del doppio, di grande portata e interesse, alla quale in tanti ci siamo accostati. Ebbene, proprio l'immagine del sosia sembrerebbe la chiave adatta per comprendere le vicissitudini dell'oggetto trapiantato e del soggetto che ha ricevuto il dono. Ma, sopratutto direi, per dare un senso alle fantasie del paziente riguardo la propria identità, drammaticamente altalenante tra i due corpi ai quali deve fare obbligato riferimento.
Tuttavia, ad una riflessione più attenta, restringerei il classico tema dal doppio, che collega ineludibilmente i due individui, ad una significativa relazione che si limiti a connettere i due organi.
Li considererei pertanto una coppia di contrari, identici ma di segno opposto, legati da un vincolo in quel momento indissolubile. I due organi: quello originario del paziente, che è malato / agonizzante / disfunzionante, pronto all'accantonamento e perciò invidioso e aggressivo, e l'altro, quello trapiantato, sano / già-morto / neo-vivo e per questo invidiato e attaccato. Dunque due parti, una sosia dell'altra. Un compito, in certi casi un dilemma, la cui soluzione può venire qualora l'individuo in crisi, e in crisi di depersonalizzazione, possa accettare profondamente la grandissima responsabilità individuale di essere/avere un organo deficitario, di essere esso stesso deficitario e di trovarsi, per vivere, a dover conquistare dolorosamente dentro si sé una nuova interezza che può essere raggiunta attraverso l'integrazione, l'adozione, direi, dell'altro organo sano. Ciò prevede il riconoscimento della morte di una parte di sé e, contemporaneamente, il compito di elaborarne il lutto.
Siamo ancora agli albori delle scienze che svolgono un'attività riparatoria e di riabilitazione dell'uomo. Oggi, come ieri, è ancora questo il campo d'una chirurgia in rapidissima evoluzione tecnica. Nell'area dei trapianti avvengono però anche grandi evoluzioni non solo nelle tecniche ma, ad esempio, anche nell'ambito della sociologia dei trapianti, e già i donatori viventi cominciano a sostituire i cadaveri. D'altra parte esistono già organi sostitutivi puramente meccanici, che dall'extracorporeo entrano all'interno del corpo e che si trasformano da macchine collettive a componenti del corpo assolutamente individuali. Successivamente potranno arrivare cellule che saranno in grado di risanare un corpo malato, e perfino cellule provenienti dallo stesso individuo. A questo punto la chirurgia potrebbe essere ecclissata ma, con essa, anche la dimensione di solidarietà umana, sociale e personale, che è il terreno sul quale ha potuto svilupparsi l'attuale tecnica dei trapianti.
Se ciò accadesse, sarebbe un grave danno perché, se è vero che non esiste mente sana in un corpo malato, è altrettanto vero che oggi portare a totale buon fine un intervento di trapianto non vuol dire soltanto essere in grado di risolvere tutti i problemi chirurgici, medici e psicologici che compaiono nel campo dell’esistenza del trapiantato, ma vuol dire anche una profonda trasformazione della psiche del soggetto, un risultato globale, una sorta di riabilitazione del corpo e assieme anche dell'anima. Che in fondo, è poi l’unica e l’ultima preziosa risorsa che resta, quando la morte non potrà più essere differita.
Note.
01. Cfr. su Pol.It. la notissima pubblicazione Guenda Bernegger a colloquio con Gilberto Di Petta. 11 febbraio, 2018 di Gilberto Di Petta, inerente il suo blog. CUORE DI TENEBRA. Viaggio al termine della psichiatria. «Questa intervista è apparsa sul n°37, 2017, della “Rivista per le Medical Humanities”, organo ufficiale della Commissione di etica clinica dell’Ente Ospedaliero Cantonale del Cantone Ticino, a firma di Guenda Bernegger, che ringraziamo per l’autorizzazione alla pubblicazione su Psy-on line».
02. Marcel Mauss. Essai sur le don. Forme et raison de l'échange dans les sociétés archaïques. L'Année sociologique, 1924.
03. Si fa qui riferimento a Jean-Luc Nancy, un girondino di Caudéran, Bordeaux, classe 1940, filosofo originale e complesso, della generazione successiva ai Lévinas, Foucault, Derrida e Deleuze. Tesi di laurea a Parigi, poi dottorato con Paul Ricœur, lavoro su Immanuel Kant. Autore prolifico, decustruttivista sulla scia di Derrida, teorico del comunitarismo, del tatto, del senso in tutti i sensi, titolare di filosofia all’Università alsaziana di Strasburgo. Dall’esperienza diretta del suo trapianto cardiaco, derivano interessanti riflessioni sul corpo che aprono una inesauribile fonte di pubblicazioni: Corpus, Paris, Métailié, 1992. (tr. it. Cronopio), Être singulier pluriel, Paris, Galilée, 1996. (tr. it. Einaudi), L'Intrus, Paris, Galilée, 2000. (tr. it. Cronopio).
04. Cfr. POL.it 15 agosto 2017 – Psychiatry on line Italia. Giorgia Tisci e Giuseppe Ceparano. Psicologi Psicoterapeuti ad orientamento Fenomenologico – Antropoanalitico.
05. Praticamente un eteroinnesto con una valvola biologica realizzata con tessuto di maiale. Le valvole porcine sono prodotte a partire dalla valvola aortica del maiale e vengono di norma cucite su un telaio flessibile o semi-flessibile per ottenere una valvola “con stent”. L’operazione che ho subito io (2010) è stata un’alternativa: la radice aortica porcina naturale è stata lasciata intatta per funzionare essa stessa da telaio, dando forma a una valvola “senza stent”. Non posso che ringraziare e complimentarmi con l’equipe del Prof. Francesco Musumeci, primario della cardiochirurgia dell’Ospedale San Camillo di Roma, una delle eccellenze del paese. Inutile aggiungere che sono stato fuori del mondo per un tempo non breve, ho delirato, ho allucinato, ho dovuto essere contenuto, perchè ho fatto il matto agitato, dunque ho realizzato il sogno di tutti gli psichiatri: conoscere e provare l’esperienza schizofrenica acuta, direttamente. Ne parlai e ne scrissi a Bruno Callieri un lungo racconto, che non trovo più, in cui accennavo, tra l’altro, ad “allucinazioni domotiche”.
06. La Rivoluzione algerina o anche la guerra d'indipendenza algerina, insomma, la guerra franco-algerina, ossia il conflitto che oppose l’Algeria libera alla Francia occupante dal 1º novembre 1954 al il 19 marzo 1962, vide scontrarsi il FLN (Front de Libération Nationale), l'esercito francese e l’OAS (Organisation de l'armée secrète), non solo nei territori d’oltremare, ma anche nella Francia metropolitana. Particolarmente aggressiva, codesta organizzazione paramilitare clandestina francese, scatenò una serie di attentati cruenti. Creata a Madrid con la connivenza franchista da Jean-Jacques Susini e Pierre Lagaillarde due avventurieri che guidavano un gruppo di mercenari disperati e perdenti reduci dall’Indocina ex-colonia francese. Lo slogan ritmato e minaccioso dell’OAS, era "Al-gé-rie-fran-çai-se". Voleva impedire l'indipendenza dell'Algeria e la sua liberazione dal dominio coloniale francese. Il termine "Pied-Noir", designava i francesi d'Algeria, rimpatriati a partire dal 1962.
07. La battaglia di Algeri. Italia. Algeria, 1966 regia Gillo Pontecorvo, durata 121 min, Leone d’oro a Venezia, 27ª Mostra internazionale d'arte cinematografica, 1966.
08. Cfr. Massimo Recalcati. È il nostro cuore il primo straniero che incontriamo. Repubblica.It, 22 maggio 2016.
09. Non so quale tipo di bibliografia avesse in mente Antonino Lo Cascio per corredare questo suo lavoro prezioso e di una attualità profetica. Tutti i maestri in qualche modo lo sono, nel senso che anticipano la scienza, l’indirizzo che orienterà la ricerca prossima ventura. A parte il piacere di sentirlo ancora vicino mentre lo trascrivevo e mi soffermavo a ragionare mentalmente in silenzio con lui i passi più ostici del suo pensare, non posso che aggiungere qualche nota sugli autori noti ad entrambi. Tralascio invece la lunga nota di ricerche bibliografiche e tematizzazioni di supporto che feci per lui, oggi superate. Ciò che invece mi appare ora in tutta evidenza è una sorta di gara inconsapevole a ci risultasse il più pirandelliano dei due.
10. Per il pensiero di Jean-Luc Nancy, che Antonino Lo Cascio, peraltro, conosceva alla perfezione e credo lo avesse anche incontrato personalmente, nei suoi lunghi soggiorni in Francia (aveva una casa a Parigi nel XVIII arrondissement), si rinvia alla nota 03.
11. Si veda Jules Masserman (1955), The Practice of Dynamic Psychiatry. M.D. W. B. Saunders Company, Philadelphia and London, 1955. Lo psichiatra citato è Jules Homan Masserman (1905-1994) uno psichiatra e psicoanalista statunitense nato in Polonia a Chudnov, emigrato nel 1908 in USA a Detroit, fu professore di neurologia e psichiatria all’università di Chicago, elaborò un sistema globale di terapia biodinamica e interpretò l’assenza delle "difese" freudiane contro l’ansia, nei comportamenti umani spericolati come illusione di invulnerabilità e immortalità, meccanismi attraverso i quali si negano il pericolo e la morte.
12. Jules Cotard (1840–1889), è stato un neurologo francese, di Issoudun, Dip. dell’Indre (Centro-Valle della Loira). Tutti i lettori di Pol.It. sanno che fu il primo a descrivere in una paziente con una melancolia involutiva il “delirio di negazione” (le délire de négation) al quale gli fu intestato l’eponimo di Sindrome di Cotard. Lo fece in una memorabile lezione tenuta alla Salpêtrière nel 1880. La particolarità che incuriosì e catturò l’uditorio, inchiodandolo nell’emiciclo, fu il fatto che la poveretta negasse di essere viva. Anzi, per l’esattezza, diceva di non avere più i propri organi interni e di non poter mangiare perchè non aveva più lo stomaco. Sulla base di tale esperienza deliroidea si disse poi convinta di non poter morire di vecchiaia come tutti e di essere condannata all’immortalità.
13. Karl Bonhoeffer (1868-1948) è stato un importante neuropatologo e psichiatra tedesco del Württemberg. Fu professore a Heidelberg, Breslavia e Berlino. Menzionato in letteratura per la dottrina delle “Reazioni esogene” nello studio delle “psicosi sperimentali”. Il “Tipo esogeno di reazione” cui ha dato l’eponimo stabilisce che ogni noxa che colpisce l’encefalo dall’esterno (tossica, infettiva, traumatica), causa un insieme sintomatologico aspecifico e similare che comporta un disturbo della coscienza che, dalla confusione mentale può giungere fino al coma, passando per stati oniroidi e stuporosi. Famoso per aver descritto le psicosi sintomatiche da etilismo cronico, lo è stato invece dolorosamente quando Hitler gli fece giustiziare il sesto figlio, Dietrich teologo, sospettato di aver partecipato al suo attentato del 20 luglio 1944. Fu eliminato per impiccagione all'alba del 9 aprile 1945, pochi giorni prima della fine della guerra.
14. Wilhelm Hauff (1802-1827), tedesco di Stoccarda è stato un brillante scrittore di gusto fantastico e romantico, abile nell’inventare fiabe esotiche e comporre opere brevi. Purtroppo anche la sua vita lo fu. Morì a 25 anni
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