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I BAMBINI HANNO LE ANTENNE: GRUPPI TERAPEUTICI PER MINORI VITTIME DI VIOLENZA ASSISTITA

1 Ott 19

A cura di areaweb

di S. Agosti, A. Vicari, psicologhe e psicoterapeute; Consultorio Familiare Integrato – ASST Santi Paolo e Carlo, Milano

Quando nell’infanzia un minore è esposto a condizioni di violenza intra-familiare ed assiste a violenza verbale e/o fisica di un genitore nei confronti dell’altro, può sviluppare una condizione di sofferenza psicologica che può arrivare fino al disturbo post-traumatico da stress.

Vedere il proprio genitore impotente e spaventato oppure pericoloso e aggressivo è fonte di profonda paura e di distorsioni cognitive. I bambini, in queste condizioni, possono convincersi che sia normale vivere aggressività all’interno delle relazioni affettive e percepiscono il mondo come malsicuro e pericoloso. Complesso è, per loro, il riconoscimento di ciò che è bene e ciò che è male e diventa difficile interiorizzare un comportamento di vicinanza e cura verso l’altro. Spesso si sentono in colpa o attribuiscono a se stessi la responsabilità dei conflitti nel tentativo di preservare l’immagine dei genitori; altre volte si sentono impotenti e possono rimproverarsi di non essere stati in grado di proteggere ed aiutare il genitore vittima dalle aggressioni dell’altro.

L’analisi della letteratura mondiale mette in evidenza come questi bambini presentino livelli più alti di ansia, depressione, sintomi post-traumatici, disturbi del comportamento e disturbi cognitivi rispetto ai gruppi di controllo. (O’Keefe, 1995). Oltre a ciò, a venire danneggiate, sono anche le relazioni genitori-figli: diversamente da quello che si potrebbe immaginare, la ricerca ha recentemente messo in luce come la violenza assistita possa minare non solo la qualità del rapporto tra il figlio ed il genitore aggressivo ma anche quella col genitore vittima (Mullender et al. 2002; Thiara et al, 2006).

Le ricerche condotte nel corso degli anni hanno evidenziato che, per interrompere la catena della violenza intra-familiare, non è sufficiente proteggere le vittime adulte, ma è necessario lavorare con i figli esposti a tali violenze per modificare i loro modelli operativi interiorizzati. Solo un lavoro integrato genitore-vittima e bambino può generare un effetto a lungo termine nella società e contribuire alla costruzione di buone relazioni.

Tra dicembre 2006 e marzo 2007 alcuni ricercatori (.B. Sutton, 2006 in R.K., Thiara) hanno avviato ad Haringey, borgo di Londra, un progetto pilota chiamato: “What about me programme”, che prevedeva un lavoro terapeutico di dodici incontri a cadenza settimanale rivolto ad un gruppo di 6-8 bambini vittime di violenza domestica. Tale esperienza ha messo in evidenza come il gruppo sia stato, per i partecipanti, uno strumento prezioso, avendo aiutato i bambini a parlare della loro esperienza, a far sì che non si sentissero gli unici ad averla vissuta e a trattare il tema della colpa accompagnandoli nel percorso dell’attribuzione delle giuste responsabilità.

E’ partendo da tali evidenze che abbiamo deciso di presentare all’interno di un bando qualità dell’ATS (Agenzia Tutela della Salute) Città Metropolitana di Milano, di cui eravamo dipendenti il progetto: “I bambini hanno le antenne”. Il bando offriva ai dipendenti l’opportunità di proporre progetti innovativi, appropriati ed integrati, che assicurassero agli utenti cure efficaci in diversi ambiti della salute anche al fine di rinnovare ed estendere nuovi e più efficienti modelli di presa in carico. Il nostro progetto rientrava nella categoria tematica: “integrazione tra servizi sanitari, socio-sanitari e sociali per la presa in carico del paziente cronico e fragile a favore della continuità terapeutica ed assistenziale” ed aveva, come obiettivo, quello di ridurre i fattori di rischio ed aumentare quelli di protezione in una popolazione già identificata come fragile, cioè i bambini vittime di violenza assistita e loro famiglie. Tale intervento evidence-based, in un’ottica di prevenzione terziaria, intendeva ridurre i rischi di cronicizzazione del disagio anche al fine di consentire un contenimento dei costi per la salute della popolazione interessata.

La commissione valutatrice era costituita da rappresentanti di diversi enti, sia della sanità pubblica, che dell’università. I progetti sono stati valutati sulla base di diversi indicatori quali: l’effettiva collaborazione tra Enti, la validità e rilevanza del progetto, la sua pertinenza rispetto alla categoria tematica trattata, la predisposizione di criteri ed indicatori per la verifica del raggiungimento degli obiettivi, la trasferibilità all’interno del sistema sanitario lombardo dei risultati previsti dal progetto e la qualità della presentazione. In occasione delle premiazioni avvenute il 13 ottobre 2017 il progetto “i bambini hanno le antenne” è risultato vincitore.

Nei primi mesi del 2018 abbiamo pertanto effettuato una prima sperimentazione di tale progetto, seppur con delle modifiche rispetto alla proposta iniziale, legate al rispetto dei tempi e ad alcune difficoltà organizzative.

La nostra proposta progettuale prevedeva l’attivazione di un gruppo terapeutico rivolto ad un massimo 10 bambini vittime di violenza assistita ed alle loro famiglie inseriti in percorso di tutela minori. I bambini dovevano avere un’età compresa tra 6 e 10 anni, maschi e femmine, con una prevalenza di queste ultime per evitare che i sintomi da iper-attivazione, più dirompenti nei maschi, ostacolassero lo svolgersi delle attività. Il progetto prevedeva quattro azioni principali, che qui di seguito descriveremo brevemente: un gruppo terapeutico rivolto ai bambini, un gruppo psico-educativo con i genitori, un lavoro di rete con gli operatori coinvolti nella gestione delle situazioni segnalate ed una valutazione pre-post dei bambini, finalizzata a valutare i possibili effetti del trattamento.

 

LAVORO DI RETE

Rispetto al lavoro di rete, abbiamo cercato di concretizzare le indicazioni contenute nelle linee guida regionali sulla tutela dei minori (d.g.r. n. 4821/16) che sottolineano l’importanza di coinvolgere le famiglie, non solo al fine di renderle edotte circa i danni che le loro azioni possono aver causato sui figli, ma anche di renderle attrici consapevoli e partecipi nel progetto di cura dei loro figli, compatibilmente con i vincoli imposti dalla cornice giudiziaria e con il prioritario bisogno di garantire un senso di sicurezza e protezione al minore e al partner vittima di violenza. Per rispondere a questo obiettivo abbiamo tenuto in considerazione due esperienze d’eccellenza nell’ambito degli interventi di tutela collaborativi e partecipativi, con cui siamo venute a contatto nel nostro lavoro: il programma P.I.P.P.I. (Programma di Intervento per la Prevenzione dell'Istituzionalizzazione) e l’approccio sottostante alle scale C.A.N.S. (Child and Adolescent Needs and Strenghts). Il Programma P.I.P.P.I. è il risultato di una collaborazione tra Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, il Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare dell’Università di Padova, i servizi sociali e di tutela dei minori, oltre alle scuole e ad altri servizi del privato-sociale; esso persegue la finalità di innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie negligenti al fine di ridurre il rischio di allontanamento dei bambini dal nucleo familiare d’origine. La specificità del programma è quella di co-costuire gli interventi messi in campo dai diversi servizi intorno ai bisogni del bambino “the team around the child”, tenendo in ampia considerazione la prospettiva dei genitori e dei bambini stessi nel costruire l’analisi e la risposta a questi bisogni.

Le scale CANS, invece, nate in Canada ed ideate da John Lions (Lions, 2004), sono state portate in Italia grazie ad un gruppo di ricerca della Neuropsichiatria infantile IRCCS Cà Granda Ospedale Maggiore Policlinico, guidato dalla dott.ssa A. Costantino. Le CANS sono scale che consentono agli operatori coinvolti sul caso ed alla famiglia stessa di fotografare periodicamente l’evoluzione della situazione in relazione al progetto proposto e agli interventi attuati. Gli specialisti da un lato e la famiglia dall’altro, si ritrovano seduti intorno allo stesso tavolo, in un’equipe congiunta, per arrivare alla condivisione di quali siano le priorità dell’intervento e per orientare, di volta in volta, le azioni necessarie a sostenere il processo di cambiamento della famiglia, indagandone i bisogni (needs) ma anche valorizzandone i punti di forza (strenghts).

Nella nostra sperimentazione, pur lavorando nel rispetto dell’approccio collaborativo, non siamo riuscite ad implementare gli incontri congiunti servizi-famiglie a causa del grande investimento organizzativo e di “tempo-lavoro” che, in ambito pubblico, appare estremamente complesso da coniugare con tutti gli altri interventi istituzionali richiesti agli operatori.

 

VALUTAZIONE PRE-POST

Ci è parso importante prevedere una valutazione testale dei bambini, sia prima che dopo la partecipazione ai gruppi, sia per raccogliere elementi sul loro funzionamento psicologico e sul loro mondo interno, che per verificare l’eventuale efficacia del trattamento proposto rispetto alle seguenti aree:

  • riduzione dei sintomi post-traumatici e dissociativi nel bambino (TSCC-A: Trauma Symptom Chechk-list for Children, compilata dai bambini e CDC: Child Dissociative Check-list compilata dal care-giver)
  • aumento dell’autostima del bambino: (TMA test di valutazione multidimensionale dell’autostima, compilato dai bambini);
  • diminuzione dei sentimenti di stigmatizzazione e colpa rilevati attraverso la somministrazione di una scheda sulle cognizioni negative tratte dal libro Tutelandia (Monicchi L, Vicari A.).

Oltre a ciò, ai bambini è stato proposto, al termine dell’intervento, un questionario di gradimento a partire dal quale essi hanno avuto la possibilità di condividere con le scriventi le loro personali riflessioni sull’esperienza., riflessioni che sono state documentate con una videoregistrazione.

 

GRUPPI DI BAMBINI

Il cuore dell’intervento è stato senz’altro quello del lavoro in gruppo con i bambini, caratterizzato da attività ludiche adatte alla loro età. Gli obiettivi terapeutici che ci siamo poste e gli strumenti con cui abbiamo cercato di raggiungerli sono stati i seguenti:

  • abbassare i sentimenti di vergogna, colpa e svalutazione di sé attraverso la psico-educazione sul trauma e l’utilizzo di favole specifiche;
  • accrescere la capacità di riconoscere ed esprimere i propri vissuti, evitando la manifestazione del disagio attraverso il corpo (disturbi psico-somatici) o il comportamento (sintomi) attraverso la lettura di fiabe, la compilazione di schede operative ed altri lavori di gruppo indicati dalla letteratura come efficaci;
  • aumentare le risorse e, di conseguenza, la resilienza di fronte alle fatiche familiari attraverso la procedura dell’“installazione delle risorse” tratta dall’approccio EMDR;
  • elaborare almeno un ricordo traumatico attraverso l’EMDR in gruppo;
  • ridurre i sintomi da iper-attivazione attraverso un lavoro psicomotorio e corporeo finalizzato a ristabilire più adeguati livelli di arousal.

 

GRUPPI DI GENITORI

Nel progetto abbiamo previsto due incontri con i caregiver: uno all’inizio del percorso ed uno alla fine. L’obiettivo del primo è stato quello di aiutare i genitori, attraverso la psico-educazione, a comprendere i danni della violenza assistita sui minori; quello del secondo di illustrare, anche mostrando fotografie e i lavori svolti dai loro figli, quanto accaduto nei gruppi. Non è stato invece possibile implementare una delle azioni che avevamo ipotizzato in fase di progettazione, e cioè quella di facilitare, attraverso la rilettura critica ed accompagnata di quanto portato dal figlio nel gruppo, una presa di contatto, da parte del genitore, con i propri vissuti traumatici al fine di creare un ponte di sintonizzazione emotiva col figlio e renderlo più capace di leggere ed accoglierne il disagio. Tale restituzione, che avrebbe dovuto essere svolta in setting individuale (eventualmente anche con l’utilizzo della tecnica del video-feedback) avrebbe avuto l’obiettivo di accrescere le capacità empatiche del genitore, la mentalizzazione e di aprire canali di comunicazione tra lui ed il figlio sulle vicende traumatiche che hanno condiviso.

 

LA REALIZZAZIONE DEL PROGETTO

Il progetto si è svolto nei mesi di gennaio e febbraio 2018, ha visto la partecipazione di 7 bambini di età compresa tra gli 8 e i 10 anni, di cui sei femmine e un maschio, e dei rispettivi care-giver. Tutti i bambini erano oggetto di un provvedimento dell’autorità giudiziaria; alcuni vivevano in famiglia con uno dei genitori, alcuni in comunità mamma-bambino, altri, infine, in una comunità per soli minori.

I minori sono stati inviati al gruppo da colleghi psicologi del Consultorio Familiare e da assistenti sociali del Comune di Milano, previo consenso delle famiglie. Il gruppo è stato condotto da due psicoterapeute nella sala gruppi di un Consultorio Familiare Integrato allestito appositamente per le sedute con tappetoni morbidi, una tenda dove i bambini potevano rifugiarsi nei momenti di difficoltà, un grosso pupazzo e una palla morbida, un videoproiettore ed una lavagna a fogli mobili. Oltre a ciò, di volta in volta si forniva ai bambini il materiale necessario allo svolgimento dell’attività prevista per quello specifico incontro e si lasciava a loro disposizione acqua, succo di frutta, marshmallow e, alla fine di ogni seduta, un chupa-chupa da portare via con sè. La decisione di mettere a disposizione dei partecipanti confort alimentari si è basata sull’esperienza pluriennale della dottoressa R. Marks, responsabile del centro "Integrate Families" a Huddersfield, struttura di riferimento nazionale inglese per la cura dei bambini con trauma complesso e dissociazione, in virtù dell’effetto di auto-regolazione emozionale che può derivare dalla suzione e dalla masticazione in caso di iper-arousal (Marks, R., 2017). Previo consenso dei genitori sono state scattate anche fotografie e girati filmati con l’obiettivo di rendere più fruibile la restituzione del percorso fatto dai bambini ai care-giver e testimoniare l’esperienza, consentendo di effettuare riflessioni successive.

Prima dell’avvio del gruppo è stato effettuato un confronto con l’inviante per comprendere le caratteristiche di ciascun bambino e valutare se il gruppo rispondesse ai suoi bisogni. Solo a posteriori ci si è resi conto di quanto sia importante che i bambini inseriti nel gruppo siano omogenei per quanto riguarda il percorso di presa in carico. Si è visto infatti che coloro che hanno beneficiato maggiormente dell’esperienza proposta sono stati i bambini seguiti da più tempo e con un progetto di tutela più stabile e definito. Complessivamente l’intervento è consistito in sette sedute terapeutiche di gruppo con i bambini, della durata di circa due ore, a cadenza settimanale in orario scolastico. Nonostante temessimo che tale organizzazione potesse ostacolare la partecipazione dei bambini, di fatto l’adesione al percorso è stata sorprendente. Come anticipato, sono stati inoltre effettuati due incontri di gruppo con i care-giver ed una restituzione finale agli invianti che l’hanno richiesta. Per quanto riguarda le sedute di gruppo con i bambini si è adottata una modalità “ad imbuto”: si è partiti dall’accoglienza e costituzione del gruppo, si è passati ad un intervento psicoeducativo, col quale abbiamo introdotto i temi del trauma e della violenza assistita, successivamente si è lavorato sul rinforzo delle risorse per concludere con l’elaborazione di un ricordo traumatico da loro scelto. L’ultimo incontro è consistito in una seduta di saluto in cui sono stati consegnati ai bambini i propri lavori svolti ed è stato riconosciuto loro il coraggio e l’impegno messo da ciascuno.

All’inizio ed alla fine di ogni incontro abbiamo previsto un piccolo “rituale”; all’arrivo dei bimbi, l’ascolto di una canzone sulle emozioni e, alla fine, l’ascolto della stessa canzone e la consegna del chupa chupa. Durante tutto il percorso, i bambini sono stati accompagnati, oltre che dalle terapeute, anche da un personaggio di fantasia, una marionetta di peluche, il canguro Brownie, protagonista del libro Tutelandia, da cui sono state tratte molte delle schede utilizzate durante le varie attività del percorso. I bambini hanno accolto con allegria il personaggio ed hanno più volte chiesto di poter manovrare a loro volta la marionetta per leggere delle schede o per comunicare qualcosa al gruppo.

 

PRIMO INCONTRO: le presentazioni

Il primo incontro si è aperto con le presentazioni: le terapeute hanno presentato se stesse mostrando delle fotografie che le ritraevano da bambine (anche questo è stato tratto dalla prassi di Reneè Marks); i bambini, invece, si sono presentati a turno rispondendo ad alcune domande esplorative sui loro interessi ed condividendo una caratteristica positiva che riconoscevano in se stessi. Sono state poi definite insieme le regole per poter svolgere bene il percorso e si è esplicitato sin da subito che ciascuno era libero di condividere con il gruppo solo ciò che si sentiva, così come di non partecipare ad alcune attività, se sentite come eccessivamente soverchianti. Si è sottolineata l’importanza dell’ascolto rispettoso dell’altro che consentisse a tutti di sentirsi pienamente accettati e si è richiesto a tutti di rispettare gli oggetti e l’ambiente. Si è definito, infine, che era possibile utilizzare la “tenda del rifugio” solo uno alla volta, per evitare che più bambini vi si nascondessero distraendosi dalle attività proposte.

Sin da subito si è esplicitato a tutti i bambini che, se erano lì, era perché nella loro vita avevano assistito ad episodi di violenza domestica e che pertanto era importante poter parlare di quanto accaduto e farsi aiutare per evitare che restassero nei loro cuori ferite aperte. Sono stati invitati i bambini a dire cosa significasse per loro il titolo del gruppo “I bambini hanno le antenne” e sono state scritte le loro interessanti risposte su una lavagna a fogli mobili.

Terminate le regole, è stato presentato Brownie, il pupazzo di peluche che ha accompagnato il gruppo durante tutto il percorso rappresentando al tempo stesso un alter ego del terapeuta ma anche dei bambini e che ha stimolato, incoraggiandoli, a partecipare alle diverse attività proposte. Ai bambini è stato poi chiesto di realizzare un loro autoritratto che è stato incorniciato ed esposto sul muro. E’ stata poi disegnata insieme una “mascotte” del gruppo inventata da loro. A conclusione dell’incontro, ci si è congedati con la canzone d’apertura e con la consegna di un chupa chupa.

 

SECONDO INCONTRO: conosciamo le nostre emozioni

Il secondo incontro è stato dedicato al riconoscimento delle proprie emozioni: per imparare a stare meglio con i pensieri difficili è importante anzitutto imparare a capire come ci si sente, attribuire il giusto nome all’emozione ed imparare a tradurre i propri vissuti in parole anziché in sintomi e in comportamenti disfunzionali. E’ stata letta la storia “Ci sono giorni che…” (Van Hout M, 2015) che descrive come ci si può sentire nelle varie situazioni della vita ed è stata successivamente fatta un’attivazione con dei cartoncini sulle emozioni, tratte dal libro di Di Pietro e Dacomo (2006), consistente nel chiedere loro di scegliere il cartellino maggiormente rispondente a come si sentivano in quel momento. E’ seguita una discussione in cui ciascuno liberamente poteva parlare delle proprie emozioni. Successivamente i bambini sono stati invitati a pensare a come si erano sentiti quando mamma e papà litigavano, utilizzando anche in questo caso i cartellini delle emozioni. Tale attività ha suscitato interesse e partecipazione e i bambini sono rimasti colpiti nel vedere che quasi tutti avevano provato le stesse emozioni.

Attraverso una scheda tratta da Tutelandia (Monicchi e Vicari, 2005), è stata data ai bambini una definizione chiara ed esplicita di maltrattamento nelle sue diverse forme ed è stato poi chiesto loro di disegnare, o almeno pensare, ad un evento difficile a loro capitato in famiglia esplicitando poi, attraverso la compilazione di un’altra scheda, pensieri, emozioni e sensazioni corporee riferite all’evento.

Ha fatto seguito un altro lavoro psico-educativo in cui è stato spiegato quanto è importante che ciò che si prova venga espresso. E’ stato poi introdotto l’EMDR come uno dei metodi che si può utilizzare per dare sollievo al dolore lasciato dalle brutte esperienze traumatiche. E’ stato infine proposto l’abbraccio della farfalla facendo loro prendere dimestichezza col metodo installando un ricordo piacevole della loro vita.

 

TERZO INCONTRO: parliamo della nostra esperienza

Il terzo incontro si è aperto con la lettura della favola: “Piccolo orso scopre l’aurora” (s., Junakovic, E., Nava, P. Giordo, 2015), un testo specifico sulla storia di un orsetto e della sua mamma vittime di violenza in famiglia che vengono inseriti in una comunità di accoglienza e ritrovano la serenità. I bambini hanno chiesto di poter leggere a turno le varie pagine della storia. In seguito hanno disegnato la parte della favola che li aveva colpiti di più e condiviso riflessioni ed emozioni suscitate dalla lettura. Attraverso un’attivazione in gruppo “un po’ uguale, un po’ diverso” (M. Malacrea, C. Pessina, 2006) i partecipanti hanno individuato cosa li accomunasse e cosa invece li differenziasse dai protagonisti della storia. E’ seguita una parte psico-educativa specifica sulla definizione di violenza assistita ed è stato poi chiesto a ciascun bambino di selezionare, da un blocchetto di cartoncini preparati per l’occasione, le emozioni che aveva provato in quei momenti; sui cartoncini erano stati trascritti i vissuti tipici dei bambini vittima di violenza assistita, tratti dalla letteratura internazionale. Tutti i cartoncini, da loro inseriti in forma anonima in un cestino, sono stati successivamente letti e trascritti su un cartellone visibile a tutti. Ciò che ha molto colpito i bambini è stato il vedere come tutti avessero condiviso più o meno le stesse emozioni e gli stessi pensieri, con particolare riguardo al desiderio sperimentato di poter proteggere il genitore vittima dalle aggressioni dell’altro.

A seguire si è proposto ai bambini un’attività specifica di rilassamento psico-corporeo da poter utilizzare anche a casa nei momenti di tensione. Attraverso una voce narrante i bambini hanno fatto un esercizio sulla respirazione e sul ricordare un momento piacevole vissuto concentrandosi sulle positive sensazioni corporee (E. Snel, 2015, Un piccolo incoraggiamento).

 

QUARTO INCONTRO: non è colpa mia. Il trauma e le sue conseguenze

Il quarto incontro è stato dedicato al concetto di trauma e alla spiegazione di che cosa si intenda per reazioni post-traumatiche. I bambini hanno partecipato attivamente, spiegando che cosa fosse per loro un trauma. Sono state presentate delle schede tratte dal testo Tutelandia che, attraverso il concetto di esternalizzazione teorizzato da M. White (1992), hanno permesso ai bambini di comprendere che non sono loro ad essere “sbagliati”, ma che le brutte esperienze vissute hanno lasciato nella loro mente e nel loro cuore ricordi ed emozioni disturbanti che devono imparare a sconfiggere e gestire al meglio. Nelle schede i brutti ricordi sono raffigurati come “ospiti invadenti” ossia mostriciattoli che assorbono le loro energie positive impedendo un buon funzionamento. Sono però presenti anche dei personaggi positivi, “la squadra puliziotti”, che collabora coi bambini per catturare questi mostri, renderli inoffensivi attraverso la possibilità di raccontare i ricordi che li hanno originati. I bambini hanno poi personalizzato una scatola in cui poter inserire tutti i loro brutti ricordi.

 

QUINTO INCONTRO: installazione delle risorse e posto al sicuro

Questo incontro si è aperto con un esperimento ripreso da una proposta della dott.ssa Candia durante un corso di formazione sulla mindfulness (Bertetti, Candia, 2017): i bambini, sdraiati a pancia in giù sui tappetoni morbidi presenti nella stanza, hanno osservato un vaso pieno d’acqua nel quale, a turno, dovevano mettere una polverina di brillantini di colori diversi che rappresentava i loro pensieri difficili. Dopo avere mescolato la soluzione, hanno riflettuto su cosa accade alla mente quando si è sopraffatti dai pensieri, ossia non si riesce a vedere le cose con chiarezza poiché tutto appare confuso. Successivamente sono state fatte delle riflessioni e delle attività finalizzate ad insegnare ai bambini a rinforzare le loro risorse. E’ stato spiegato loro come nasce una perla con l’obiettivo di far capire che da una brutta esperienza si può uscire migliori. E’ stata poi consegnata una scatola dei ricordi belli che i bambini hanno decorato e personalizzato a piacere. In seguito i bambini sono stati invitati a pensare a un posto al sicuro con l’aiuto di una meditazione guidata da una voce narrante (Snel, 2015), posto al sicuro che è stato poi disegnato, installato con l’abbraccio della farfalla e messo nella scatola dei bei ricordi.

Al termine dell’incontro si è consegnato ai bambini “il diario dei complimenti” per aiutarli a riflettere sugli aspetti positivi che le persone riconoscono in loro.

 

SESTO INCONTRO: l’elaborazione del ricordo più brutto

Questo incontro è stato dedicato interamente alla rielaborazione di un ricordo difficile tramite l’EMDR. Anzitutto si è chiesto ai bambini di completare una scheda dove dovevano indicare una serie di ricordi disturbanti raffigurati come mostri di altezza diversa in base all’intensità del disturbo associato al loro ricordo. Tra questi, i bambini dovevano poi scegliere quello su cui lavorare. E’ stato utilizzato l’EMDR in gruppo (Maslovaric C., 2017) in cui i bambini hanno raffigurato su un foglio A3 diviso in quattro quadranti inizialmente il ricordo target e poi la sua evoluzione dopo i vari set di tapping. Si è osservata una riduzione progressiva del livello di disturbo del ricordo. Al termine di tale fase si è chiesto di disegnare sul retro del foglio un eventuale pensiero positivo emerso durante le elaborazioni; nel caso in cui non fosse emerso potevano disegnare il posto al sicuro. I bambini hanno poi rinchiuso il ricordo negativo nella scatola decorata nel quarto incontro. Al termine, ci si è dedicati ad una attività di rilassamento, sempre tratta dall’esperienza trasmessa da Bertetti e Candia nel loro corso di formazione (Bertetti, 2017), basata sulla focalizzazione del proprio respiro con l’ausilio di un piccolo maialino di peluche da tenere sulla pancia mentre facevano la respirazione addominale da sdraiati. Questo piccolo peluche è stato poi regalato loro alla fine del percorso per favorire l’utilizzo anche a casa, delle strategie di rilassamento apprese durante i gruppi.

 

SETTIMO INCONTRO: cosa abbiamo imparato e cosa ci portiamo via

Durante l’ultimo incontro è stata letta e proiettata con delle slide una storia sul coraggio: “la zuppa del coraggio” (Leffler M.C. 2003) per rinforzarli sull’impegno dimostrato durante il percorso e per restituire loro come fossero riusciti ad affrontare alcune paure e a sistemare alcuni brutti ricordi. I bambini sono stati particolarmente colpiti da questa favola tanto da fare spontaneamente una serie di interessanti considerazioni sul coraggio tra cui, per esempio, l’importanza di chiedere aiuto quando ci si trova in difficoltà.

Successivamente, accompagnati da una musica di sottofondo regale, ciascun bambino, a turno, è stato invitato a salire su un piccolo “podio”, ad indossare il tipico mantello rosso col bordo di ermellino e la corona e, tenendo in mano uno scettro, a recitare una formula magica sulla felicità proiettata sul muro con una slide nella quale si sottolineava l’importanza del pensare: “Io merito di essere felice! Io so che posso contare sugli altri”. Per tutti è stato un momento di gioia ed emozione.

A conclusione del percorso, i bambini sono stati intervistati e filmati su quali fossero stati gli aspetti da loro maggiormente apprezzati ed invitati a compilare un questionario di gradimento, hanno ri-compilato le check-list iniziali e, prima dei saluti, è stata consegnata loro con solennità, dalla marionetta del canguro Brownie, una medaglia al valore, il maialino con cui avevano fatto la meditazione guidata e le scatole contenenti i loro ricordi negativi e positivi.

 

Considerazioni conclusive

Questa prima esperienza ha reso evidente come per i bambini partecipare ad un gruppo sia di per sé terapeutico. Il potersi confrontare con altri che hanno vissuto le stesse esperienze, il comprendere di non essere gli unici ad avere vissuto esperienze così complesse, il creare legami, seppure temporanei, sono stati aspetti che i bambini hanno apprezzato e riconosciuto come motivanti e gratificanti. Il gruppo è sempre stato pensato e voluto come un’esperienza giocosa, a misura di bambino: la musica, le attività, la cura dell’ambiente pensato specificatamente per i bambini, i generi alimentari, tutto ha contribuito a rendere piacevole il lavoro anche quando il focus era complesso e si lavorava su ricordi altamente disturbanti.

Nonostante i tempi ravvicinati in orario scolastico e la difficoltà dei temi trattati la presenza ai gruppi è stata sorprendente: tutti hanno partecipato con costanza ed entusiasmo manifestando tristezza alla fine del percorso. Riteniamo che questo sia un elemento di forza da non sottovalutare se si pensa a quanto sia difficile motivare i bambini e le famiglie ai percorsi psicologici.

Attualmente è in corso un secondo gruppo, la cui composizione è prevalentemente maschile. Le dinamiche in questo caso sono diverse: frequenti sono le reazioni fisiche di iper-arousal che hanno comportato la necessità di interventi contenitivi da parte degli operatori. E’ possibile ipotizzare che, con i maschi, sia necessario mettere in campo interventi che consentano di scaricare maggiormente, in modo sicuro, la loro iper-attivazione attraverso esercizi isometrici o altre azioni di riequilibrio dell’arousal. Questa seconda esperienza fa pensare anche che possa essere utile la presenza di una terza figura che possa di volta in volta affiancare i bambini nei momenti di maggiore difficoltà.

Ciò che è emerso con chiarezza è l’importanza di un’attenta valutazione pre-gruppo che consenta di conoscere bene le situazioni di provenienza dei bambini, il loro funzionamento nonché la tipologia di presa in carico da parte dell’équipe inviante, che deve essere necessariamente operativa. Tale valutazione risulta essere indispensabile per la buona riuscita del gruppo e per garantire ai partecipanti la possibilità di avere uno spazio individuale di rielaborazione nel momento in cui all’interno del gruppo dovessero emergere ricordi o vissuti particolarmente disturbanti. Nel nostro caso, per esempio, una bambina per la quale era attiva solo una presa in carico sociale, ha condiviso con le terapeute e con gli altri bambini ricordi angoscianti e si è chiusa più volte in se stessa richiedendo un’attenzione esclusiva ed è stato poi necessario attivare rapidamente un sostegno psicologico che fino ad allora non sembrava urgente. Appare similmente necessario prestare particolare attenzione alle varie esternazioni e rivelazioni che i bambini potrebbe fare nel contesto di gruppo e che potrebbero diventare elementi importanti nell’ambito del loro progetto di tutela. Alcuni bambini, sentendosi autorizzati a parlare di questi argomenti, hanno infatti condiviso spontaneamente ricordi specifici che, nel contesto valutativo pregresso, non erano emersi.

Oltre all’incontro con gli invianti, appare utile mantenere una valutazione pre-post attraverso la somministrazione di check-list, ma ripensando a strumenti più mirati e sensibili capaci di evidenziare eventuali cambiamenti anche in tempi rapidi. Il confronto pre-post infatti non ha messo in evidenza differenze clinicamente significative, si è osservata invece una variazione interessante per quanto riguarda le cognizioni negative su di Sé: a conclusione del gruppo, più bambini hanno segnalato di sentirsi meno in colpa, di provare meno vergogna, di sentirsi meno soli e di avere capito che si può chiedere aiuto in caso di difficoltà.

Un altro aspetto da sviluppare è, sicuramente, quello dell’intervento con le famiglie. Sarebbe utile ed interessante poterle coinvolgere di più, sia in fase iniziale, che nel corso del gruppo, prevedendo anche lavori integrati genitori e figli per favorire un maggiore scambio nelle comunicazioni e far sentire il bambino autorizzato a parlare con le terapeute del tema della violenza assistita. Un maggiore coinvolgimento del genitore gli permetterebbe di comprendere maggiormente i vissuti del figlio e i danni da lui subiti; questo potrebbe rappresentare anche un motivo di stimolo ad aderire e perseguire, con determinazione e incisività, al percorso di cambiamento.

Infine va posta attenzione al costo economico che tale attività comporta. Durante ogni incontro, infatti, i bambini hanno utilizzato materiale di consumo e ricevuto oggetti da conservare, oltre ai generi alimentari offerti. In queste prime esperienze, trattandosi di progetti pilota, i costi sono stati sostenuti dalle terapeute, ma si ritiene importante che essi, in caso di replica, vengano sostenuti dall’azienda o da altri sponsor.

Complessivamente l’esperienza ci è sembrata positiva, è stato un percorso stimolante che ha visto un’adesione piena delle famiglie e dei bambini. Questo è avvenuto anche nel secondo gruppo effettuato. Crediamo che sia importante replicare questa offerta terapeutica e proseguiremo, pertanto, in questa direzione. Recentemente ci è pervenuta una richiesta per una bambina di quattro anni, oltre a replicare tale gruppo saranno preziose delle riflessioni sulla possibilità di creare un formato ad hoc anche per bambini più piccoli in modo da poter lavorare sul disagio anche in un’età precoce.

 

Bibiliografia

Abrahams, C. (1994), “Hidden Victims: Children and Domestic Violence”, London: NCH Action for Children

Agosti, S., Pessina, C. (2007) “Trattamenti di gruppo per bambini vittime di abuso sessuale”, Ecologia della Mente, 2, 2007, Il Pensiero Scientifico Editore, Roma

Agosti S., Fontana E., Marchese F. (2008) “Minori abusati e abusanti: terapia di gruppo”, Prospettive Sociali e Sanitarie, 17, 10, 2008

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Bertetti, Candia (2017), materiale tratto dal corso di formazione: “Mindfulness per il benessere di adulti e bambini” – II edizione, nov-dic.2017, Centro di Terapia dell’Adolescenza scrl Onlus, Milano

Bracken, B., A., (2003), “Valutazione multidimensionale dell’autostima”, Ed. Erickson

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