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PSICOANALISI: UN LAVORO SPORCO

5 Ott 19

A cura di info_1


Fare l’analista, non è un mestiere dal quale si esce pulito.  
Occupare quel posto di scarto, di silenzio e testimonianza delle vite altrui, non si esaurisce in una serie di colpi di tosse e tagli di seduta. C’è altro. Sotto questa parvenza, patina sotto la quale può celarsi un buon clinico cosi’ come un maldestro imitatore, c’è uno sforzo intellettuale e muscolare che pretende disciplina, dedizione, fatica e perdita.
Quandanche l’analista se ne resti fermo immobile nella sua poltrona, è chiamato a immaginare, rappresentare scene che l’analizzante mette in posa davanti a lui. Quello che è richiesto non è soltanto un atto di immaginazione, ma di visualizzazzione. I personaggi che vengono convocati ina absentia ( padri violenti, madri assenti, vicini stupratori, nonni incestuosi) devono essere pensati come agentii di trauma, il che rende imprescindibile l’opera di raffigurazione. Si tratta di stare al fianco dell’analizzante mentre egli evoca scenari solitamente infernali, periodi bui o cupi.  Quando l'inferno deflagra.
Scene che non sono solo racconti, ma momenti di vita concreti, reali. Chi siede dall’altra parte del lettino, non può non sporcarsi di sangue, di lacrime, non può non essere sfiorato dalle tensioni Internamente, ovvio.
E' il lavoro fatto su se stesso che rende la corazza capace di assorbire la risonanza dei colpi che vanno nelle sue profondità.  
Queste storie piegano, induriscono, colpiscono nelle profondità del cuore.
Se un uomo riesce a camminare senza un turbamento, una piega del viso, un ombra sull’anima dopo aver ascoltato i demoni di tanti uomini e donne,   fa davvero l’analista.
L’analista è un mestiere che si fa con la carne, e per farlo ti 
 devi spogliare di ogni possibile parvenza, ridurti a quel nulla che può sembrare un ridicolo scarto. Me lo ricordo io, il passaggio, dalla figura analitica fatta di  lustrini, a quella bassa, tarchiata che sapeva di mare, terra da giardino e aveva solo delle polo da poche lire. Mi toccò cestinare    ogni mia convinzione, tutto quello che avevo visto, era immagine. Un distorto e compiacente gioco di specchi per passare dei buoni pomeriggi. Null'altro che una ripetizione grottesca e plastica di quella che , nella mente di qualcuno, doveva essere la figura dell'analista. Colpi di tosse lanciati a caso, sottolineature grossolane senza alcun senso, che non fosse esaurire la fila dei questuanti. Quando il mio inferno si presentò, quel baraccone e crollò di colpo. Il secondo analista al quale mi rivolsi non aveva  il bagno vicino allo studio, non portava la cravatta. Non lo vedevo mai, in nessun luogo, ma lo trovavo li, pronto a tessere la tela ad ogni momento di caduta. E ce ne furono tante.

 

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