IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Sulla matematica in Hegel e dalle nostre parti

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30 settembre, 2019 - 08:08
di Antonello Sciacchitano

Ecco le sei pagine del manifesto anti-matematico di Hegel nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirto. Sembra scritto oggi, invece ha due secoli sulle spalle ed è ancora attuale; testimonia una sublime ignoranza e una forma di pensiero tuttora viva.
 
[30] Poiché il sistema dell’esperienza dello Spirito ne tratta solo il fenomeno, il suo procedere verso la scienza del vero, consistente nella figura del vero, sembra meramente negativo. Si vorrebbe essere dispensati dal negativo in quanto falso, pretendendo di essere portati immediatamente alla verità; perché avere a che fare con il falso?

Si è già parlato del fatto che si dovrebbe cominciare subito con la scienza. È qui la sede per dire quale relazione abbia in generale [tale inizio] con il negativo in quanto falso. Le corrispondenti rappresentazioni ostacolano soprattutto l’accesso alla verità. Sarà l’occasione per parlare della conoscenza matematica, considerata dal sapere non filosofico come l’ideale cui la filosofia dovrebbe mirare, tentativo finora risultato vano.

Il vero e il falso appartengono a quei pensieri determinati che, privi di movimento, valgono per la propria essenza, uno di qua e l’altro di là, isolati e statici senza punti in comune. Per contro bisogna affermare che la verità non è moneta coniata da poter spendere e incassare così com’è. Non c’è neppure un falso come non c’è un male. Il male e il falso non sono così cattivi come il diavolo; prenderli per diavoli li farebbe soggetti particolari, mentre in quanto falso e male sono solo universali con una propria natura l’uno rispetto all’altro.

Il falso, di cui si sta parlando, sarebbe l’altro, il negativo della sostanza, che è il vero in quanto contenuto di sapere. Ma la sostanza stessa è essenzialmente il negativo, in parte come differenziazione e determinazione del contenuto, in parte come semplice differenziare, ossia in generale come Sé e come sapere.

È ben possibile sapere falsamente. Sapere in modo falso significa che il sapere non è uguale alla sostanza. Ma proprio tale diseguaglianza, il differenziare in generale, è il momento essenziale. È da tale differenziazione che deriva la loro uguaglianza; [31] la verità è l’uguaglianza così raggiunta [tra sapere e sostanza]. Ma la verità non è verità come se la diseguaglianza fosse stata tolta come la scoria dal metallo puro e neppure come il prodotto finito da cui sia stato tolto l’arnese per produrlo; al contrario la diseguaglianza è come il negativo, come il Sé ancora presente nel vero in quanto sé stesso.
Perciò non si può dire che il falso costituisca un momento o addirittura una componente del vero. Nell’espressione “in ogni falso c’è del vero” entrambi i termini funzionano come l’olio e l’acqua, messi insieme solo in modo esteriore, senza mescolarsi. Volendo indicare il significato, il momento del perfetto essere altro, le loro espressioni non vanno più usate là dove il loro essere altro è stato tolto. Come l’espressione dell’unità di soggetto e oggetto, di finito e infinito, di essere e pensiero ecc. ha l’inconveniente che soggetto e oggetto ecc. significano ciò che sono al di fuori della loro unità, quindi nella loro unità si intende ciò che la loro espressione dice, così il falso non è niente di più che un momento della verità in quanto falso.

Il dogmatismo della forma di pensiero nel sapere e nello studio della filosofia non è altro che l’opinione secondo cui il vero consisterebbe in una proposizione saputa come risultato fisso oppure anche immediata. A questioni come quando nacque Cesare o quante tese facciano uno stadio e quale stadio va data una risposta chiara e tonda, come è certamente vero che il quadrato dell’ipotenusa equivale alla somma dei quadrati dei cateti di un triangolo rettangolo. Ma la natura di tale cosiddetta verità differisce dalla natura della verità filosofica.

Riguardo alle verità storiche, considerando solamente la pura materialità storica, non è difficile ammettere che esse riguardino la singola esistenza, abbiano un contenuto sul versante dell’accidentalità e dell’arbitrario, le cui determinazioni non sono necessarie.
Ma neppure tali verità nude e crude, come negli esempi citati, vanno senza il movimento dell’autocoscienza. Per conoscerne anche solo una bisogna fare molti confronti, consultare libri, fare certe ricerche. Anche per un’intuizione immediata, sebbene sia solo il nudo risultato a interessare, solo la conoscenza fondata ha valore di verità.

Riguardo alle verità matematiche, sarebbe considerato ancora meno geometra chi sapesse a memoriai teoremi di Euclide senza dimostrazioni, estrinsecamente, senza saperli intrinsecamente, [32] per dirla per antifrasi. Altrettanto insoddisfacente sarebbe ritenuta la conoscenza, ottenuta misurando molti triangoli rettangoli, che i loro lati stiano nel noto rapporto reciproco.

Tuttavia, anche nella conoscenza matematica la peculiarità essenziale della dimostrazione non ha ancora il valore e la natura di momento del risultato stesso, anzi in esso è piuttosto già passato e dileguato. In quanto risultato, il teorema è considerato vero, ma la circostanza così ottenuta non riguarda il suo oggetto ma è in rapporto solo al soggetto. Il movimento della dimostrazione, infatti, non appartiene all’oggetto, ma è una faccenda esterna. Così la natura del triangolo rettangolo non è decomposta, come rappresenta la costruzione necessaria a dimostrare il teorema, che ne esprime il rapporto. L’intera produzione del risultato è un processo e un mezzo del conoscere [soggettivo].
Anche nella conoscenza filosofica il divenire dell’esistenzain quanto esistenza è diverso dal divenire dell’essenzao della natura interna della cosa, ma in primo luogo la conoscenza filosofica le contiene entrambe mentre la matematica presenta solo il divenire dell’esistenza, cioè dell’esseredella natura della cosa nel conoscere come tale.

Per altro la conoscenza filosofica unifica questi due particolari movimenti. La genesi interna o il divenire della sostanza è un passaggio indiviso verso l’esterno o verso l’esistenza, cioè nell’essere per altro; per converso il divenire dell’esistenza è il riprendersi nell’essenza. In tal modo il movimento è il duplice processo e divenire dell’Intero, per cui ciascun momento pone al tempo stesso l’altro e perciò ciascuno ha in sé entrambi come due aspetti. Insieme i due fanno l’Intero, dissolvendosi in sé stessi e formando suoi momenti.

Nella dimostrazione della conoscenza matematica l’intuizione è rispetto alla cosa una faccenda esteriore; ne consegue che la vera cosa si modifica. I mezzi impiegati – la costruzione e la dimostrazione – contengono davvero delle proposizioni vere, ma va decisamente detto che il loro contenuto è falso. Nell’esempio di cui sopra il triangolo è smembrato e le sue parti sono distribuite tra altre figure, che la costruzione fa emergere al suo posto. Solo alla fine si restituisce il triangolo con cui avevamo inizialmente a che fare, che durante il processo era stato perso di vista, frammentato in pezzi appartenenti ad altre totalità.

Quindi vediamo qui entrare in gioco anche la negatività del contenuto, che si dovrebbe chiamare altrettanto bene falsità del contenuto, proprio come nel movimento del concetto il dileguare dei concetti ritenuti fissi [dal dogmatismo].

La peculiare insufficienza della conoscenza matematica riguarda tanto la conoscenza stessa quanto in generale la sua materia.

Per quando riguarda la conoscenza, non si vede innanzitutto la necessità della costruzione, [33] perché non risulta dal concetto del teorema ma viene imposta; si deve ciecamente ubbidire alla prescrizione di tirare certe linee, mentre se ne potrebbero tirare infinite altre senza sapere altro, ma in buona fede che ciò andrà a buon fine per la condotta della dimostrazione. Successivamente si evidenzia l’adeguatezza al fine, ma perciò è solo esteriore perché si dimostra solo in un secondo tempo.

Così la dimostrazione procede lungo una strada che comincia in un punto qualunque senza sapere in che rapporto stia con il risultato che deve venir fuori. Nel suo decorso la dimostrazione assume certedeterminazioni e ne scarta altre, senza che si veda immediatamente la necessità; una finalità esteriore regge questo movimento.

L’evidenza di questa conoscenza manchevole, di cui la matematica va orgogliosa, magari vantandosi contro la filosofia, poggia solo sulla povertà del fine e sulla deficienza della materia; si tratta quindi di qualcosa che la filosofia deve disprezzare.

Il fine o il concetto della matematica è la grandezza, proprio il rapporto inessenziale e aconcettuale. Il movimento del sapere si sviluppa perciò in superficie, senza toccare la cosa stessa, né l’essenza né il concetto; perciò non è un comprendere concettuale (Begreifen).

La materia per cui la matematica garantisce il suo gradito tesoro di verità è lo spazio l’Uno. Lo spazio è l’esistenza in cui il concetto inscrive le proprie differenze come in un elemento vuoto e morto, in cui esse stesse sono immobili e senza vita. Il reale effettuale non è qualcosa di spaziale, come lo tratta la matematica; a tale irrealtà, tipica delle cose della matematica, non si dedicano né la concreta intuizione sensibile né la filosofia. In tale elemento irreale rientra solo un vero altrettanto irreale, cioè proposizioni fisse e morte. Con ognuna di loro si finisce lì; la successiva ricomincia per conto proprio da capo, senza che la prima si muova verso l’altra e senza che in questo modo si generi una connessione necessaria attraverso la natura della cosa. Inoltre per amore di quel principio ed elemento – e in ciò consiste il tratto formale dell’evidenza matematica – il sapere [matematico] procede lungo la linea dell’uguaglianza. Infatti ciò che è morto, poiché non si muove da sé, non arriva a differenziare l’essenza, alla contrapposizione essenziale o alla disuguaglianza, tanto meno al passaggio da un opposto all’altro, all’automovimento qualitativo ed immanente. Infatti è solo la grandezza, la differenza inessenziale, che la matematica tratta. La matematica astrae dal fatto [34] che sia il concetto a scindere lo spazio nelle sue dimensioni e a determinare le connessione entro e tra di loro; non tratta per esempio il rapporto tra linea e superficie e, quando confronta il diametro del cerchio con la circonferenza, cozza contro la loro incommensurabilità, cioè con un rapporto concettuale, contro un infinito che sfugge alla sua determinazione.

La matematica immanente, cosiddetta pura, non contrappone allo spazio neppure il tempo in quanto tempo, come seconda materia della propria trattazione. Dal canto suo, la matematica applicata lo tratta, come pure tratta il movimento e altre cose reali. Assume dall’esperienza i suoi [principi] sintetici – proposizioni sui loro rapporti, determinati dai suoi concetti – e applica le proprie forme solo sulla base di tali premesse. Se le cosiddette dimostrazioni di tali principi – come l’equilibrio della leva e il rapporto spazio-temporale della caduta dei gravi ecc. – che sono così frequenti, sono date e assunte come dimostrazioni, questo fatto stesso dimostra quanto grande sia il bisogno di dimostrazione nella conoscenza; infatti, quando non ha più dimostrazioni, si tiene conto anche della vuota parvenza di dimostrazione con una certa soddisfazione. Una critica di quelle dimostrazioni sarebbe tanto sorprendente quanto istruttiva, in quanto ripulirebbe in parte la matematica da questi falsi belletti e d’altra parte mostrerebbe i limiti della stessa matematica e quindi la necessità di un altro sapere.
Per quanto riguarda il tempo, si dovrebbe ritenere che come controparte dello spazio formi materia per l’altra parte della matematica pura. Così il tempo sarebbe il concetto stesso dell’esistenza. Il principio della grandezzae il principio dell’uguaglianza, dell’unità astratta e non vivente, non sono in grado di occuparsi della pura inquietudine della vita e della differenziazione assoluta. Perciò tale negatività diventa, ma solo come paralizzata, vale a dire come uno, la seconda materia del conoscere matematico che, essendo un’attività esteriore, abbassa l’automovente a materia, con in sé un contenuto indifferente, esteriore e privo di vita.

Per contro la filosofia non considera la determinazione inessenzialea meno che e nella misura in cui sia essenziale. Il suo elemento e il suo contenuto non è l’astratto o l’irreale ma il reale effettuale (das Wirkliche), ciò che si pone da sé e vive entro sé stesso, l’esistenza nel proprio concetto. È il processo che produce e percorre i propri momenti e tutto questo movimento nella sua interezza forma il positivo e la sua verità. La quale include in sé anche il negativo, qualcosa che si chiamerebbe falso, potendo considerarlo un che da cui astrarre. Il dileguante va considerato esso stesso ancor più come essenziale, [richiudendola] in una determinazione rigida [35] che, rescissa dal vero, sia da abbandonare non si sa dove, tanto quanto dall’altra parte il vero, ridotto [ormai] a positivo inerte e morto. Il fenomeno è l’apparire e il perire, che esso stesso né nasce né perisce, ma è in sé e forma la realtà effettuale e il movimento della vita della verità.

Così il vero è la vertigine bacchica in cui non c’è membro che non sia ebbro e, poiché ogni membro isolandosi altrettanto immediatamente si risolve [nell’Intero], la vertigine è la semplice e trasparente quiete. Nel tribunale di quel movimento non sussistono né le singole figure dello spirito né pensieri determinati, ma esistono altrettanti momenti positivi quanti sono negativi e dileguanti.
Nell’interezza del movimento, intesa come quiete, ciò che si differenzia assumendo un’esistenza particolare si conserva come qualcosa che si ricorda, la cui esistenza è il sapere di sé stesso e come questo è esistenza altrettanto immediata.

Potrebbe sembrare necessario esporre il più del metodo di questo movimento o della scienza. Il suo concetto è già in quanto detto e la sua giusta esposizione appartiene alla logica, anzi è la logica stessa. Infatti il metodo non è altro che la costruzione dell’intero esposta nella sua pura essenzialità. Da quel che finora è giunto fino a noi dobbiamo avere la consapevolezza che anche il sistema delle rappresentazioni riferentesi al metodo filosofico appartiene a una cultura ormai superata.
Se ciò dovesse suonare propagandistico o rivoluzionario, un tono da cui mi sento lontano, si pensi che l’apparato scientifico offerto dalla matematica – fatto di spiegazioni, partizioni, assiomi, serie di teoremi e loro dimostrazioni, principi e loro conseguenze e conclusioni – è secondo l’opinione comune per lo meno antiquato. Anche se la sua inutilità non è chiaramente ammessa, non se ne fa più uso o si usa meno; pur non disapprovato, non è amato. Noi dobbiamo considerare che l’eccellenza entri nell’uso e si faccia amare.

Non è però difficile riconoscere che il modo consistente nell’esporre una tesi, adducendo motivazioni a sostegno e opponendosi alle tesi contrarie con controdeduzioni, non è la forma in cui la verità possa farsi avanti. La verità è il movimento di sé in sé stessa, mentre il metodo matematico è una conoscenza esteriore alla propria materia, metodo che è adatto a lei e le va lasciato, perché, come notato, essa ha come principio il rapporto aconcettuale della grandezza e come sua materia lo spazio morto e pure l’Uno morto.
 
(Da Georg Wilhelm Friedrich Hegel,Phänomenologie des Geistes(1807),in G.W.F. Hegel, Gesammelte Werke, vol. 9, a c. W. Bonsiepen e R. Heede, Hamburg 1980, pp. 30-36).


* * *

Sono pagine ormai ben note, passate nel patrimonio culturale dell’idealismo. Ormai non le legge più nessuno perché sono entrate nel senso comune, dove hanno messo le radici apparentemente inestirpabili dell’ovvio. I frutti di una filosofia che pone la verità scientifica in secondo piano rispetto alla filosofica si vedono anche nelle varie campagne antiscientifiche promosse dentro e fuori il web. Pericolosa la filosofia, quando diventa ovvia! Diventa dogmatica.

La filosofia dell’ormai maturo Hegel contiene la famosa distinzione tra verità matematica e verità filosofica, insieme a un paio di esorbitanti sciocchezze. La prima è storica: afferma che quello matematico è un metodo ormai antiquato (veraltet) senza più corso. La seconda mostra l’ignoranza dell’epoca, lei sì oggi antiquata; afferma che la materia di studio della matematica è lo spazio e l’uno. Oggi in matematica non si parla di spazio ma di spazi. Di uno i matematici non hanno mai parlato, essendo un termine filosofico, addirittura metafisico, molto probabilmente retaggio in Hegel di una fissazione kantiana.

La mia posizione riguardo alla posizione di Hegel è chiara e distinta. La matematica è una forma di sapere nel reale (non è l’unica). Essere ostili alla matematica, come Hegel o come tanto senso comune umanistico, significa essere ostili al reale. Non è l’unico modo di non voler sapere del reale; è il modo più facile e diffuso dalla comune volontà di ignoranza. Chi vuole “osare sapere” alla Kant deve rischiare di compromettersi almeno parzialmente con i numeri dell’aritmetica e le simmetrie della geometria. Deve tollerare la matematica come modo di presentarsi del reale.

Allora perché riaprire la Fenomenologia dello Spirito? Chi mi odia afferma che amo Hegel. Non amo Hegel, neppure lo odio. Lo studio per prenderne le misure e distanziarmene, ben sapendo che l’hegelismo ormai ci circonda da ogni parte, declinato nell’ambiente della vita quotidiana come buon senso dialettico, “sintesi disgiuntiva” tra destra e sinistra, oggi felicemente coabitanti, mascherati nelle varie riedizioni del populismo. Quando si dice sintesi degli opposti…

Soprattutto cerco di evitare il vitalismo hegeliano, che inquina persino il pensiero psicanalitico. Ogni venti pagine sulle 7000 delle Gesammelte Werke Freud parla di vita psichica (Seelenleben). Ha letto Hegel? Pare di no.[1] Il titolo giusto del capolavoro di Hegel avrebbe dovuto essere Fenomenologia della vita. Il termine Leben (vita) emerge sin dalla decima pagina dell’opera delle 434 che ne ha. Sembra che il destino originario della filosofia sia di occuparsi di “materia vivente”. Furono ilozoisti tutti i primi filosofi; tra gli ultimi quanto a “slancio vitale”, magari in direzione della morte, eccellono gli esistenzialisti da Heidegger a Sartre, via Bergson. In questo senso, da vitalista, Freud si è meritatamente guadagnato un posto nelle ultime pagine dei manuali di storia della filosofia in uso nei licei, soprattutto grazie all’invenzione della pulsione di morte. Sul tema della morte dentro la vita, rimando al saggio di Rossella Valdré, Sulla sublimazione: un percorso del destino del desiderio nella teoria e nella cura, Mimesis, Milano 2015, qui recensito al link http://www.psychiatryonline.it/node/6567.

Poco importa che non si possa definire la vita. Anzi, tanto meglio. Hegel usa la nozione indefinita di vita come primum filosofico per distinguere la verità morta della matematica – fissa, statica e dogmatica – dalla verità viva della filosofia, dialettica e in automovimento (Selbstbewegung, ivi, p. 19) tra i due opposti del vero e del falso, sempre compresenti nel suo discorso come luce e ombra. Direi che in questo senso la filosofia hegeliana, intesa come semantica vitalistica, è un avatar della filosofia aristotelica del movimento finalizzato, non quello fisico, la kinesis dei corpi materiali, ma quello ontologico, cioè il cambiamento dall’essere in potenza all’essere in atto come sua finalità, la metabolé vitale. Da Aristotele a Hegel lo sbocco naturale di questa filosofia è nell’attuale senso comune, originariamente ostile tanto alla matematica quanto alla scienza galileiana. In analisi si registra la portata di questa antiscientificità come resistenza al procedere del lavoro analitico; non è la resistenza a riconoscere l’Edipo inconscio o la castrazione, come pensava Freud; tanto l’analista quanto l’analizzante resistono all’esordio del libero pensiero scientifico. L’uomo non ama la libertà, scriveva Etienne de la Boétie già nel 1576 nel saggio sulla servitù volontaria. Aggiungo: ben prima del libero pensiero, l’uomo non ama pensare.

Il vitalismo è la perfetta antitesi dello spirito scientifico moderno. "Dio lo perdoni", diceva Einstein in riferimento al vitalismo di Bergson. Mi sembra quasi inutile precisare che NON intendo scienza in senso hegeliano. Per Hegel la scienza è la speculazione sul vero, magari in coabitazione con un falso da superare; insomma, contemplazione pura di un certo individuo particolarmente dotato di spirito metafisico. Per noi moderni, invece, la scienza galileiana è una pratica di congetture, che non sono né vere né false – tertium datur – ma da confutare o, provvisoriamente, da confermare in ambito collettivo. Nella scienza non esiste Lo scienziato, come esiste Il filosofo caposcuola o Il maestro di psicanalisi; nella scienza esistono collettivi di pensiero, diversi dalle scuole e democraticamente organizzati.

Tutto ciò premesso, come diceva il mio insegnante di geometria, le pagine qui riproposte, in una traduzione meno parafrastica di quelle accademiche correnti (tendenziose nel senso che mirano a veicolare la filosofia del traduttore a spese di quella dell’autore), hanno un valore storico di cui è bene tenere conto.

Hegel scrive la Fenomenologia all’inizio del XIX secolo. È l’epoca in cui la matematica si sta faticosamente risvegliando dal lungo letargo euclideo, durato quasi due millenni, agitato tuttavia da un incubo ricorrente: la dimostrazione del quinto postulato dell’esistenza della parallela a una retta per un punto dato. Già da tempo Gauss ha dimostrato alcuni teoremi indipendenti da tale postulato, ma li tiene prudentemente nel cassetto, per non suscitare il gracidare dei beoti, intendendo i kantiani.
L’opera di Gauss fu perfezionata da due giovani, Nikolaj Lobacevskij e Janos Bolyai, figlio di un suo carissimo amico, che finalmente pubblicarono i teoremi proibiti, come se fossero materiali porno. I tre osarono superare le due colonne d’Ercole imposte alla matematica dal conformismo idealistico: il primato dello spazio unico e l’egemonia del regime quantitativo, inteso hegelianamente come sede della differenza non concettuale, cioè come luogo del falso dogmatico. Le geometrie non-euclidee, allora, aprono alla pluralità di spazi; oltre a quello parabolico euclideo scoprono l’esistenza di almeno altri due spazi, dove non vale il teorema di Pitagora: lo spazio ellittico, dove non esistono parallele a una retta per un punto, e lo spazio iperbolico dove ne esistono infinite, all’interno del cosiddetto angolo di parallelismo. La distinzione gaussiana è intuitiva: nel caso bidimensionale lo spazio parabolico ha curvatura costante nulla (il piano), quello ellittico positiva (la sfera) e quello iperbolico negativa (la pseudosfera).

Contemporaneamente si indebolisce l’egemonia del regime quantitativo imposto dalla metrica pitagorica, l’unica secondo il filosofo Hegel, ma non secondo il filosofo Husserl, che nelle Ricerche logiche afferma: "L'elemento quantitativo non è affatto proprio dell'essenza più generale della sfera matematica e del metodo clcolistico che si radica in essa" (E. Husserl, Ricerche logiche. Prolegomeni a una logic pura (1900-01), a c. G. Piana, vol. I, Il saggiatore, Milano 1988, p. 4). I nuovi spazi non euclideei non hanno metriche pitagoriche, date dalla somma dei quadrati: nella metrica iperbolica compare la differenza di quadrati, che tornerà anche nella relatività ristretta di Einstein. Il quadro della matematica si va arricchendo di colori, contro la visione monocromatica dell’idealismo. Passerà poco più di mezzo secolo e il quadro sarà definitivamente incorniciato dal programma di Erlangen di Felix Klein, che paradossalmente fa proprie alcune istanze hegeliane. Gli spazi kleiniani non sono spazi vuoti e morti, dove avvengono cose a loro estrinseche, come tracciare linee che sezionano un triangolo non si sa bene per quale necessità. Sono spazi dotati di automorfismi interni, che li trasformano in sé stessi, conservando certi invarianti. Protagoniste delle nuove geometrie non sono solo le figure che essi ospitano, per esempio i triangoli, ma sono gli spazi stessi gli attori che si trasformano in sé dinamicamente. La vita torna a soffiare anche sull’arida e morta geometria.

Due parole – e chiudo – sull’origine di questa rivoluzione matematica, che potrebbe riguardare anche il destino della psicanalisi, in particolare del freudismo, se si aprisse un po’ di più alla scientificità moderna, cioè galileiana, mollando gli ormeggi dell’aristotelico scire per causas, tuttora vigente in astrologia.

Tutto comincia con l’algebra. Con l’algebra, già ai tempi di Diofanto (III-IV secolo d.C.), la matematica cessa di disegnare figure e comincia a scriversi. Si inaugura l’era delle formule algebriche, le bestie nere degli umanisti. Il calcolo non è più numerico; diventa letterale. Nel XVII secolo Lagrange è orgoglioso di aver composto un ponderoso trattato di meccanica analitica senza figure. L’istanza della lettera, direbbe Lacan, prende il sopravvento. Quel che, tuttavia, Lacan non vide è che la lettera implica l’uso delle variabili. In algebra la lettera aè un puro significante:non rappresenta sé stessa ma i valori che la variabileassume e consegna ad altre variabili, per esempio le funzioni, per determinarne i valori. Si vede quanto siamo vicini alla tesi “algebrica” di Lacan del significante che rappresenta il soggetto per un altro significante?

Si può reinterpretare tutto l’insegnamento di Lacan sostituendo a “significante” il termine “variabile”, i cui valori sono il soggetto e l'oggetto. Per esempio, il discorso del Padrone si reinterpreta così: l’essere (S1) del soggetto ($) implica il sapere (S2) dell’oggetto (a), che si capovolge cartesianamente nel discorso dell’Analista: il sapere dell’oggetto implica l’essere del soggetto.

Ma non ci sono variabili nella Fenomenologia di Hegel e neppure nelle Gesammelte Werke di Freud. In entrambe le opere non ricorre neppure il termine Variabel. Senza variabili non si fa matematica moderna e la scienza galileiana non decolla. Anche la psicanalisi resta al palo, irretita nel vitalismo originario, declinato in vari miti: dall’Edipo alla castrazione. In un certo senso la lettera è portatrice di morte. Non si perde mai, ma arriva sempre a destinazione; ti porta la sentenza: un teorema antiquato ma sempre attuale. Il fatto dirimente è che lo statuto della verità cambia: non è più parabolica o narrativa; diventa o ellittica o iperbolica; sta sotto o sopra le righe della scrittura, anch’essa diventata ideografica e algebrica. Per leggerla ci vuole un pizzico di interpretazione, cioè un po’ di fantasia per leggerla tra le righe.
 
Digressione per alcuni psicanalisti

Ho parlato del vitalismo hegeliano in Freud, senza poter dimostrare il canale di trasmissione diretta attraverso cui è passato. Infatti, nella biblioteca di Freud le opere di Hegel non esistevano; c’erano la poetica e la politica di Aristotele, da cui Freud trasse la nozione di catarsi. Probabilmente, come già accennato, il vitalismo freudiano, soprattutto nella versione del finalismo della pulsione di morte, consegue all’aristotelico scire per causas, per cui ogni effetto psichico ha una causa pulsionale, cioè deriva da una forza alla frontiera tra il somatico e lo psichico. C’è in Freud una coazione alla determinazione (Bestimmung), che Hegel classificherebbe come incarnazione dello spirito religioso, dove l’universale passa nel particolare in modo mitico: il tutto determina la verità del singolare. Il punto è che, se il freudismo rimane una religione, benché atea, non progredisce.

Più evidente e documentato è l’hegelismo di Lacan, noto frequentatore dei seminari parigini di Kojève sulla Fenomenologia dello Spirito tra il 1933 e il 1939. Le pagine qui presentate della Fenomenologia ne offrono almeno due prove.

Abbiamo appena letto che “il tempo sarebbe il concetto stesso dell’esistenza”. L’affermazione è ripresa e,e invertita da Lacan in una delle ultime sedute del primo Seminario sugli scritti tecnici di Freud: “Il concetto è il tempo della cosa” (Seduta del 16 giugno 1954), che rovescia il soggetto nel predicato, mantenendo la stessa dialettica.E Lacan precisa in modo affatto hegeliano che si tratta dell’identità nella differenza: “Il concetto è ciò che fa sì che la cosa sia là, pur non essendoci”. È chiaro che sta parlando del transfert analitico, dove non si può battere qualcuno in absentia, come ricordava Freud nel caso dell’Uomo dei Ratti. Il transfert freudiano è concettuale, hegelianamente parlando. Il tema è costante in Lacan: il concetto dell’analisi è che si tratta sempre del tempo, non cronologico ma logico, cioè del tempo di sapere, collettivo prima che individuale.

Il secondo riferimento è più riposto e tardivo. Siamo ai tempi del seminario XVII sull’inverso della psicanalisi, appena superato il Maggio ’68, in cui Lacan propone il suo algoritmo dei cosiddetti quattro discorsi (v. Seduta del 26 novembre 1969). Lacan li chiama discorsi, intendendo che rappresentano quattro forme di legame sociale: del Padrone, dell’Università, dell’Isteria e dello Psicanalista. Essi sono generati dalla permutazione ciclica di quattro termini: due reali e due simbolici ai vertici di un quadrato; essi sono nell’ordine: significante principale (ontologico, S1), significante secondario (epistemico S2), oggetto (a) e soggetto ($). I vertici del quadrato sono etichettati. In senso orario, partendo dal vertice in alto a sinistra abbiano: Agente, Altro, Produzione, Verità. Non entro nei dettagli; sottolineo solo che si tratta di una figura chiasmatica, cara a Lacan sin dai tempi dello schema L e dello schema R. La diagonale principale del quadrato è formata dai vertici Agente/Produzione, la diagonale secondaria dai vertici Altro/Verità. È su questa diagonale che insiste l’hegelismo di Lacan, a patto di intendere l’essere nell’Altro come falso, simmetrico e compresente al vero.

Chissà? Superare l’hegelismo inconscio di Freud non dovrebbe essere difficile. Basterebbe sospendere il principio di ragion sufficiente e al suo posto introdurre un assetto di ricerca probabilistico, magari in versione soggettivistica bayesiana. Ma come si fa a sospendere l’hegelismo di Lacan? La via che propongo è un ritorno a Cartesio, via per altro che anche Lacan stesso ha a lungo battuto lungo tutti i seminari dal quarto al ventiduesimo, ben sapendo che Cartesio è il grande assente dalla Fenomenologia dello Spirito. Cartesio era troppo matematico, frequentatore di quella matematica moderna nota come algebra, ritenuta antiquata dall’idealista. Non c’era spazio per lui in Hegel. Potrà esserci spazio in una psicanalisi rimodernata?

Hegel consente, infine, di incrociare i due autori – Freud e Lacan – una volta di più e proprio sulla sessualità, a prescindere dalla questione matematica.

Freud si chiedeva: Was will das Weib? “Cosa vuole la donna?” Avesse consultato la Fenomenologia dello Spirito,Hegel gli avrebbe risposto con ironia così:

“Proprio perché si instaura distruggendo la beatitudine familiare e dissolvendo l’autocoscienza singolare nell’universale, il collettivo (Gemeinwesen) produce nella femminilità in generale il proprio nemico interno, che lo reprime e al tempo stesso gli è essenziale. La femminilità – questa eterna ironia del collettivo – trasforma con l’intrigo il fine generale del governo in fine privato, l’attività generale nel lavoro di un individuo ben determinato, convertendo la proprietà generale dello Stato in possesso e vanto della famiglia” (ivi, p. 259).

Per un sostenitore dell’unica libido maschile poteva andar bene. La mia ipotesi è che Freud fosse inconsciamente hegeliano: tradusse Aufhebung (superamento) con Verdrängung (rimozione). Chissà che la concezione lacaniana della femminilità come “non tutto” (“Non esiste La donna”) non si inscriva nella stessa linea hegeliana, con la stessa misoginia di Hegel. Se il vero è il tutto (das Wahre ist das Ganze, ivi p. 19), la donna “non tutta” è il falso.



[1] Nelle Sigmund Freud Gesammelte Werke le citazioni di Hegel sono solo due: nell’Interpretazione dei sognic’è una citazione di citazione sull’assenza di connessioni reali nel sogno; nell’ultima Lezione la filosofia di Marx è definita un oscuro precipitato di quella di Hegel.

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