IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
Un discorso scabroso, anzi scientifico
Catherine Millot. Nel 1974, debuttando come insegnante al Dipartimento di Psicanalisi dell’Università di Vincennes, ebbi l’occasione di porre al dottor Lacan una domanda che riassumerei così: il desiderio di morte va situato dal lato del desiderio di dormire o di svegliarsi? Seduto nel suo ufficio, il dottor Lacan rimase in silenzio. Avevo già rinunciato ad ascoltare la sua risposta quando, dopo mezz’ora, mi rispose in modo abbastanza circostanziato, tanto che fui costretta a prendere appunti il più possibile completi. Ecco la trascrizione dei miei appunti.
Jacques Lacan. Il desiderio di dormire corrisponde a un’azione inibitoria fisiologica. Il sogno è un’inibizione attiva.[1] A questo punto si può pensare che si innesti il simbolico. Il linguaggio si innesta sul corpo per il paradosso biologico di un’istanza che impedisce di interrompere il sonno. Grazie al simbolico, il risveglio totale sarebbe la morte del corpo.[2] Il sonno profondo rende possibile al corpo di durare.
Da ciò che Freud immaginava sulla pulsione di morte consegue che il risveglio distruggerebbe il corpo. Infatti, Freud ne qualificava il senso di al di là, in senso opposto al principio di piacere: l’al di là è un’opposizione.[3]
Quanto alla vita, va al di là di ogni risveglio. La vita è inconcepibile; il corpo non l’afferra affatto; semplicemente la porta. Freud dice che la vita aspira alla morte perché, essendo incarnata, cioè nel corpo, aspirerebbe alla coscienza piena e totale. Si può dire che qui si rivela la parte di sogno anche nel risveglio assoluto, che giustamente sogna il risveglio.
Non ci si sveglia mai [del tutto]: i desideri sostengono i sogni. La morte è un sogno tra gli altri che perpetuano la vita: il sogno di soggiornare nel mitico. La morte si situa dal lato del risveglio. La vita è qualcosa del tutto impossibile, che può sognare il risveglio assoluto. Per esempio, nella religione del nirvana la vita sogna di sfuggire a sé stessa. Ciò non toglie che la vita sia reale e il ritorno sia mitico. Il mitico fa parte dei sogni innestati solo sul linguaggio. Senza linguaggio non si sognerebbe di poter essere morti, che è tanto più contraddittorio quanto più con tali aspirazioni, non solo mitiche ma mistiche, si pensa di raggiungere il reale assoluto, modellato solo su un calcolo.
Si sogna di confondersi con quanto si estrapola dall’abitare il linguaggio. Abitare il linguaggio conforma a un formalismo – giusto a un calcolo; si immagina l’esistenza di un sapere assoluto del reale. In fin dei conti, nel nirvana si annega in un sapere assoluto, di cui non c’è traccia, ma cui si aspira. Si crede di confondersi con un sapere supposto sostenere il mondo – mondo solo sognato da ogni corpo.
Alla fine, innestandosi sulla morte, solo il linguaggio la testimonia. È questo che si rimuove? Difficile dirlo. Si può pensare che tutto il linguaggio sia fatto solo per non pensare alla morte che, in effetti, è la cosa meno pensabile che ci sia. Proprio per questo, concependola come risveglio, dico qualcosa che il mio piccolo nodo SIR[4] implica.
Sarei piuttosto portato a pensare che sesso e morte siano solidali; lo prova sapere che riproducendosi sessualmente i corpi sono soggetti alla morte.
Piuttosto il linguaggio nega la morte rimuovendo il non rapporto sessuale.[5]Il risveglio totale, consistente nell’apprendere il sesso – cosa esclusa – potrebbe tra le altre prendere la forma conseguente al sesso, cioè la morte.
Pensando che la vita aspiri a tornare all’inerzia di particelle immaginate materiali,[6]Freud si sbagliava. Nel corpo la vita sussiste solo per il principio di piacere, che negli esseri parlanti è però sottoposto all’inconscio. In fin dei conti, il linguaggio resta ambiguo: supplisce all’assenza del rapporto sessuale; così maschera la morte, pur potendo esprimerne il profondo desiderio. Ciò non toglie che nell’animale manchino le prove della coscienza della morte in analoghi del linguaggio. Non penso che nell’uomo per via del linguaggio di prove ce ne siano di più; parlando della morte, il linguaggio non dimostra di conoscerla.
È il limite assai riposto cui il linguaggio accede solo grazie al reale del sesso. La morte è risveglio che partecipa ancora del sogno, legato al linguaggio. Certi desideri svegliano perché sono in rapporto al sesso più che alla morte.
Nell’essere parlante i sogni concernono l’ab-sens, il non senso del reale del non rapporto sessuale, che tanto più stimola il desiderio, e giustamente, di conoscere quel non rapporto. Se il desiderio è dell’ordine della mancanza, senza poter dire che lo causa, il linguaggio è a livello dei tentativi prodigati per stabilire quel rapporto; la prodigalità stessa conferma che non si arriverà mai al rapporto. Si può concepire il linguaggio come ciò che prolifera a livello del non rapporto, senza poter dire che esista fuori dal linguaggio.[7]
Per trattare il proprio peculiare vitalismo psichico Freud riattivò a livello sessuale l’antico dispositivo cognitivo delloscire per causas, messo in campo da Ippocrate in Antica Medicina – agente morboso presente = malattia, agente morboso assente = guarigione – e codificato cento anni dopo da Aristotele nella Fisica. Le cause istituiscono il tempo della vita; introducono l’ordinamento lineare del post hoc, ergo propter hoc. Si ignora cosa sia la vita e il tempo di esistere, anche se tutti ne parlano. Poco male, l’ignoranza è l’occasione per convocare qualche misterioso principio esplicativo, come il principio di ragion sufficiente che a ogni effetto assegna la causa specifica – abitudine per Hume,[10] magia per Mauss,[11] superstizione per Wittgenstein.[12]
Nell’apparato psichico freudiano funzionano le cause psichiche – le pulsioni – che producono la soddisfazione sessuale: prima orale, poi anale e infine fallica. Le pulsioni sessuali sono cause efficienti in senso aristotelico; sono Wirkursache. Già negli Studi sull’isteria (1895) Freud stabilì che la pulsione è un wirkender Agent o wirkender Faktor.[13] La pulsione agisce come la causa che muove il mobile, finché non arriva alla propria sede naturale, dove si ferma in quiete.
Già, la quiete dopo la tempesta; dopo l’eccitazione sessuale, estinta nella “piccola morte” dell’orgasmo, l’uomo si addormenta. Nello schematismo eziologico, non solo il moto, ma anche la quiete esige una causa specifica. Galilei stanò la fallacia teleologica prescientifica; essendo un moto a velocità nulla, la quiete non ha cause diverse dal moto,[14] che per altro non esistono nel moto inerziale, di cui la quiete è un caso particolare.
Aristotele escogitò la causa finale, per orientare il moto alla sua meta naturale: il centro della terra, che era anche il centro dell’universo. Freud non la chiamò causa finale – Zweckursache[15] – ma pulsione, non più sessuale ma di morte. Amore e morte, è un vecchio tema, trattato dai poeti e solo tardivamente ripreso dallo “scienziato” in termini di carica e scarica di quanti d’energia. Il Todestrieb smaltirebbe nella ripetizione l’energia introdotta dal trauma sessuale, essendo la sessualità sempre un trauma per il parlante; così il Trieb, la spinta, ripetendo la situazione traumatica, la controlla e avvicina il soggetto al nirvana dell’assenza di desideri. Mitologia o ignoranza? Forse entrambe, all’insegna della resistenza al sapere. Comunque, all’epoca Freud non poteva sapere che la meccanica quantistica vieta ogni forma di ripetizione del tipo fotocopia, clonazione o riedizione del passato.
Di questo garbuglio immaginario si può parlare scientificamente? Si può uscire dal vitalismo, passando al detestato meccanicismo, magari non deterministico, regolato da una topologia di campo – il campo freudiano come lo chiamano i lacaniani – più ricca del semplice contatto tra particelle materiali?[16]
Forse sì e sarebbe augurabile. Tuttavia occorre una premessa, senza la quale il seguito può riuscire incomprensibile, per non dire arbitrario. Purtroppo anche la premessa non è facile da assimilare, specie dal pensiero scolastico. Lo dico in modo schematico: si tratta di passare dal pensiero ontologico all’epistemico. In epoca scientifica essere e sapere si separano; secondo Schopenhauer dopo Cartesio, “padre della filosofia moderna” e “ispiratore della considerazione soggettiva”,[17] essere e sapere si scambiano di posto. Anticamente l’essere precedeva il sapere; lo determinava attraverso un criterio di verità oggettivo: è vero ciò che è, è falso ciò che non è. Dagli Eleati in poi, tutta la filosofia ontologica è costruita per esorcizzare la morte. Si basa ingenuamente sul principio di identità per cui l’essere (la vita) è e il non essere (la morte) non è; logicamente parlando, l’essere è vero, il non essere falso. La certezza metafisica è tautologica.
Oggi il gioco tautologico è finito. L’essere dipende dal sapere; non è nel reale prima delpensiero, ma è dato dalpensiero al reale: cogito ergo sum; il pensiero non riflette l’essere già lì prima di essere pensato, come pretende il realismo ingenuo; lo produce per quanto può e finché può. Il sapere nel reale, di cui parla Lacan, non è un dato oggettivo, ma una premessa soggettiva. L’essere si soggettivizza e in un certo senso si indebolisce, sfuggendo in parte allo stesso soggetto che lo suppone. Parallelamente al decadere dell’essere si fa strada la probabilità sotto forma di contingenza degli enti: l’essere può essere o non essere in un ente; non è più una costante ma una variabile aleatoria; la teoria biologica darwiniana della speciazione, fondata sul binomio variazione-selezione (1859), sarà la sua espressione migliore, cui tuttora si resiste.
Nel 1847 Schopenhauer separò l’essere dal sapere anche nella causalità; distinse nettamente tra “l’esigenza di una ragione cognitiva per fondare il giudizio e di una causa per avviare il processo reale”.[18] Seguendo Kant, collegò le rappresentazioni soggettive alle vicende oggettive. Le sue quattro ragioni trascendentali: fiendi, essendi, cognoscendi e actionis, sono soggettive e simmetriche rispetto alle quattro cause oggettive di Aristotele: la causa finale causa il divenire, la materiale l’essere, la formale il conoscere, l’efficiente l’agire.
Oggi siamo difronte alla versione estesa della conversione dall’essere al sapere, già avviata negli anni Cinquanta del secolo scorso. Chiamala come vuoi: antropocene o knowledge society o globalizzazione,a seconda di dove poni la linea di partenza. Sta producendo nel mondo la terza rivoluzione dopo l’agraria, 10.000 anni fa, e l’industriale, un paio di secoli fa; oggi è la rivoluzione digitale, che opera per dare il sapere alle macchine – di cui l’accademia non si è ancora accorta. È la metamorfosi del capitalismo classico che cambia per non cambiare. Il potere non è più nel capitale che sfrutta il lavoratore, ma nel capitale che sa sfruttare il capitale. Sempre di sfruttamento si tratta; su di esso si basa il capitalismo finanziario, che rinforza la divaricazione capitale-lavoro, con il primo sempre in vantaggio remunerativo sul secondo grazie al sapere tecnologico che lo rifornisce di conoscenze e competenze. L’attuale vantaggio del capitale non è il possesso materiale delle macchine di produzione, come ai tempi di Marx, ma è l’egemonia sul capitale umano attraverso cui padroneggia i meccanismi produttivi, i cosiddetti algoritmi.
Il “sapere nel reale”, di cui parlava Lacan 45 anni fa agli italiani,[19] l’anno stesso in cui rispondeva a Catherine Millot, oggi assume il formato informatico dell’intelligenza artificiale che opera sui big data. Le macchine, in particolare le reti neurali, stanno acquisendo e dominando un sapere di cui però non ci rivelano la formula di struttura. “O brave new world!” [o mirabile mondo nuovo!], esclamava Miranda nell’ultimo atto della Tempesta di Shakespeare. Nel 1932 Aldous Huxley ci scrisse sopra un romanzo fantascientifico, premonitore del futuro controllo mentale del soggetto collettivo sull’individuale all’insegna del motto: “Comunità, Identità, Stabilità”.[20]
La psicanalisi si iscrive a pieno titolo nel capovolgimento epistemico, di cui ho rapsodicamente trattato lo sviluppo. Il genio di Freud lo previde e l’anticipò più di un secolo fa, quando inventò l’inconscio come sapere che non si sa di sapere, un-bewusst, cioè “non saputo”, scritto con il solito trattino da Heidegger nei seminari di Zollikon. Di conseguenza l’essere del desiderio, che dipende dal sapere incompleto, divenne un essere mancante. Giustamente Lacan parlava di manque-à-être simmetrico almanque-à-savoir, in una logica dove vale il teorema che non sapere implica sapere (v. oltre).
Lo dico a scanso di equivoci. Non sto parlando contro la terapia psicanalitica; tanto meno voglio sminuire i meriti di Freud per aver alleviato le sofferenze del popolo dei nevrotici. Anzi, sostengo che la transizione dall’essere al sapere, una volta compiuta, gioverà alla terapia psicanalitica. Dovrebbe essere chiaro, infatti, che l’ontologia condanna l’approccio terapeutico all’inefficacia. Se l’essere è quel che è, non ci sono santi: rimarrà così com’è; resisterà a qualunque sforzo terapeutico di cambiarlo. Anche gli ontologi lo sanno e bypassano l’ostacolo parlando di divenire invece che di essere. È un buon trucco per coniugare essere e tempo, ma non è ancora scientifico.
L’approccio epistemico offrirebbe, invece, maggiori e più sicure prospettive terapeutiche. Infatti, il sapere è modificabile; si modifica passando da uno stato di sapere falso a uno meno falso, cioè meglio saputo, per esempio più probabile. La cura della nevrosi passa per questa rivoluzione intellettuale, prima dell’analizzante, poi dell’analista. Per la psicosi passate più tardi. Per la perversione – troppo ontologica da trattare in modo epistemico – la psicanalisi non dà speranze di cura.
La storia su cui riflettere è chiara. Inventando l’ontologia, Parmenide ci inchiodò alla sua croce. Il calcolo delle probabilità, essendo un costrutto epistemico, fu inventato solo in epoca scientifica da Fermat e Pascal,[21] che l’applicò impropriamente alla famosa scommessa sull’esistenza di Dio. “Che Dio lo perdoni!”, avrebbe sentenziato Einstein, accanito determinista[22] (come Freud) che proibiva a Dio di giocare a dadi.
Il calcolo delle probabilità, assente nell’antichità, è un portato caratteristico della scienza moderna, la cui verità è sempre parziale, ma non per questo falsa. Per Wittgenstein la probabilità generalizza il vero al meno vero.[23] È vero che sul lungo periodo uscirà Testa al lancio di una moneta o che lo spin dell’elettrone risulterà up alla misurazione elettromagnetica nel campo di Stern-Gerlach; tali verità scientifiche sono vere al 50%; sono indeterministiche, ma non per questo sono false. La concezione epistemica del falso, non come antitesi al vero ma come sapere meno ben saputo, risale a Cartesio[24] e a Spinoza,[25] oggi trascurati.
La transizione dall’ontologia all’epistemologia ha un costo. Data la mancanza del referente oggettivamente determinato – è la fine del determinismo –, si perde la verità categorica dell’adeguamento al reale. Oggi la verità si può dire solo a metà, diceva l’ultimo Lacan; per metà resta immaginaria. “Dirla tutta è impossibile, materialmente. Mancano le parole. Per lo stesso impossibile, la verità attiene al reale”.[26] Con un noioso effetto collaterale: mancando il riscontro realistico, sale in cattedra il maestro per dire cosa è vero e cosa è falso. Anche da questo punto di vista la scienza è scabrosa: non ha bisogno di maestri ma di pensatori.
Prima di Lacan, negli anni Trenta del secolo scorso, Kurt Gödel e Alfred Tarski codificarono i teoremi di incompletezza: Gödel della sintassi (esistono enunciati indecidibili né dimostrabili né confutabili); Tarski della semantica (non esiste il predicato Verità che dica di ogni enunciato che è vero se e solo se è vero). Per completezza, tra chi anticipò l’incompletezza andrebbe annoverato anche Luitzen E. Brouwer, che nel 1908 propose la logica intuizionista priva del principio del terzo escluso (per ogni enunciato A, è sempre vero o A o non A) e dei teoremi conseguenti, come la doppia negazione che afferma.[27]
All’analista della logica intuizionista dovrebbe interessare la possibilità di formalizzare il sapere inconscio come possibilità di A o di non A, per esempio in una scommessa. Data questa forma di sapere, si dimostra facilmente che il non sapere implica il sapere; in formule: se non(A vel non A), allora(A vel non A). Propongo di chiamarlo teorema di Cartesio, come prefigurazione del sapere inconscio. Un persuasivo modello di questo teorema è dato dal “nuovo” sofisma di Lacan sul tempo logico (v. avanti nota 34).
L’ampliamento epistemologico fa spazio al falso, per l’idealismo inopinabile, essendo non essere.[28]Con un guadagno: in questo nuovo spazio epistemico potrebbero trovar posto gli assiomi di una psicanalisi meno narrativa e meno ontologica di quella freudiana ma non per questo meno freudiana, forse più scientifica di quella di Freud.[29] In quest’ottica scelgo quattro assiomi: tre freudiani, teorici, e uno lacaniano, pratico.[30]
Il primo e irrinunciabile assioma freudiano suppone l’esistenza dell’inconscio, inteso come sapere che non si sa di sapere. Contro la più moderna epistemologia, sono portato a supporre l’esistenza dell’inconscio una verità inconfutabile, quasi un articolo di fede. Che Dio mi perdoni, con il permesso dei suoi preti. Sottoscrivendo l’inconscio, rivendico il diritto di dirmi a pieno titolo freudiano, pur con molte riserve sulla metapsicologia freudiana delle cause efficienti (sessuali) e finali (mortifere).[31]
I seguenti due assiomi freudiani sono in pratica corollari del primo.
Il secondo assioma suppone la rimozione originaria, die Urverdrängung.[32]La quale non è una rimozione vera e propria, che è sempre secondaria. La vera rimozione rimuove rappresentazione psichiche, salite alla coscienza, che le rifiuta. L’originaria, invece, è formata da rappresentazioni psichiche mai arrivate alla coscienza, quindi mai effettivamente rimosse. L’assioma freudiano è un abbozzo di teorema di incompletezza; quindi è in prospettiva molto moderno ed esula dalla logica aristotelica. Infatti, Freud non seppe formularne la causa, se non una generica fissazione (Fixierung). Tuttavia, Freud non ne fece grande uso, eccetto che nello scritto Analisi finita e infinita (1937), per giustificare l’interminabilità dell’analisi.
Il terzo assioma suppone la Nachträglichkeit: il “ritardo” epistemico. Essendo non saputo, il sapere inconscio non è immediato da acquisire; si sa solo dopo un certo lavoro psicanalitico e sempre parzialmente. L’assioma è clinicamente importante perché conferisce al tempo della cura, intesa come Sorge e non come Heilung, la dimensione di tempo di sapere, cioè il tempo necessario per passare dal falso al meno falso. Nel mio libro omonimo [33] ho sviluppato la nozione di tempo di sapere, derivandola dal saggio di Lacan sul Tempo logico,[34] dove l’autore traccia le modalità di passaggio dall’incertezza alla certezza nei tre tempi logici: vedere, comprendere, concludere. Il punto cruciale è che si tratta di un tempo collettivo: dall’incertezza di tutti a decidere del colore del disco che ciascuno porta dietro alle spalle il singolo deduce con certezza il proprio colore e con lui tutti arrivano in sincronia alla certezza comune, come sapere di morire prima di essere morti. Morale: il collettivo ti guarda alle spalle.
Il quarto assioma va più nel concreto. Il concreto della clinica analitica è l’esperienza del falso. Molti dei fenomeni trattati in psicanalisi sono marchiati dal falso. Falsi sono i ricordi di copertura; falsa (allucinata) è la soddisfazione del desiderio nel sogno; falso (sostitutivo) è il godimento offerto dal sintomo nevrotico, grazie a qualche organo compiacente; falsi sono gli atti mancati, anche se azzeccati; false sono certe interpretazioni dell’analista, anche se più efficaci delle giuste; falso amore è il transfert analitico.
L’assioma lacaniano tratta proprio di quest’ultima ma originaria falsità, epistemica prima che ontologica, matrice di interpretazioni analitiche “sbagliate” ma centrate. Già con le sue sedute brevi Lacan azzerava la dimensione diacronica del transfert, sospendendo la concezione freudiana della riedizione di fatti del passato, che alimenta la pratica delle narrazioni dei casi clinici al fine di confermare la dottrina di scuola.[35] Freud si collocò sempre nell’ambito del principio di ragion sufficiente – per lui un “imperativo bisogno di causalità”[36] – secondo cui il passato determina il presente. Secondo Lacan, invece, il transfert viveva nella “breve” sincronia che unisce la coppia analitica nell’hic et nunc fotografico della seduta.
“Ho fatto un sogno”.
“Alla prossima, mio caro”.
Cosa c’è di strano? Per molti fisici da Leibniz a Mach il tempo non esiste; non è un a priori logico (trascendentale); consegue alla “mutua dipendenza dei fenomeni”.[37] Se, diversamente dagli antichi greci e latini, nei cui vocabolari non ricorreva il lemma “variabile”, sai concepire la variabilità, non hai bisogno della stampella temporale per fare scienza.
Il transfert dell’analizzante introduce nel setting analitico la falsa supposizione che l’analista sappia il suo desiderio inconscio.[38] Non è vero, ma produce (quasi) verità. Intorno a questo particolare falso si coordinano le falsità cliniche sopra elencate. Il lavoro analitico le falsifica, prendendo a modello la falsità del transfert – nel tempo epistemico come qualunque pratica scientifica. La psicanalisi non ha i contenuti di fisica, chimica, sociologia, linguistica e neuroscienze, ma condivide la forma congetturale delle scienze moderne; elabora ipotesi in sostanza false, formulando teorie provvisorie.
Qui si ricollega e si chiarisce un tratto del transfert ben messo in evidenza da Freud: pur necessario alla cura – senza non si cura –, il transfert resiste alla cura. Nella cura l’analizzante non resiste solo a riconoscere l’Edipo e la castrazione, gli shibbolet della psicanalisi secondo Freud. In generale, come tutti, l'analizzante resiste al sapere, anche solo supposto, tanto più quanto più è scientifico, cioè congetturale; resiste in nome di una passione ontologica più forte dell’amore e dell’odio: la volontà di ignoranza individuale e collettiva.[39] In generale non si vuole sapere; qualunque intruglio epistemico, qualunque ideologia, va bene pur di rimanere ignoranti; è lì la base di tanti transfert collettivi negativi verso la scienza in generale e la psicanalisi in particolare; è lì l’origine del transfert individuale ostile verso quel particolare uomo di scienza (suo malgrado!) che è l’analista, addirittura prima che inizi l’analisi.
Il controtransfert dell’analista verso l’analizzante è il frutto simmetrico della stessa passione per l’ignoranza. Ragionando in termini freudiani, se il transfert è resistenza all’analisi, il controtransfert è resistenza contrapposta alla resistenza all’analisi, quindi ostacola due volte il lavoro analitico. Il fenomeno è palese in Freud. Dopo la vicenda Jung-Spielrein Freud non trattò più il tema del controtransfert, che pure aveva sollevato dieci anni prima, obbligando i suoi allievi a tacerne in pubblico. Fu il suo modo di resistere all’analisi. Da allora sviluppò solo la metapsicologia pulsionale, una falsa e soprattutto sterile teoria analitica. Così con la sua stessa vita Freud dimostrava la verità della psicanalisi in modo più convincente che con la sua teoria.
La scabrosità del discorso scientifico è tutta nel non essere dogmatico ma congetturale. I dogmi si accettano con fervore, perché danno certezze; la scienza si avversa con ostinazione, perché genera dubbi su dubbi. L’analisi non sviluppa verità; la “Cosa freudiana” – “Io, sono la Verità che parla”, come le fa dire Lacan – non è alla portata di noi freudiani. L’analisi tratta congetture che sono false come le scientifiche e come tali vanno confutate. L’operazione è elementare e alla portata di tutti; non occorre conoscere il calcolo integrale o far parte del CERN; basta trovare un analista disposto a sostenere la domanda di analisi. La domanda che ci riguarda tutti, analisti e analizzanti, è: “Siamo pronti ad affrontare la nuova scienza freudiana, a prescindere dalle sue credenziali mediche?”
In conclusione, ricordo la tardiva preoccupazione di Freud per l’assassinio terapeutico: “Voglio solo sentirmi al sicuro dall’eventualità che la terapia uccida la scienza”.[40]Invano si cercherà questa citazione nella traduzione ufficiale delle opere di Freud, le OSF. Stessa sorte toccò al titolo del saggio, tradotto Il problema dell’analisi condotta da non medici. La traduzione ufficiale censura il senso dell’operazione freudiana. Come Ippocrate, che negò la natura sacra della malattia – l’epilessia, Freud tentò di passare dalla psicanalisi religiosa alla laica. A differenza di Ippocrate fallì. Scabroso.
Per dire “uccidere” Freud vergò erschlagen,letteralmente “ammazzare”, dimostrando di sapere il detto medicus necator, riferito a chi dà il colpo di grazia un tempo al ferito in battaglia, oggi al fucilato.[41] Da meditare.
Commenti
Magnifica lezione dal Maestro dei Non Maestri !
Lezione di filosofia magistrale, chiarissima, a mio parere inoppugnabile.
Altrettanto si può dire parlando di psicanalisi didattica riguardo Freud e Lacan.
E' un testo da conservare e studiare approfonditamente, nei rimandi e nelle note.
Grazie Maestro dei Non Maestri !
ANTONIO VENTURELLI