Recensione a: C'era una volta a... Hollywood

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22 settembre, 2019 - 13:04
di: Riccardo Dalle Luche
Regista: Quentin Tarantino
Numerose sono le delusioni di chi va a vedere questo a suo modo onesto colossal autocelebrativo hollywoodiano. La maggiore di tutte è la scelta di falsificare la storia dell'omicidio di Sharon Tate e dei suoi ospiti, dopo che tutto il film ci mostra una ricostruzione ambientale e storica maniacale di quel 1969 che sarebbe sfociata nel tragico evento: una scelta autoriale, questa, incomprensibile, se non dalla volontà di mantenere il film sul suo vero asse narrativo, la storia di un attore di western (e poi di spaghetti-western), Leonardo Di Caprio, e della sua simpaticissima controfigura (Bard Pitt).  Le ragioni del marketing (e di Tarantino) hanno qui forse utilizzato uno degli eventi più maldigeribili della cultura beatnik e hyppie[1] come specchietto delle allodole per propinarci una competentissima quanto autocompiaciuta e tediosa lezione di cinema.
 Il film è strutturato come un amalgama didattico,  manierista, perfezionista, citazionale e autoreferenziale, sulle produzioni western e i serial della tv americana dell'epoca, intramezzata da digressioni sulle tecniche di recitazione e la fragilità degli interpreti dei personaggi più spietati, sulle logiche produttive, le scenografie e le macchine da presa dell'epoca, quest'ultime, come le televisioni, veri oggetti di moderniariato industriale.  Ovviamente é perfetta e a tratti stupefacente e grandiosa la ricostruzione ambientale della California 1969, ad esempio nelle highways le macchine sono tutte d'epoca e i locali e i drive-Inn rivivono sulle colline di Hollywood con le loro luminosissime insegne al neon. Il personaggio di Sharon Tate, nella sua semplicità e ingenuità, è perfettamente delineato, così come la pochezza concettuale della comunità hyppie di Charles Manson e dei suoi ospiti al ranch.
Ma, a parte questi virtuosismi realizzativi, C'era una volta Hollywood" è un film mancato, rappresenta un esempio "quasi godardiano" di metafilm, del genere ormai anch'esso abusato, di "film-sul-cinema": per lunghi tratti é sostanzialmente noioso, con l'uso dei tempi reali su dialoghi teorici e improbabili, sembra una sorta di lezione accademica nella quale Tarantino, invece di mostrarci delle slides, ci fa vedere dei filmetti esplicativi da lui riprodotti, ricostruiti.

Fortunatamente, nella pletora produttiva attuale, senza essere sostenuto dalla grancassa del marketing,  il vero cinema che muove il cuore e le emozioni esiste ancora, e viene spesso da tutt'altri luoghi e tutt'altre cinematografie che quella hollywoodiana:  ad esempio "Cafarnao" di Nadine Labaki, il vero capolavoro dell'anno, smuove le emozioni e suscita la meraviglia della visione come le grandi pellicole del cinema di sempre; è un film neorealista, ma non lo fa vedere, non si cita, non ha bisogno di enunciarlo; qui è la vita stessa che si fa immagine. In questo sopravvalutato Tarantino (e forse in ogni film di Tarantino), invece, le immagini sopraffanno e si sostituiscono alla vita.


[1] Noi poveri consumatori di cinema ignoravamo che la storia è già stata raccontata, come un tema ossessivo, in diverse semisconosciute pellicole americane, che la magia del web ci restituisce cliccando sul nome Sharon Tate: The Manson family, di Jim van Bebber, 1997; Helter Skelter di John Gray, 2004;  House of Manson di Barandon Slagle, 2014, Charlie Says, di Mary Harron, 2018, The Haunting of Sharon Tate, di Daniel Ferrands, 2019.
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