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“GOMORRA” di Matteo Garrone e “IL DIVO” di Paolo Sorrentino (Italia, 2008)

2 Ott 12

Di Rossella-Valdre

"Ecco perche’ i potenti che si muovono ‘dentro il Palazzo’, e anche coloro che li descrivono — stando anch’essi, logicamente, ‘dentro il Palazzo’ per poterlo fare — si muovono come atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari. In quanto potenti, essi sono gia’ morti, perche’ cio’ che ‘faceva’ la loro potenza — ossia un certo modo di essere del popolo italiano — non c’e’ piu’: il loro vivere e’ dunque un sussultare burattinesco".
(P.P. Pasolini, 1975)

Sebbene stilisticamente molto diversi, dopo aver visto sia "Gomorra" che "Il divo", rispettivamente di Garrone e Sorrentino, ho trovato giusto considerarli insieme, all’interno di una visione unitaria, cosi’ come anche il festival di Cannes di quest’anno li ha meritatamente premiati ed accoppiati. Il cinema italiano torna agli onori del mondo ridiventando capace di leggere la realta’, hanno detto i critici. E’ vero, e forse anche qualcosa di piu’.

"Gomorra" "Il divo" leggono la realta’ italiana – uno in stile piu’ neorealistico, l’altro con i toni del grottesco, come e’ nel gusto di Sorrentino — ma soprattutto parlano del Potere. Di quel Potere che tesse le sue trame nell’insediamento democristiano del Palazzo, come fu per Andreotti, ma anche di quello stesso Potere la cui assenza, la cui colpevole vacanza ha prodotto la nascita di un altro sottopotere, ugualmente devastante e capillare, ovvero la camorra napoletana e casertana di "Gomorra".

Ci risulta agevole, quasi naturale, legare assieme questi due film, finalmente forti e intelligenti, perche’ facilmente troviamo la stessa Italia, il fil rouge del potere di uno Stato miope e corrotto che ha come contraltare l’antistato della mafia e della camorra, tenuti insieme da un perverso ma perfetto bilanciamento.


Delle trame si e’ detto gia’ molto, e non mi ci soffermo estesamente. In "Gomorra" (che resta, a mio avviso, uno dei migliori film italiani degli ultimi anni), la camorra napoletana e casertana e’ narrata attraverso il testo del romanzo di Roberto Saviano con sufficiente fedelta’, ma anche consentendo al regista di leggerlo attraverso la sua poetica asciutta e neorealistica. Vi si intrecciano cinque amare storie di vita, tutte articolate all’interno o ai margini dell’estesissima criminilita’ di quella parte del Paese. Abbiamo cosi’ Don Ciro, "l’esattore", che passa a distribuire denaro alle famiglie degli arrestati del suo clan; l’iniziazione del piccolo Toto’ e di altri ragazzini come lui, che nascono e muoiono dentro quel mondo senza nemmeno conoscerne altri; la smania per le armi e per l’uccidere di Marco e Ciro, che si prerareranno la fossa con le loro mani; Pasquale, il sarto di talento costretto a subire al concorrenza di un’altra mafia di disperati, quella cinese; e il giovane Roberto, bravo ragazzo appena laureato che crede di aver trovato lavoro e scoprira’ invece di ritrovarsi nel traffico dei rifiuti tossici. Un mondo di poche parole e di gesti essenziali, dimenticato dallo Stato e dalla legalita’, in qualche modo fuori dalla Storia sebbene storia esso stesso, governato da sue proprie leggi, regole di iniziazione (i bambini in coda per farsi sparare e provare se hanno "coraggio"), da un suo proprio perverso welfare (Don Ciro), dove nessuno studia e lavora ma tutti campano, fino a che non vengono fatti fuori per avere sgarrato, come Marco e Ciro con la cui morte si chiude il film, qualli che "a noi sparare ci piace da impazzire". Proprio su Marco e Ciro una delle scene piu’ belle del film (non presente nel libro), quando dopo aver rubato le armi di un potente al cui clan non vogliono appartenere, vanno in mutande sulla spiaggia e sparare nell’aria per festeggiare la loro presunta liberta’, manichini dementi e illetterati eccitati dalla morte, l’unica cosa che conoscono. Pur ridotto all’essenzialita’ dell’antropologia che vuole rappresentare, "Gomorra" non e’ dunque un documentario, ma e’ pervaso invece dalla struggente poetica di film come "Accattone" o come quelli dei fratelli Dardenne ("L’enfant", ad esempio), dove l’immagine da sola riesce a raccontare il reale fornendo al tempo stesso una chiave stilistica in lui leggerlo, un poetica delle povere cose e dei destini senza speranza.


Ne "Il divo", invece, l’estroso Paolo Sorrentino utilizza la chiave del grottesco e della caricatura per dipingere la sua fotografia dell’attore per eccellenza della politica italiana dal dopoguerra ad oggi, Giulio Andreotti. Qui il film non aggiunge niente di quello che gia’ conosciamo della vicenda politica, e anche umana, di Andreotti e dei suoi sette governi (!), non vuole approfondire un aspetto piuttosto che un altro, piuttosto gioca a creare, con l’amalgama perfetto delle musiche, un sorta di bunuelesco quadro d’insieme del Palazzo, nel senso dell’ efficacissima definizione pasoliniana del Potere. Scelgo di seguire alcuni scritti di Pasolini dal Corriere della Sera di quegli anni (la fine degli anni ’70 come il periodo, secondo lo stesso Pasolini, in cui maggiori sono stati i danni della Democrazia Cristiana che non ha saputo capire i cambiamenti del Paese), perche’ mi sembra l’intellettuale italiano che piu’ lucidamente ha saputo esaminare (e presagire) i crimini e la fisionomia della nostra classe politica, quegli "atroci, ridicoli, pupazzeschi idoli mortuari" che cosi’ bene tratteggiati popolano questo film.


Il divo Giulio (forse persino eccessivamente ristretto in una postura fissa caricaturale che ne fa davvero un idolo mortuario), si aggira esclusivamente tra le affrescate stanze del Palazzo e l’ombrosa casa coniugale, dove la moglie Livia preferisce stare rispetto al Quirinale, come una sagoma luciferina e insonne, tormentata dalle emicranie, perennemente ricurva su di se’ ("stia dritto Presidente", lo esorta l’amata segretaria). Il film si sofferma sulla parabola finale sia della Democrazia Cristiana nel suo insieme, i cui membri vengono catturati dai giudici, sia sull’andreottismo come anima nera della stessa DC, fino al Processo dell’’87 che lo vedra’ condannato e poi prosciolto. In mezzo, tutto l’incredibile intreccio di stragi e di mafia, l’uccisione di Moro e le morti misteriose di Calvi, Sindona, Pecorelli, Ambrosoli e altri, i suicidi di Tangentopoli e le feste "dentro il Palazzo", santuario del Potere del tutto separato dal Paese reale.


In questa tragica separatezza dal Paese reale — che il film rappresenta in maniera eccellente — sta l’inizio della crisi della Democrazia Cristiana, il germe delle collusioni con la mafia e i poteri ‘altri’, e la colpa piu’ grave di un partito, quello democristiano, che "durante i primi vent’anni ha governato un popolo storicamente incapace di dissentire, esattamente come durante il ventennio fascista o durante l’ottocento borbonico e pontificio". Pasolini immaginava un metaforico Processo (che sarebbe poi avvenuto, ben oltre la sua morte) in cui i "gerarchi DC" avrebbero dovuto essere processati per i crimini commessi all’Italia povera e contadina che avevano ereditato dal dopoguerra e tenuto in ostaggio per trent’anni, ed elencava queste colpe secondo una sorta di "elenco morale" che avrebbe previsto: "indegnita’, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con in petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, uso illecito di enti come il Sid, responsabilita’ delle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno in quanto colpevole incapacita’ di colpirne gli esecutori), distruzione paesaggistica e urbanistica dell’Italia, responsabilita’ della degradazione antropologica degli italiani (responsabilita’, questa, aggravata dalla sua totale inconsapevolezza), responsabilita’ della condizione, come si usa dire, paurosa delle scuole, degli ospedali e di ogni opera pubblica primaria, responsabilita’ dell’abbandono selvaggio delle campagne, responsabiltia’ dell’esplosione ‘selvaggia’ della cultura di massa e dei mass media, responsabilita’ della stupidita’ delittuosa della televisione, responsabilita’ del decadimento della Chiesa, e infine magari anche distribuzione borbonica di cariche pubbliche ad adulatori".

Non avere capito — questa la colpa grave — che era morto un certo potere e se ne stava sosituendo un altro, massificato e tecnologico e con diversi mezzi di produzione, che portava maggiore benessere e beni superflui, ma senza che quel benessere venisse usato per far progredire realmente la nazione e l’istruzione, ma creando invece le fallaci premesse perche quel benessere diventasse solo consumismo fine a se stesso, portando cosi’ a quella ‘mutazione antropologica’ degli italiani a popolo mercificato e alieno alla cultura, che sostituira’ il "vecchio potere con uno nuovo, "un Tecnofascismo (….) in grado di trovare nelle enormi masse di giovani ‘imponderabili’ che vivono senza valori, una potente truppa psicologicamente neonazista".

Il divo Giulio va al processo del film (per la ‘sola’ connivenza con la mafia, e non per tutti i crimini morali immaginati da Pasolini) a fornire le risposte piatte della sua verita’: il Potere ha un effetto collaterale, per salvare il Paese dalla minaccia comunista ha dovuto paradossalmente fare del male, fare dei compromessi. Il Potere secondo Andreotti si autoassolve, dunque, perche’ e’ come condannato ad agire male per fare il bene, non puo’ tollerare la verita’, quella verita’ che uomini come Moro o Dalla Chiesa non smettono di perseguire. Forse l’occhio del regista, pur tratteggiandone una ridicola caricatura, ha una qualche simpatia per l’uomo Andreotti (lo stesso Pasolini gli riconosce che "la sua buonafede cattolica, provenendo dall’infanzia, ha qualcosa di sincero"): lo vediamo tormentato, consapevole dentro di se’ della superiorita’ morale dei "dannati della verita" che pure deve sconfiggere, lo vediamo solo e senza piaceri, legato alle due donne di casa, la moglie e la fedele segretaria, come uniche presenze amorevoli in una vita svuotata dal Palazzo, ne intuiamo le freddezze infantili ("non ho mai potuto baciare mia madre").

Come in "Gomorra", anche qui una scena da ricordare: quando riceve l’avviso di garanzia, lui e moglie di fronte alla televisione, Renato Zero che canta "i migliori anni della nostra vita", loro immobili e silenti, e uno sguardo profondissimo di lei lo scruta, lo esplora, come se infine lo vedesse, lo volesse conoscere internamente, nell’anima.


Perche’ li abbiamo messi insieme, questi due bei film di cui tanto si potrebbe scrivere e parlare? Il Palazzo di Andreotti, coi suoi "pupazzeschi idoli mortuari", e’ separato dalla realta’ del Paese come il quartiere di Gomorra o Casal di Principe, le feste assurde dei Cirino Pomicino non sono poi cosi’ lontane dalle iniziazioni della camorra, mondi a se’, lontani dal mondo vero che pulsa, ghetti esiliati dalla modernita’, dalla cultura e dalla legalita’. Tra le colpe morali dell’elenco pasoliniano di un’intera classe politica e della sua colpevole miopia, c’e’ anche l’aver permesso, l’avere favorito o almeno il non avere combattuto con efficacia quelle premesse di ignoranza e malcostume su cui le varie Gomorra hanno potuto crescere indisturbate.

(i pezzi di Pasolini sono tratti da:"Il Processo" (1975) e "Fuori dal Palazzo" (1975) in: Lettere Luterane; ‘I Nixon italiani ’(1975) in: Scritti Corsari, tutti raccolti in Meridiani, Mondadori, Scritti sulla politica e sulla societa’)

 

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