Il senso di colpa. Note di psicopatologia antropologica.
NOTA INTRODUTTIVA di Sergio Mellina
Chi scrive, che a lungo ha frequentato ed è stato amico, nonché “fratello minore” e seguace del maestro romano, ha trovato questo vecchio testo dattiloscritto di Bruno Callieri, esattamente di trent’anni addietro, intitolato “Il senso di colpa. Note di psicopatologia antropologica”, peraltro già comparso sulla Rivista N.P.S. [01] diretta da Raffaello Vizioli, suo maestro in carriera universitaria alla “corte” romana di Mario Gozzano, succeduto a Ugo Cerletti, negli anni Cinquanta, in Viale dell' Università, 30, alla Clinica delle Malattie Nervose e Mentali.
Il desiderio di riproporlo per i lettori di Pol.It. Psychiatry on line Italia scaturisce da una serie di circostanze che hanno per scopo principale quello di far rivedere la luce, far conoscere e proporre alla lettura dei più giovani Colleghi, i saggi degli iniziatori della corrente di psicopatologia antropofenomenologica italiana. Non solo il successo ottenuto dal testo breve di Danilo Cargnello L’orientamento fenomenologico esistenziale [02], ma il graduale deterioramento del linguaggio, della scrittura, della parola per raccontare i fatti, le vicende personali, le sofferenze psicologiche, i rimandi alla grande letteratura universale che ha formato tutte le persone interessate a studiare e ad illustrare le scienze umane.
Le parole sono un po’ come i colori per il pittore che si appresta a trasferire ciò che vede, che sente, che lo emoziona, sulla tela, la carta, sul piano, che sarà quadro da osservare ed emozionare altri che si soffermeranno a guardare ciò che l’autore ha ritratto e rappresentato come sentire personale.
Oggi pare purtroppo che le parole siano scadute a rumori distratti e frettolosi per prevaricare o peggio, per intimidire, minacciare qualcuno. Talvolta, anzi, sempre più spesso, frequentare i media, anche solo per informarsi, non si sa se sia peggio ascoltare che leggere, o semplicemente vedere. Noi, ancien regime, (parlo per me), che abbiamo questa passione per la psicopatologia antropofenomenologica, così com’è emersa, guizzata leggera, tra le rudi maglie del biologismo positivista, quando riusciamo a rintracciare qualche testo, tra i meno noti, dei nostri classici, Ferdinando Barison (1906-1995), Bruno Callieri (1923-2012), Arnaldo Ballerini (1928-2015), Lorenzo Calvi (1930-2017), Eugenio Borgna, tanto per citare gli iniziatori, che seguirono Cargnello. Noi, di quella forgia molto anche filosofica oltre che poetica, come scrive il nostro gentile maestro di Borgomanero, se riusciamo a soffermarci - su queste parole dei maestri - per pensare, riflettere, gustare l’appropriatezza dei termini, cogliere il senso di quelli successivi che ridefiniscono meglio il concetto, col bulino della parola pensata, precisata, meditata, proprio per farci meglio comprendere... Ecco, noi, siamo alfine sereni e meno inquieti, perchè meno distanti dal mondo dall’alterità aliena. Perchè abbiamo fatto un passo avanti nella comprensione della mente umana, allo studio della quale abbiamo deciso di dedicarci dopo aver scelto, per imperscrutabili motivi, di iscriverci alla Facoltà di medicina, così lontana dal mondo della psiche e tanto prossima a quello del malfunzionamento della cenestesi e dell’esperienza demartiniana della misteriosa destorificazione del negativo.
Questo lavoro, sottotitolato con la modestia che lo ha sempre contraddistinto, Note di psicopatologia antropologica, appartiene alla sua piena maturità. Rileggerlo ad oltre 60 anni di distanza mi provoca un’emozione nostalgica perchè mi rimanda al clima della mia scuola di specializzazione e dei colleghi che la frequentarono ed ebbero successo nella storia della psichiatria, come ad esempio Paolo Perrotti (1925-2005) e Giovanni Jervis (1933-2009), tanto per fare due nomi. Ma è soprattutto scorrendo la bibliografia che mi fa venire in mente come Bruno Callieri si circondasse di giovani specializzandi per parlare, discutere, insegnare, studiare e ... pubblicare. Leggo il nome di Eleonora D’Agostino, la Collega, già indirizzata al pianoterra dell’Istituto, a destra entrando (il Reparto di Gian Carlo Reda), dove si fermavano quelli che avevano scelto la psicologia, la psicopatologia e la psicoanalisi [03]. Rivedo e rammento la personalità di Nora D’agostino (junghiana) moglie di Mario Trevi (1924-2011), psicoterapeuta junghiano stimato da tutti noi [04], madre di Emanuele Trevi, scrittore di successo, e di Elisabetta psicoerapeuta specializzata alla scuola di Nicola Ciani.
Aveva sessantasei anni Bruno, quando lo scrisse ed era in un momento della sua vita di studioso in cui aveva stretto un sodalizio fecondo con un altro grande maestro della corte di Gozzano, quel Luigi Flavio Frighi (1922-2004) un coltissimo ferrarese da Tresigallo che aveva inventato l’Istituto di Igiene Mentale dell’Università di Roma e fondato la giusta alleanza con Luigi di Liegro (1928-1997), il monsignore di Gaeta per l’assistenza alla popolazione immigrata. Università e Vicariato, un binomio perfetto e intelligente per prendersi cura delle povertà e del cosmopolita mondo degli “ultimi”, una popolazione necessitata e dolente approdata a Roma prima e dopo gli anni delle Olimpiadi del 1960, tanto per contestualizzare il passato recente, come del resto aveva sempre fatto, per ben altri motivi, dai tempi degl’imperatori romani, padroni del mondo allora conosciuto.
Questo raccontare psicopatologico, sul “senso di colpa”, di Bruno Callieri, con le severe parole di Kierkegaard e quelle dirette dell’esistenzialismo sulla “responsabilità”, lo rendevano chiaro, vicino, partecipe, cordiale, come diceva Lorenzo Calvi [05]. Ascoltarlo era sempre una lezione, un arricchimento, un insegnamento che si manifestava col valore e la scelta delle parole da lui usate oltre che dall’entusiasmo. Bruno non aveva paura, nè si vergogna delle parole. Erano sempre quelle adatte ad indicare un sentimento, una passione, un dubbio, una situazione, una circostanza data, nei suoi discorsi con amici, nelle sue conferenze, nelle sue koinonie tiburtine [06].
La sua vita operosa e magistrale è durata in tutto ottantanove anni. Lo ricordo benissimo, negli ultimi tempi, quando andavo a trovarlo a Via Nizza 59. Mi diceva «Vedi Sergio, io sto bene ma quello che mi manca è il vigor dei lombi per alzarmi in piedi da seduto, dove sto benissimo. Questa, in radice, mi appare l’essenza della mia vecchiaia». Eppure aveva avuto e descritto nei minimi dettagli, la terribile e angosciosa esperienza di affogamento dell’edema polmonare.
Mi piace ricordare il suo pensiero, la sua figura, il suo “verbo” proprio oggi che la protervia dell’ignoranza, la ferocia dell’egoismo e la pericolosità corriva del pensiero unico e dei “pieni poteri” corrono veloci e inarrestabili sui canali mediatici...
Si vive male ascoltando frasi stereotipe ripetute fino alla nausea “Prima Noi!” “Pentito? E di che? Non mi pento di nulla. Rifarei tutto uguale. Il popolo è con me!” Si vive male incitati ad odiare i diversi, semplicemente perchè nessuno è uguale all’altro. Non è un bel vivere nel costante degrado sociale, sicuramente prodotto da chi ha interesse a pescare nel torbido. Non fa bene a nessuno disertare la scuola. Dà fastidio alle orecchie udire linguaggi volgari, parole insultanti, sentimenti miserabili. Ci si allontana dal genere umano se la pietas è assente, la vergogna non produce rossore, la caritas è derisa, ridotta a “buonismo”. È possibile che a quel punto, la malvagità, la stupidità, la ferocia, l’indifferenza si saldino l’una all’altra per accerchiare l’humanitas.
Meglio lasciare la parola a Bruno Callieri.
Il senso di colpa. Note di psicopatologia antropologica.
Come sostenevo all’8° Congresso internazionale di psicoterapia svoltosi nel 1960 a milano (1), nell’esistenza umana ci sarà sempre un residuo ineliminabile di colpa e di angoscia, e tale residuo spinge verso una vita fondata sui valori; impedendo la formazione di un ideale perfezionistico dell’Io, si potranno forse evitare le secche della nevrosi; la coscienza di sé non sarà molto alta (ecco un profondo significato della humilitas) ma sarà ben più sicura e affidabile per la costruzione della realtà umana.
L’esperienza di questi 25 anni mi consente di poter sostenere la stessa tesi, anche se inserita in un orizzonte antropologico più maturo, temperato da esperienze culturali e sociali che hanno certamente lasciato la loro traccia (2)
In questo rinnovato orizzonte, in cui le mia esperienza psicopatologica è andata evolvendosi verso forme più mature, segnate dalla lezione husserliana (specie da quella contenuta nella “Crisi delle scienze europee” e nelle “Meditazioni cartesiane”), vorrei esporre sinteticamente alcuni aspetti antropologici del sentimento di colpa, di questo fenomeno ubiquitario così ricco di profonde risonanze interiori e a volte sconvolgente.
Spinto al limite e vissuto in modo abnorme (come accade in molte situazioni nevrotiche e psicotiche è in molti disturbi della personalità), il sentimento di colpa può coartare l’agire umano (3) e spingerlo fino alla disperazione (4). La sua tipica e paradigmatica espressione si ha nella esperienza melancolica, in cui il senso di colpa realizza la punta più alta della sofferenza psicologica. Nella coscienza melancolica (vedasi Tellenbach) (5), esso è infatti il dato più immediato, più concreto, più vissuto. Emerso dalle profondità strutturali dell’essere, biologicamente inteso oltre che antropologicamente colto, appare come un sentimento profondo, ineffabile, sconvolgente (6) che interdice l’intersoggettività, soffocando ogni dialogicità dell’esistenza (7).
Sono presenti, in grado diverso, il fondo cenestopatico, il disturbo della tonalità affettiva dell’umore la tristezza vitale, la sensazione di vuoto, il sentimento della mancanza di sentimento, con abulia e inibizione psicomotoria, ma domina sovrano il “dolore morale” (“sentimento spirituale” nel senso di Scheler).
La coscienza melancolica non è sommersa passivamente dal dolore ma si orienta attivamente, pre-razionalmente più che irrazionalmente (8), verso il sentimento di colpa, che appare come un “esistenziale” primario, con funzione di primordiale segnale del rischio del fallimento più totale (9).
Sfuggendo ad ogni motivazione comprensibile, l’esperienza melancolica della colpa satura di sé tutta l’affettività, con un lacerante bisogno di punirsi, di annullarsi, di distruggersi. Questo senso di colpa è indiscutibilmente morboso, anzi può essere una delle punte massime dell’alienazione, e va mantenuto ben distinto dalla nota concezione filosofica heideggeriana (10), cui spesso, erroneamente, si riconduce, e altresì dalla fondamentale visione di Berdiaev (11) che tanto ha influito sulla meditazione filosofica del personalismo contemporaneo.
Certo questi indirizzi filosofici hanno aiutato notevolmente gli psicopatologi (si pensi a Binswanger, a Cargnello, a Zutt, a Tatossian, a Häfner, a Blankenburg) ad intendere gli atteggiamenti fondamentali, le strutture intenzionali della coscienza impegnata verso il mondo (si pensi alla “mondanità”, come categoria esistenziale di Zutt); ed essi ci hanno veramente consentito di vivere e di cogliere il significato generale umano di questi messaggi subiettivi personali, sovente alienati (12), come l’esperienza di fine del mondo o l’intonazione d’animo delirante (la Wahnstimmung), travalicando ampiamente il semplice valore semantico di uno stato morboso.
Ecco aprirsi quindi la via per una comprensione “antropoanalitica” dell’uomo che si sente colpevole; ricordo qui che tra l’aver commesso una azione colpevole e il sentirsi colpevole c’è una differenza abissale: la semplice trasgressione, anche grave, di un codice prestabilito non è omologabile al livello ontologico del senso di colpa, inglobato nella nostra stessa libertà (13). Lo slancio personale, disseccato alle sue sorgenti, non apre più davanti all’Io, come diceva Minkowski (14), le prospettive dell’avvenire; l’attesa (15) è privata del suo oggetto, la speranza non ha più senso; ecco allora inevitabile l’idea della morte (16), come soccorso ultimo, come ultimo rifugio.
Questa esistenza-nella-colpa, specie se suscita risonanza d’angoscia, si centra sull’inibizione radicale di ogni movimento di vita, di motus spei (4), non è più un tendere spontaneo verso l’avvenire, una protensio animi, ma è l’assistere muto e impotente all’avvicinarsi della catastrofe, all’anticipazione ostile e indeterminata della fatalità che preme dal “passato” non più “sorpassato” ma presentificato e incombente.
Nel solco di questa Einstellung, di questa impostazione, si profilano le forme e i modi dell’insicurezza, del rimorso, del pentimento senza fine (17), dell’indegnità, del castigo, del rovellìo interiore, che opprimono e ossessionano e che destrutturano tutta l’esistenza temporale, consegnando il soggetto (ormai oggetto deteriore) ad un’intenzionalità regressiva, impotente (viene qui in mente la sindrome nichilistica, la sindrome di Cotard).
Nella pratica psichiatrica quotidiana questo acme patologico è raro a osservarsi; ben più frequenti sono tutti quegli stati depressivi reattivi, di sfondo, minori, mascherati, spesso frammisti ad elementi astenici, fobici, ossessivi, in cui sovente il senso di colpa è mascherato, fino a rendersi irriconoscibile (17a).
È proprio qui che le interpretazioni psicoanalitiche possono fornire un aiuto prezioso, offrendo prospettive e proposte di grande valore, teorico e pratico (3); ed è qui che spesso si vede molto bene come il senso di colpa venga a generarsi, e a generarsi proprio là dove si delineano le transizioni dall’onnipotenza infantile: sono passaggi complessi, soprattutto il distacco dalla madre, il superamento di quella fusionalità indistinta, superamento spesso incompleto o mal riuscito, che non riesce a trovare e a darsi i confini del proprio Sé, che non riesce a stabilire dei limiti su cui poggiare un’identità di sesso o di genere per acceder alla propria verità individuale: si pensi qui all’esistenza e ai problemi spesso drammatici dei transessuali e dei travestiti (18), si pensi alla vecchia sifilofobia e alle recenti, sconvolgenti e purtroppo numerose esperienze di fobia dell’AIDS, con evidenti sensi di colpa; e si pensi soprattutto all’origine della triplice psicopatogenesi del sentimento di colpa, depressivo, ipocondriaco, persecutorio, con il disgregarsi del mondo dei valori, del mondo del corpo, del mondo dell’Altro, che diviene persecutore introiettato (suicidio), e con l’incombere del pensiero della morte (19). E allora si vedrà bene quanto sia profondo l’incastro tra pensiero psicoanalitico (specie dell’analisi del Sé; Kohut, 20) e pensiero esistenziale, quanto profonda sia la correlazione fra colpa e condizioni esistentive, fra aggressività e senso di colpa, fra dinamica conflittuale e vissuto depressivo, fra tensione sessuale e fuga nella “deiezione” (la heideggeriana Geworfenheit).
Certamente le condizioni nell’attuale esistenza di contro alle filosofie dell’armonia totale, suggeriscono, quasi proclamano, che la realtà, a tutti i livelli è profondamente rotta e frammentata, incrinata da una félure, (una piccola crepa n.d.r) da una irrimediabile frattura. E ancora una volta va data ragione a Kierkegaard quando, in modo per noi paradossale ma terribilmente serio, dice che “imparare a conoscere l’angoscia è un’avventura che ogni uomo deve affrontare se non vuole perdersi sia per non averla mai provata sia per esservisi sommerso” (corsivo nostro n.d.r.).
In nessun altro momento forte del pensiero il rapporto tra angoscia e colpa è stato così inesorabilmente messo a fuoco. E si è potuto ben comprendere perchè si dice che sul piano esistenziale la libertà dell’individuo si realizza nel passaggio dall’ontologico all’etico, nell’assunzione della responsabilità, nel passaggio agli impegni concreti, resi possibili dalla scelta originaria su cui si fondano, rendendo a loro volta possibile la scelta morale. Quindi identità della persona, quindi responsabilità come condizione istitutiva del patto sociale, quindi impegno non di natura ma di cultura, legato ad un Io stabile (21).
Ma d’altro canto ben conosciamo la precarietà e la convenzionalità di questa funzione dell’Io come supporto permanente (basti pensare a Proust); e ben sappiamo quanto sia coinvolta tale funzione dell’Io (la jaspersiana unità e identità dell’Io) nel realizzare situazioni di tipo nevrotico, con un sentimento di colpa spesso infiltrante ma camuffato che costituisce una rimozione, una fuga dall’Io: Igor Caruso ha lucidamente parlato di “falsa localizzazione” della colpa.
E tutto quello che, anche nell’ambito della psicoterapia (e anche nell’ambito della psicoterapia dei disturbi di personalità narcisistici e bordeline), sposta questo sentimento dal campo della responsabilità esistenziale a situazioni psicologiche condizionate (per es. ad esperienze della prima infanzia), rende impossibile l’esperienza individuale della colpa e la tensione di un’azione personale e responsabile, come ben dice l’acuto psichiatra di Heidelberg, Heinz Häfner (22). Quindi anche nella comprensione e nel trattamento dei nevrotici non si può e non si deve prescindere dalle considerazioni derivanti dall’accettazione della colpa etica, dei valori e della loro trasgressione (Janzarik 23), pur tenendo sempre presente che il nevrotico tende suapte natura a un non equilibrato giudizio morale, all’auto-accusa: si pensi alle scrupolosità fobiche (per es. rupofobiche, patofobiche) che tanto si accostano alle forme ossessive, si pensi alla moral-teologica “coscienza scrupolosa” (24).
Particolarmente difficile e delicato è questo “problema della bilancia” tra realtà e responsabilità da un lato, o fantasia e fuga dall’altro, quando si tratta dei sensi di colpa nei comportamenti sessuali abnormi, agiti o anche solo immaginati; qui pur riconoscendo la primaria importanza dell’inquadramento psicologico, spesso è facile cadere in uno psicologismo ad oltranza, che rende ancor più difficile il compito di un aiuto alla maturazione della personalità, il compito del recupero per un’autentica e valida assunzione di responsabilità, sia personale che sociale. È in questo ambito, forse, che il contributo di V. E. Frankl con la sua logoterapia è stato insostituibile ed a tuttora pienamente valido, come ben sottolineato da Bazzi e Fizzotti (25).
Una conseguenza molto attuale della eccessiva rimozione del senso di colpa la troviamo nella emergenza di “modelli-tipo”, accolti facilmente dall’Io, specie nei molto giovani, soprattutto attraverso i mass-media. Qui, come diceva Heidegger, “l’impersonale mantiene una signoria molto tenace”, limitando la possibilità dell’individuo di scegliersi da solo una propria forma di vita e causando danno e sofferenza all’autenticità della persona. Ma tutto ciò non è destinato a durare a lungo: l’esistenza del singolo reclama e riprende i suoi diritti, facendo valere prima o poi, massivamente, il proprio senso di colpa esistenziale, ontologico, recuperato attraverso la sofferenza psichica e il disagio del vivere, che così frequentemente oggi si manifesta anche nei giovanissimi: ecco la rilevanza socio-psichiatrica di questo tema. Gli è che il senso di colpa, scacciato dalla porta della rimozione, rientra dalla finestra dell’angoscia, minacciando la stabilità della stessa figura con la quale l’Io tenta di sottrarsi al carico dell’individualità.
Forse tutto ciò è inevitabile, perchè l’incontro con la colpa, con il suo sentirsi pesante, con il suo gravame, mette in crisi lo sviluppo della personalità (in ogni età, perchè la colpa è propria di ogni età della vita), e tale crisi è necessaria perchè apre una via d’accesso al vero senso o all’orizzonte dei valori dell’individuo, il quale così viene veramente rivelato anche nel suo incontro personale con la colpa.
Certamente, l’esperienza della colpa appare alla coscienza con un’evidenza immediata e fortemente sentita nell’ambito affettivo, donde l’esatta locuzione di sentimento di colpa (Schuldgefühl).
Come ben dice il termine tedesco, Schuld, nella colpa è sempre implicito un debito, un esser-debitore, quindi un dover-pagare-il fio, quindi un’espiazione, anche se la sola espiazione non è in grado di estinguere la colpa, cui inerisce, in tutto il suo ambiguo significato, il termine perdono.
Non raramente - come dicevo prima - per evitare l’angoscia opprimente della colpa, il suo gravame, la si rimuove, la si cancella, la si sposta da un ordine di valori a un altro (meno pesante) oppure la si giustifica in ordine a un livello di valori superiore, per es. “per il bene della causa” (come suona Verbatim il titolo di un noto romanzo sovietico di alcuni anni fa): tanto da poterle far assumere perfino una coloritura positiva. La rimozione della colpa nel collettivo è antico fatto culturale: si pensi al capro espiatorio degli Ebrei, che, caricandosi delle colpe di tutti, ne sgravava ognuno. La rimozione poi diviene più radicale se si sconfessano le premesse stesse della colpa, se se ne nega, con un discorso ontologico, il diritto e il dovere di esistere.
Ciò accadrà sempre, anche se di scarso valore per la rimozione individuale, soggettiva, del senso di disagio indotto, appunto, dal sentimento di colpa, reale o immaginata che sia. Anzi si è anche pensato, anche con Pritchard nel secolo scorso, che la incapacità totale di avvertire la colpa presupponga un difetto di coscienza, dunque la moral insanity: concetto per altro, apportatore di confusione tra bios e logos, tra natura ed etos.
I trabocchetti che pone la “falsa coscienza”, nel senso di Gabel, sono molti e sovente ci cadono anche i più avvertiti (26). Donde l’esigenza di rendersene il più possibile edotti, di imparare ad evitarli e a farli evitare. Qui il lavoro dello psichiatra è davvero interminabile perchè numerose e sempre nuove, spesso culturalmente determinate, sono le forme di alienazione e quelle di camuffamento: ogni società, ogni epoca ha le proprie, e quasi sempre cade nell’inganno: oggi, per es., è la colpa nella sfera del sociale che tende a dominare, marginalizzando la portata della sua dimensione individuale.
C’è però, stabile e ricca di insegnamenti esistenziali inesauribili, la colpa del melancolico, frutto sì, di alienazione, frutto - se si vuole - velenoso o mortale (come fu il frutto adamitico), ma massicciamente presente, pur nella sua morbosità, nelle varie epoche e nei vari orizzonti medici, da Sorano di Efeso a Binswanger, dal temperamento astrologico saturnino ai neurotrasmettitori, con interrogativi che nei secoli hanno variato il loro tono ma non modificato la loro sostanza.
Bibliografia di Bruno Callieri
1. Cfr “Aspetti antropologici-esistenziali del sentimento di colpa”. “Atti dell’8° Congresso Cattolico Internaz. di psicoterapia e psicologia clinica”, pag. 118, Vita e Pensiero, Milano, 1962.
2. Callieri B. Colpa. Voce dell’Enciclop. Medica It., Sansoni 1975.
3. Lewis H. Shame and guilt in neurosis. Internat. Univ. Press, New York, 1971.
4. Callieri B. Frighi L. Aspetti fenomenologici e clinici della speranza. Riv. Sperim. Freniatria. 92, 7, 1968.
5. Tellenbach H. Melancolia. Trad. it., Il Pensiero Scientifico, Roma, 1975.
6. Smith R.W. (ed). Guilt: main and society. Doubleday, New York, 1971.
7. Callieri B., Frighi L. Il concetto di angoscia nell’esistenzialismo e nella psicoanalisi. Riv. Sper. Freniat., 85, 374, 1961.
8. Reboul O. Sentiment. In Encicl. Univ. Franç., Paris 1975.
9. De Negri Maurizio. Fondamenti fenomenologici alla psichiatria maturazionale. Piccin Padova, 1986, p. 114.
10. Heidegger M. Sein und Zeit (ed. it. Longanesi 1970): «L’angoscia induce l’Esser-ci alla fuga nella deiezione: “si getta” nel mondo del “si” dove si sente “spaesato”. In tal modo fugge davanti al sé stesso, avvertendo questa fuga come “colpa”. Quindi angoscia e fuga e spaesamento e “colpa esistenziale”». E sempre Heidegger: «L’Esserci è colpevole per il semplice fatto di esistere... l’esser colpevole non è il risultato di una colpevolezza, ma, al contrario, questa diviene possibile solo sul fondamento di un esser-copevole originario ... (un po’ come per la natura autonoma e primaria del simbolo di Jung, in confronto a Freud) ... l’esser-colpevole è più originario di ogni sapere che lo concerne...».
11. Berdiaev N. Schiavitù e libertà dell’uomo. (O rabstve i svobode celoveka). Ediz di comunità, 1952, cfr. a pag. 63: “Uno dei paradossi della persona è che la coscienza della persona presuppone l’esistenza del peccato e della colpa. La completa insensibilità al peccato, alla colpa, al male è di solito anche insensibilità alla persona, suo dissolvimento nel generale, nel cosmico, nel sociale”. [Un esempio? Adolf Eichmann n.d.r.].
12. Cfr Callieri B. Quando vince l’ombra (in particolare il 4 cap. della II parte) Città Nuova, Roma, 1982.
13. Hesnard A. Psychanalyse du lien interhumain. PUF, Paris, 1957. L’univers morbide de la faute. Idem 1949.
14. Minkowski E. Traité de psychopathologie. Paris, PUF, 1966.
15. Callieri B. Fenomenologia dell’attesa. Ricerche di psicologia, n. 18, 1981 F. Angeli, Milano.
16. Cargnello D. Della morte e del morire in psichiatria. Sist. Nerv. 8,113, 1956.
17. Wick E. Zur Psychologie der reue. Haupt, Berne, 1971.
17a. Haase H.J. Die depressive Erkrankung. Erlangen, Perimed, 1984.
18. Giese H. Psychopathologie der Sexualität. Enke Stuttgart, 1962.
19. Lonetto R., Templer D.J. Death Anxiety. Washington, Hemisphere Publ. Corp., 1986.
20. Kohut H. The analysis of the Self. Intern. Univ. Press, New York, 1971. The restauration of the Self. Ibidem, 1977.
21. Mancina C. La difficile autodeterminazione. Quaderni di Rinascita, maggio 1987.
22. Häfner H. a) Schulderleben und Gewissen. Klett, Stuttgart, 1956. b) Grundlinien einer daseinsanalytischen Gewissenspsychopathologie. Psyche (Heidelberg), 11, 667, 1958.
23. Janzarik W. Die zyklothyme Schuldthematik und das individuelle Wertgefüge. Schweiz. Arc. Neurol. Psychiat., 80, 173,1957.
24. Callieri B., D’Agostino N. Antropologia esistenziale e psicoanalisi di fronte al sentimento di colpa. Arch. Psicol. Neurol. Psich. 23, 7, 1962.
25. Bazzi T., Fizzotti E. Guida alla logoterapia. Città Nuova, Roma, 1986.
26. Baladier C. Culpabilité. Enc. Univ. Paris, 1977.
Note. Di Sergio Mellina
01. Bruno Callieri. Il senso di colpa. Note di psicopatologia antropologica. Neurologia Psichiatria Scienze Umane - N.P.S. - Idelson Napoli - Volume IX - Numero 1 - gennaio – febbraio 1989 pp. 39-47.
02. Pol.It. Psychiatry on line Italia. 17 aprile 2019. Danilo Cargnello. “L’orientamento fenomenologico esistenziale” di un Maestro. Introduzione di Sergio Mellina.
03. Di quelli che “scendevano per la psichiatria” anziché “salire per la neurologia”, come me, allora attratto dalla Clinica delle Malattie Nervose, c’era un gruppetto vivace di candidati alla psicoanalisi, tra i quali rammento Francesco Montanari, un romagnolo di Lugo del 1931, detto “Ceschino”, attratto dal tema delle personalità psicopatiche, Antonino lo Cascio, del 1933, lo junghiano che amava il teatro, Mirella Mattogno, freudiana, futura moglie di Giuseppe Donini, che allora saliva per la neurologia, anche se poi avrebbe retto la cattedra di Psichiatria, insieme a Giovanni Jervis, prima della partenza per la spedizione in Salento con Ernesto de Martino. Come dimenticare poi Mariagrazia Nencini Casini la temeraria collega freudiana che osava applicare la tecnica psicoanalitica agli schizofrenici.
04. Cfr. Eleonora Trevi D'Agostino. Dove sei? II tema dell’interrogare nel dialogo psicoterapeutico. In “Neue Begegnungen mit Martin Buber - Urdistanzierung und In-Beziehung-Treten - Dialogo e Cammino Rileggere Martin Buber“ a cura di Anna Aluffi Pentini, Walter A. Lorenz. (pp. 41-51) Bolzano 28/05/2009 - Atti del Convegno. Si suggerisce anche di Eleonora D’Agostino e Mario Trevi. Psicopatologia e psicoterapia. "ATQUE. Materiali tra Filosofia e Psicoterapia". Numero dedicato alla psicopatologia (Ancora la Psicopatologia?, n. 13, p. 155-178, 1996), consultabile anche in PSYCHOMEDIA Telematic Review - Sezione: MODELLI E RICERCA IN PSICHIATRIA - Area: Psicopatologia
05. Cfr. Lorenzo Calvi. Callieri ou la cordialité de la parole. PM n 5 1990, p. 111 e Comprendre 5/1990.
06. I “martedì” di Callieri alla “Martellona” di Tivoli, il Manicomio della catena “Don Uva” di Bisceglie, convenzionato con l’Amministrazione provinciale di Roma