Il muro, i muri. «Mi dispiace mamma. Il mio viaggio all'estero non è andato bene. Ti amo così tanto. Sto morendo perché non posso respirare». Sono le parole con le quali questa ragazza vietnamita di 26 anni, Pham Thi Tra My, si congedava dalla madre con l’ultimo sms, mentre soffocava con altri 38 giovani compaesani in un tir nell'Essex alla fine di ottobre. E sono il segno emblematico, credo, di un altro anno tragico che oggi si conclude. Pham è l’amica che dobbiamo prendere per mano e non dobbiamo abbandonare se desideriamo comprendere che cosa è stato questo 2019, che cosa è questo nostro tempo: un tempo d’indifferenza e di ferocia. Un tempo feroce di sacrifici umani: 39 ragazzi che certo saranno partiti sorridenti per il viaggio, l’avventura e si sono visti l’un l’altro soffocare nel semibuio, cercando disperatamente aria, un po’ d’aria, per continuare a vivere. Il sacrificio umano di 39 ragazzi al muro, al confine.
Trent’anni fa cadeva il muro di Berlino, tra lo stupore generale. Si sgretolava con esso, dopo settantadue anni, il più longevo e ampio tentativo di costruzione del socialismo che l’umanità abbia conosciuto. Una storia complessa, sogno e incubo a un tempo. Nata dalla speranza di un mondo migliore, più giusto e più libero nei primi anni dei quali abbiamo scritto in questa rubrica in occasione dell'anniversario dell'Ottobre, e trasformatasi in una immensa caserma, un carcere sterminato. Fatta di uguaglianza nel soddisfacimento dei bisogni umani di base, istruzione, sanità, welfare e piena occupazione per tutti, e di repressione in certe fasi davvero spietata delle libertà. Fatta della liberazione di Auschwitz, e delle purghe staliniane e dei gulag, vittime soprattutto comunisti non allineati col potere come testimonia Solzenicyn nei suoi libri. Quei 72 anni sotto costante assedio erano costati sforzi sovrumani: sopravvivere, affrontare carestie e guerre, tenere testa nella corsa agli armamenti al resto del mondo, conquistare per primi lo spazio, essere comunque anelito di liberazione per quanti nei Paesi capitalisti ed ex coloniali dalle fabbriche, i campi, le miniere, le bidonville, le campagne impoverite guardavano alla possibilità di un destino migliore e più giusto… Quell’essere vissuti sempre sotto assedio non ha aiutato di certo. E, d’alta parte, la sostituzione della dittatura dei soviet, del popolo organizzato nei consigli, con quella del partito è stata una malattia contratta in età infantile che ha divorato ogni possibilità di partecipazione e di libertà e dalla quale l’URSS non ha saputo più guarire. Il tentativo di ripristinare trasparenza e riforme è stato tardivo e precipitoso, una terapia d’urto che ha dato il colpo di grazia al malato la cui agonia peraltro si trascinava ormai da tempo. Il capitalismo ha condotto una guerra senza sosta all’eccezione sovietica, un martellamento costante, aggressivo, determinato durato 72 anni e che, quando dopo una resistenza eroica il nemico ha avuto i primi cedimenti, lo ha azzannato spietatamente alla gola.
Non si sarebbe potuta liquidare la complessità di questa storia in modo più grossolano e spregevole di quanto ha fatto il Parlamento europeo – complici anche esponenti della sinistra italiana – con la risoluzione approvata il 19 settembre, con la quale l’esperienza nazista e sovietica, e in alcuni casi addirittura il nazismo (la dottrina di Hitler, durata il tempo della sua vita) e il comunismo (che comprende un’infinità di diverse storie, teorie, rivoli che individuano le loro radici nella guerra dei contadini nella Germania della Riforma protestante, ma evoca tra i propri antecedenti la lotta dei Gracchi e di Spartaco, per proseguire con la congiura degli eguali di Babeuf e vedere la propria principale sistematizzazione con Marx ed Engels a metà del XIX secolo), sono in più punti equiparati. Non si sarebbe potuto trovare modo più grossolano per offendere i 25-30 milioni di morti dell’Unione Sovietica nella guerra al nazifascismo, dalla battaglia di Stalingrado al momento nel quale, liberata Auschwitz nel proprio passaggio vittorioso, l’Armata rossa riusciva a issare la bandiera rossa sul Reichtag, né le migliaia di partigiani comunisti che hanno animato la Resistenza in tutta Europa. Vae victis! Come se la storia dovesse essere scritta a colpi di maggioranza nei Parlamenti, e non ricostruita dal paziente lavoro degli storici.
Ha scritto Walter Benjamin che bisogna continuamente proteggere la storia dallo sguardo retrospettivo del conformismo sempre pronto a sopraffarla; che la tendenza a immedesimarsi nel vincitore può rischiare di renderci partecipi del corteo trionfale in cui “i dominatori di oggi passano sopra quelli che oggi giacciono a terra”; e che, soprattutto, “anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince”.
Ma gli storici si sono ribellati, e per l’Italia ricordo le parole di Antonio Gibelli, Guido Crainz e quelle di Alessandro Barbero, che in un chiarissimo intervento ha messo in luce le pesanti ambiguità, complicità, titubanze e in definitiva responsabilità proprio dell’Europa liberale(Francia e Gran Bretagna) nell’obbligare Stalin all’abbraccio con Hitler nel patto Molotov-Ribbentrop, per poter rimandare l’invasione e dare all’Unione Sovietica la possibilità di organizzarsi.
Improvvisamente, dunque, in quel 1989 tutto si sgretolava così, dall’oggi al domani, e come un castello di carte precipitava nel caos. Le avvisaglie c’erano tutte: nel 1984 ero stato in Polonia e avevo colto che il distacco tra l’apparato di potere, la sua burocrazia e la sua polizia abbracciati all’URSS da un lato, e la generalità del popolo che guardava a Occidente dall’altro, si era approfondito determinando un solco incolmabile. Involucri vuoti, a questo erano ridotte quelle nazioni e si avvertiva chiaramente di essere sul ciglio del baratro. Il socialismo moriva di troppo poco amore: nessuno amava più la sua vuota retorica, i suoi grigi rituali. La madonna nera, e le altre; o la moda, il lusso, il rock, il punk, la disco e tutti gli altri giochi e illusioni che il capitalismo concedeva nei suoi recinti riscaldavano il cuore molto di più. Nel crollo delle ideologie, che si è tradotto in crollo della speranza, in una resa all’ideologia unica del profitto e del ciascuno per sé, il gigante scopriva di avere i piedi di argilla ed è caduto a terra come le statue dei suoi eroi.
I più, negli apparati politici e militari, hanno valutato a quel punto che la battaglia era persa e hanno soprattutto voluto evitare quello che avrebbe potuto essere un drammatico bagno di sangue. Non sapremo mai se è stata la scelta giusta. Comunque, un ultimo sussulto di pochi c’è stato ed è stato cancellato quando la nuova libertà in salsa occidentale si annunciava bombardando, e la storia glielo ha presto perdonato, il Parlamento. Poi quella che era stata l’Unione sovietica è precipitata indietro di oltre un secolo: il capitalismo selvaggio dell’Ottocento con la disoccupazione dilagante, la fame, lo smantellamento del welfare, la caduta dell’indice di vita media e di tutti gli indicatori economici e sanitari nell’era Eltsin, le ragazze dell’Est trascinate dalla disoccupazione, la fame, il consumismo a popolare i bordelli dell’Ovest; la riscoperta dei nazionalismi come se settant’anni di socialismo fossero svaporati all’improvviso e le sanguinarie guerre fratricide, in qualche caso ancora aperte. L’Occidente si era impegnato che nessuna espansione della NATO avrebbe avuto luogo verso est, ma i liquidatori dell’esperienza sovietica hanno imparato a loro spese come i milioni di apache, navajo, cheyenne massacrati nel secolo precedente, che con le giubbe blu di oggi come di ieri i trattati non valgono. In quel momento, la voce di un poeta, Evtusenko, si levava flebile ma ferma, piena di dignità e di un po’ di nostalgia a dire: “Arrivederci, bandiera rossa!”. Chissà…
Gli USA avevano vinto, il mercato capitalista era di nuovo padrone assoluto del mondo. Vincere è bello, ma comporta anche una tremenda responsabilità: nel momento in cui ritornava ad essere padrone del mondo, il capitalismo aveva la responsabilità di governarlo.
E lì si è palesato, si è reso trasparente, evidente il fatto che il capitalismo è un sistema contro l’uomo. è’ stata persa, in quell’89, un’occasione unica: il mondo capitalista, con i suoi leader politici, economici, militari ne porta tutta intera la responsabilità. Dopo la resa insperata e improvvisa del nemico, non ha avuto più alibi. Il capitalismo si è dimostrato incapace di emendarsi dalla sua natura predatoria, disumana, feroce; di assumersi per una volta nella storia la responsabilità di trasformare il mondo in un mondo che fosse un mondo per l’uomo. Dove anche Pham e i suoi amici potessero viaggiare e continuare a respirare, trovare l’aria di cui avevano vitale bisogno; non chiedevano altro che aria, quei 39 ragazzi, un po’ d’aria per vivere. Annaspavano, come se a bordo di fragili imbarcazioni avessero fatto naufragio nel Mediterraneo (ancora 1.278 secondo l’OIM i morti nel Mediterraneo nel 2019, 743 dei quali nel Mediterraneo centrale), come se li avessero travolti le acque del Rio Bravo.
E così, trent’anni dopo, le poche dolcissime parole di questa ragazza che annaspa in cerca d’aria e che muore sono il gemito di un mondo che soffre: il suo viaggio è andato male come quello dei suoi compagni, come il viaggio di tanti altri, migliaia, che dal Messico al Mediterraneo, al confine di Gaza, a quello turco-siriano hanno cercato nell’andare oltre i nuovi tanti muri che hanno preso il posto di quell’uno caduto, nell’attraversare il confine, la possibilità di vivere un po’ meglio. è andato male quest’anno a tanti di coloro che hanno provato a levare la testa, dalla Palestina e dal Rojava, inermi di fronte alla violenza spietata degli eserciti; a Hong Kong, in Iran, Iraq, Yemen, Egitto, fino a quell’immensa terra depredata che è l’Africa subsahariana nella quale è per i più impossibile stare e dalla quale è così difficile fuggire, all’America Latina dove il capitalismo è ritornato ad assumere il volto feroce del fascismo, i nuovi fascismi che ci riportano al cuore, con le masse ribelli e inermi di nuovo straziate per le strade, i leader indios assassinati perché difendono la loro gente, le loro foreste, la loro e nostra possibilità di respirare, le canzoni che hanno commosso e appassionato l’adolescenza della mia generazione.
Una novità delle lotte negli ultimi anni è la massiccia partecipazione delle donne, che hanno pagato un enorme tributo di sangue: Berta Caraces, leader indigena dell’Honduras; Marielle Franco, leader politica brasiliana; Razan al Najjar, infermiera palestinese; Ayse Deniz, partigiana curda; Evrin Khalaf, intellettuale curda; Albertina Martinez, fotografa cilena; Almaas Elman, militante somala, sono solo alcuni nomi che ricordo. Ciascuna di loro evoca in me un viso, un momento di rabbia. Tante altre, insieme a tanti uomini hanno intrapreso il viaggio, come Pham, la lotta, occupato strade e piazze per rendere migliore la loro situazione e quella del mondo; il viaggio di molti di loro è andato male, come quello di Pham. Altre donne, quelle del collettivo Las thesis di Valparaiso dal martoriato Cile hanno levato alta la voce con una danza-canzone che è riecheggiata nei corpi di miglia di donne in tutte le piazze del mondo: Un violador en mi camino.
Abbiamo visto consumarsi atroci ingiustizie e violenze, anche quest’anno come in quelli precedenti dei quali ho tratto un bilancio in questa rubrica: 2015; 2016; 2017; 2018. In Palestina, Siria, Yemen, nel Mediterraneo e in tanti altri luoghi continuano atroci ingiustizie e violenze che non paiono aver fine.
Non so, se trent’anni dopo il mondo sia peggiore di prima di quel 1989; ma, certo, migliore non è. Decine di nuovi muri sono sorti al posto di quello, molte più persone sono state assassinate nel tentativo di attraversarli, nuovi lager sono stati aperti – alcuni con la complicità dei governi italiani – per mantenere la separazione tra il Nord ricco e il Sud povero del mondo. Se, come scrisse Foucault, ogni società si può giudicare da come organizza il rapporto con l’altro, il diverso… beh, per la nostra è presto fatto. Leggiamo che 26 persone posseggono la stessa ricchezza di altre 3.800.000.000; com’è possibile cianciare di libertà, festeggiare la fine dell’esperienza sovietica e non capire che questo è assurdo? Che così non è possibile che si vada avanti? Che il capitalismo sta massacrando l’umanità e distruggendo il suo pianeta, rendendolo inabitabile alle future generazioni? Perciò, per tutto questo che ho provato qui a riassumere, non credo che in questo trentennale dalla caduta del muro ci sia niente per cui si possa far festa; ricordiamoci di Pham che è morta, ha scritto alla sua mamma, perché non poteva più respirare…
Ricorrenze. Lo scorso 18 dicembre sono stati 120 anni dalla nascita a Zurigo del pittore Antonio Ligabue, ricoverato la prima volta in manicomio in Svizzera a diciotto anni, dopo un’adolescenza travagliata. Dai vent’anni si trasferì a Gualtieri, presso Reggio Emilia e fu ricoverato tre volte al San Lazzaro, nel 1937, 1940 e 1945. Morì a Gualtieri il 27 maggio 1965. E’ davvero incredibile come da una vita devastata da una durissima esperienza della follia, della solitudine e della povertà sia potuta nascere un pittura che va così naturalmente dritta al cuore, e credo che proporre l’immagine di uno dei suoi quadri nella seconda parte di questo articolo sarà il modo migliore di ricordarlo.
Il 31 luglio erano stati cento anni dalla nascita di Primo Levi. La sua riflessione sull’esperienza del lager e gli aspetti psicologici delle relazioni di potere poste in essere quella situazione estrema in Se questo è un uomo, pubblicato la prima volta nel 1947, furono utili a Franco Basaglia per comprendere e rappresentare i meccanismi dell’istituzionalizzazione all’interno del manicomio.
Il primo gennaio Cuba ha festeggiato i sessant’anni della sua Rivoluzione. Resiste, Cuba, orfana di Fidel, stretta nella morsa dell’embargo, soffoca, annaspa anch’essa ma resiste e si rinnova, con le sue contraddizioni ma con la sanità e l’istruzione ostinatamente gratuite per tutti, è una minuscola luce di speranza per il resto dell’America latina, per il mondo. Sono stato due volte a Cuba negli scorsi anni e non mi ha dato la sensazione della Polonia degli anni ’80: lì mi è parso che il popolo, la grande parte del popolo, senta propria la sua rivoluzione, non si faccia illusioni su ciò che gli USA riservano alle loro colonie, sia determinato a resistere al rischio di precipitare agli spaventosi livelli di disuguaglianza di molti dei Paesi vicini.
L’11 gennaio sono stati vent’anni dalla morte di Fabrizio De André: i caruggi di Genova risuonano ancora delle sue parole, parole per l’uomo, parole per gli ultimi tra gli uomini e le donne; lo abbiamo ricordato in quell’occasione.
Il 15 gennaio sono stati cento anni dall’assassinio di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht ad opera delle bande paramilitari della socialdemocrazia tedesca; nata nel 1871 in Polonia da famiglia ebrea, era stata fondatrice e leader con Liebknecht della Lega spartachista in Germania. Mi chiedo, anche se so che non bisognerebbe farlo, se la parabola del socialismo sovietico non avrebbe potuto essere diversa se la sua voce di donna avesse potuto continuare a parlare della libertà – la libertà per tutti, compresi gli oppositori – e della partecipazione nei consigli come ingrediente imprescindibile nella costruzione del socialismo. O se il destino della Germania, e quindi del mondo, non sarebbe stato diverso se il caporale Hitler si fosse visto sbarrata la strada, nella sua ascesa, dalla determinazione di questa donna intelligente e tenace. E' stata pubblicata in Italia quest’anno la lettera diretta a un’amica, la moglie di Liebknecht, mentre lei si trovava nel dicembre del 1917 da tre anni in carcere a Breslavia, divulgata da Karl Kraus: «Ahimé, Sonicka, qui ho provato un dolore molto intenso […]. Qualche tempo fa è arrivato un carro trainato da bufali anziché da cavalli. I soldati che conducono il carro raccontano quanto sia stato difficile catturare questi animali bradi, e ancor più difficile farne bestie da soma, abituati com’erano alla libertà. Furono presi a bastonate in modo spaventoso, finché non valse anche per loro il detto “vae victis” […]. Qualche giorno fa arrivò dunque un carro pieno di sacchi accatastati a una tale altezza che i bufali non riuscivano a varcare la soglia della porta carraia. Il soldato che li accompagnava, un tipo brutale, prese così a batterli con il grosso manico della frusta in modo così violento che la guardiana, indignata, lo investì, chiedendogli se non avesse un po’ di compassione per gli animali. “Neanche per noi uomini c’è compassione”, rispose quello con un sorriso maligno e batté ancora più forte… Gli animali infine si mossero e superarono l’ostacolo, ma uno di loro sanguinava… Sonicka, la pelle del bufalo è famosa per esser dura e resistente, ma quella era lacerata. Durante le operazioni di scarico gli animali se ne stavano esausti, completamente in silenzio, e uno, quello che sanguinava, guardava davanti a sé e aveva nel viso nero, negli occhi scuri e mansueti, un’espressione simile a quella di un bambino che abbia pianto a lungo. Era davvero l’espressione di un bambino che è stato punito duramente e non sa per cosa e perché… gli stavo davanti e l’animale mi guardava, mi scesero le lacrime – ma erano le sue lacrime; per il fratello più amato non si potrebbe fremere più dolorosamente di quanto non fremessi io, inerme davanti a quella dolorosa sofferenza. Quanto erano lontani, quanto erano irraggiungibili e perduti i verdi pascoli, liberi e rigogliosi, della Romania!… E qui, in questa città, ignota e abominevole, la stalla cupa, il fieno nauseante e muffito, frammisto di paglia putrida, gli uomini estranei e terribili… le percosse, il sangue che scorre giù dalla ferita aperta. Oh, mio povero bufalo, mio povero e amato fratello, ce ne stiamo qui entrambi impotenti e torbidi, e siamo tutt’uno nel dolore, nella debolezza, nella nostalgia […]. E tutta questa grandiosa guerra mi passò davanti agli occhi. Scrivetemi presto. Vi abbraccio Sonicka. La vostra Rosa. Sonjusa, carissima, siate nonostante tutto calma e lieta. Così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti – nonostante tutto. Buon Natale!»[i].
E, per inciso, nonostante tutto, auguri anche ai lettori di questa rubrica. In una delle notti precedenti il delitto, in Delitto e castigo Raskolnikov fa un sogno straordinariamente simile al racconto di Rosa: è l’umanità che ancora parla in lui. E così, mi piace ricordare la capacità di sentire la sofferenza e l’ingiustizia e ribellarsi ad esse di questa generosa donna comunista; di lì a un anno, sarebbe stata percossa come quel bufalo, a morte. «Io sono comunista perché soffro nel vedere le persone soffrire» scriveva in una bellissima poesia Nazim Hikmet; Rosa, non solo le persone.
Il 23 settembre sono stati ottant’anni dalla morte di Freud. Basaglia non era un estimatore della psicoanalisi perché la riteneva una tecnica di classe, una soluzione non accessibile ai poveri. Ma di Freud scrisse: «Penso che sia stato uno dei grandi di questo secolo per due ragioni: perché disse agli uomini che c’è qualcosa che non conoscono di sé, cioè l’inconscio, elemento estremamente importante da capire per la vita dell’uomo, e perché è stato l’uomo che ha fatto sentire nella soggettività l’odore, il cattivo odore della borghesia che stava morendo» (Conferenze brasiliane, 1979, p. 200). Non possiamo, ovviamente, riassumere tutto ciò che le sue intuizioni hanno dato alle scienze della mente dell’uomo, tutto ciò che ci hanno insegnato sulle relazioni tra gli uomini e la cura, ma lo ricordiamo con queste poche parole con le quali rievoca una conversazione sulla Caducità tenuta l’anno precedente la guerra mentre, in compagnia di un poeta e un amico, percorreva un sentiero di montagna. L’abbiamo scelta perché l’anno in cui scrive è lo stesso della lettera di Rosa, la guerra dei nazionalismi insanguina l’Europa, i sentimenti evocati forse si somigliano: “così è la vita, e così bisogna prenderla, con coraggio, impavidi e sorridenti – nonostante tutto”: «Il valore della caducità è un valore di rarità nel tempo. La limitazione della possibilità di godimento aumenta il suo pregio. Era incomprensibile, dissi, che il pensiero della caducità del bello dovesse turbare la nostra gioia al riguardo. Quanto alla bellezza della natura, essa ritorna, dopo la distruzione dell'inverno, nell'anno nuovo, e questo ritorno, in rapporto alla durata della nostra vita, lo si può dire un ritorno eterno. Nel corso della nostra esistenza, vediamo svanire per sempre la bellezza del corpo e del volto umano, ma questa breve durata aggiunge a tali attrattive un nuovo incanto. Se un fiore fiorisce una sola notte, non perciò la sua fioritura ci appare meno splendida. E così pure non riuscivo a vedere come la bellezza e la perfezione dell'opera d'arte o della creazione intellettuale dovessero essere svilite dalla loro limitazione temporale. Potrà venire un tempo in cui i quadri e le statue che oggi ammiriamo saranno caduti in pezzi, o una razza umana dopo di noi che non comprenderà più le opere dei nostri poeti e dei nostri pensatori, o addirittura un'epoca geologica in cui ogni forma di vita sulla terra sarà scomparsa: il valore di tutta questa bellezza e perfezione è determinato soltanto dal suo significato per la nostra sensibilità viva, non ha bisogno di sopravviverle, e per questo è indipendente dalla durata temporale assoluta». Poi, riconosce onestamente, arrendendosi per un momento all’enigma del lutto: «Mi pareva che queste considerazioni fossero incontestabili, ma mi accorsi che non avevo fatto alcuna impressione né sul poeta né sull'amico».
Ancora, quest’anno sono anche dieci anni dalla scomparsa di Alda Merini, la poetessa dei navigli milanesi che trascorse parte della sua vita in manicomio. La ricordiamo con i versi di una sua poesia pubblicata nel 1984 nella raccolta La terra santa, che fissa un’istantanea di vita manicomiale (e Beppe Tibaldi si è chiesto di recente se non potrebbe essere anche l’istantanea di alcune delle nostre strutture): «Viene il mattino azzurro / nel nostro padiglione: / sulle panche di sole / e di crudissimo legno / siedono gli ammalati, / non hanno nulla da dire, / odorano anch’essi di legno, / non hanno ossa né vita, / stan lì con le mani / inchiodate nel grembo / a guardare fissi la terra». E sono 50 anni dalla pubblicazione presso Einaudi del volume Morire di classe, una delle più dure denunce nelle sue immagini – così somiglianti al quadro evocato da Merini – e nei suoi testi dello scandalo dei manicomi che portò alla loro chiusura. I testi sono di Franco e Franca Ongaro Basaglia con citazioni tra gli altri da Brecht, Primo Levi, Le Guillant e Bonafé, Pirandello, Foucault, Rilke, Horkheimer e Adorno, Goffman, Fanon, le immagini dagli Ospedali Psichiatrici di Gorizia, Firenze e Parma dei fotografi Gianni Berengo Gardin e Carla Cerati. Sono trascorsi 40 anni invece dalle Conferenze brasiliane di Franco Basaglia[ii], delle quali questa rivista si è già occupata con Giuseppina Abbate il 9 luglio 2018. Si tratta di sei conferenze tenute a San Paolo, quattro a Rio de Janeiro, una a Balho Horizonte – tutte queste nel giugno-luglio – e tre a Belo Horizonte nel novembre, del 1979: quindi quattordici in tutto. è un testo che merita senz’altro di essere conosciuto e approfondito; in quest’occasione mi limito a citare dalla postfazione ciò che scrivono tre degli interlocutori brasiliani di Basaglia: «è impossibile tradurre l’intensità vissuta in quei giorni. Nelle aule strapiene, Basaglia impressionava per la potenza della sua pratica, per la sua vitalità, la vivacità del suo pensiero non codificato, la capacità di ascoltare e di discutere, la disponibilità a recarsi nei luoghi più lontani. La fase politica che si attraversava allora si esprimeva nella forte voglia dei partecipanti di essere attori dei processi di trasformazione, nell’effervescenza delle idee, nell’esplicazione del desiderio e dell’impegno verso una giustizia sociale» (p. 135).
Nel video, la cantautrice cilena Camila Moreno arringa la folla durante le manifestazioni di Santiago.
L’articolo prosegue con la seconda parte: “Ci hanno lasciato: Nardini, Ossicini, Starobinski, Heller, Misculin, Bodei. Servizi: la conferenza di Roma”.
[i] R. Luxemburg, Un po’ di compassione, con testi di Kraus, Kafka, Canetti, Roth (a cura di Marco Rispoli), Torino, Adelphi, 2019.
[ii] F. Basaglia, Conferenze brasiliane (a cura di F. Ongaro Basaglia e M.G. Giannichedda), Milano, Cortina, 2000.
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