IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
L’oggetto del desiderio non è oggettivo
Dell’oggetto del desiderio, in particolare della voce, Baas afferma che non è oggettivabile.[1]Tocca così un punto critico della teoria psicanalitica. Creando la metapsicologia pulsionale, Freud non riconobbe l’oggetto voce, come se non esistesse. Declamando il ritorno a Freud, Lacan dichiarò l’oggetto del desiderio “perso dall’origine”.[2] Che dire di meno filosofico? Per la voce proporrò un modello insolito in psicanalisi: l’infinito, oggetto non oggettivabile, perso dalla filosofia sin dai primi tempi.
In negativo, l’oggetto del desiderio, che Lacan scrive “oggetto a” come variabile algebrica, essendo infinito, non si concettualizza all’interno di qualche ontologia; è meta-ontologico, al di là (o al di qua) dell’essere e del non essere. Aristotele non trattava l’infinito in atto ma in potenza; essendo senza limiti (apeiron), l’infinito non era determinato (dall’esterno), quindi non esisteva, cioè non aveva una propria ontologia. Ma anche la negazione era debole, essendo basata sull’impossibilità dell’affermazione. Corollario: per far posto all’infinito e al desiderio pare opportuno indebolire l’ontologia e rinforzare l’epistemologia, ammettendo come sapere anche ciò che non si sa di sapere. L’infinito e l’inconscio sono due pilastri del ponte tra ontologia ed epistemologia.
In positivo, l’oggetto del desiderio è lo stesso infinito che l’uomo di scienza affronta in laboratorio con il proprio sapere, o meglio con la propria ignoranza. Il setting freudiano – sostengo – è un particolare laboratorio scientifico; vi si testano congetture sull’origine del desiderio e dei sintomi nevrotici esattamente come in fisica si tratta la gravitazione o in biologia l’origine delle specie, ovviamente con strumenti diversi, ma con lo stesso approccio epistemico. Che l’approccio scientifico alla psicanalisi possa avere effetti terapeutici è per ora argomento fuori discussione.
Lacan introdusse l’oggetto a nel seminario sull’angoscia (1962-63) in riferimento alla voce. Molto probabilmente non fu casuale. Lacan era psichiatra. Per lo psichiatra angoscia e allucinazione sono percezioni senza oggetto. Lacan lo corresse; grazie alla sua formazione fenomenologica, intuì un oggetto precedente ogni oggetto empirico, che causa sia il desiderio sia l’angoscia.
Il filosofo parla di vuoto ontologico precedente ogni vuoto ontico, luce prima di ogni luce che inaugura la visibilità; così il silenzio – forma originaria dell’oggetto vocale – apre il campo verbale. È una forma di Lichtung che dà spazio all’esserci linguistico dell’essere. È un appello muto al soggetto proveniente dallo spazio ambiente. Ma quale spazio?
Oggi i fisici dubitano della natura metrica dello spazio empirico, della res extensa, definita da coordinate cartesiane; non è scontato che lo spazio che abitiamo sia il contenitore universale dei fenomeni fisici, dove sia sempre possibile individuare posizioni e isolare regioni, misurando le distanze con un regolo, unico per Newton, variabile per Einstein. Anche in fisica come in psicologia fa capolino una topologia non locale. Per Einstein la non località fu un fenomeno “inquietante” (spooky), per Freud unheimlich, potendo in luoghi diversi far sbucare dei sosia, “doppi viandanti” (Doppelgänger). Einstein si riferiva all’entanglement (intreccio, Verflechtung) quantistico: l’interazione istantanea, quasi magica, di due particelle a qualunque distanza siano, come se una fosse il sosia dell’altra. Due particelle correlate mostrano immediatamente all’osservazione lo stesso stato quantico (o il simmetrico) come se fossero a distanza zero, pur agli estremi dell’universo. Il fenomeno è di tipo identificatorio; genera topologie pseudo-metriche, dove enti diversi occupano lo stesso punto dello spazio;[3] sono il correlato di enti uguali in punti diversi dello spazio metrico. “Ci sono più cose tra res cogitans e res extensa di quante non ne sogni la tua filosofia, Orazio”, direbbe Amleto oggi.
Il mio argomento prevede che l’infinito si frammenti nei diversi oggetti finiti, senza manifestarsi mai come tale. La voce è quell’infinito “che risuona in un vuoto che è il vuoto dell’Altro come tale”. Per Lacan tale vuoto è “l’ex nihilo, parlando propriamente”, cioè filosoficamente.[4] L’angoscia segnala in modo inequivocabile la presenza di un oggetto non localizzabile, quindi non concettuale. “L’angoscia è un affetto che non inganna”; è una forma oggettiva di soggettività, anche se il soggetto non sa dare le coordinate di ciò che l’angoscia: l’oggetto angosciante riempie tutto l’universo, come una particella quantistica, la cui onda si estende a tutto l’universo. Perciò quel vuoto dà l’opprimente sensazione di troppo pieno, difficile da spiegare in filosofia. Il riferimento filosofico di Lacan, come già di Freud, fu aristotelico. Il vuoto dell’Altro, il nulla, di cui parla Lacan, immerso nell’aria fenomenologica parigina, è l’infinito potenziale di Aristotele. Dietro la maschera del nulla il filosofo svicola dall’infinito, un oggetto concettualmente intrattabile. E lo psicanalista?
Con l’infinito lo psicanalista non è più a suo agio del filosofo. Tuttavia Lacan trovò l’escamotage per trattarlo: l’infinito è un resto. In analisi matematica si parla del resto Rn della somma di una serie infinita di termini, meno i primi n. Non è una cattiva metafora. Si pensi all’infinito avanzamento parallelo di Achille e la tartaruga. Metaforicamente parlando, l’infinito non è un tutto ma resta confinato nel resto del cammino da compiere. Non liquet, ma è qualcosa. Sullo sfondo c’è il teorema (non euclideo) della parte equivalente al tutto:[5] gli interi maggiori di un milione non sono di meno dei maggiori di zero, pur essendo un loro sottoinsieme.
La favola dell’albergo infinito di Hilbert racconta bene la situazione. L’albergo è completo; arriva un nuovo ospite; come ospitarlo? Semplice: si sposta il primo ospite nella seconda stanza, il secondo nella terza e così via. Alla fine del trasloco infinito si libera la prima stanza. L’infinito non è completo. Nel caso analitico, il resto della voce è il residuo che resta da dire e non si dice ma si dirà. Si priva così la voce di ogni riferimento fisico: frequenza acustica o risonanza. La voce è il resto del non detto. “La voce non è in rapporto alla musica ma alla parola”[6] non detta.
Interno/esterno
“L’esterno è espressione dell’interno”.[7] Hegel non conosceva la topologia dei suoi tempi, ma ci arrivò vicino. Ignorava che il topologo non distingue tra punti interni ed esterni; per lui sono entrambi interni all’insieme cui appartengono, circondati da intorni di punti ancora appartenenti o all’insieme dato – gli interni – o al suo complementare – gli esterni. Nella Fenomenologia dello Spirito la ragione hegeliana guadagna certezza e verità nell’equivalenza tra dentro e fuori: sai la verità dei fenomeni là fuori perché sei certo dei loro riflessi qui dentro. L’ontologia si accontenta di poco: le basta lo stadio dello specchio, dove il soggetto (interno) si riconosce come oggetto del desiderio dell’altro (esterno).
C’è un’eco hegeliana nella distinzione lacaniana tra oggetto e Cosa, il primo rappresentazione psichica interna e la seconda configurazione esterna (reale), a patto di precisarla: l’oggetto interno è una rappresentazione della Cosa, a cui l’Io si approssima sublimando, se riesce. L’approssimazione è un fatto topologico. Una successione di punti si avvicina a piacere a un limite, senza toccarlo, se in ogni intorno del limite (per quanto piccolo) cadono tuttii punti della successione, eccetto un numero finito (eventualmente grande). Così la successione degli inversi degli interi si approssima a zero al crescere degli interi. Facciamo finta di fare matematica, allora. È facile; basta fare 1+1. Non ci vuole molta intelligenza; basta pazienza e tenacia.
Neppure Freud sapeva di topologia. Ingenuamente (ontologicamente) distingueva tra realtà psichica interna (Realität) ed effettuale esterna (Wirklichkeit). Tra le due realtà interpose rapporti di proiezione e introiezione. Per esempio, la negazione proietta all’esterno, espelle (Ausstossung) dalla coscienza verso fuori, cioè nell’inconscio, contenuti psichici repellenti; il fatto costituirebbe l’essenza della rimozione. Invece l’introiezione sarebbe all’origine dell’identificazione, che porta un tratto paterno all’interno del Super-Io. Giustamente, in Listening with the third ear[8]Theodor Reik pose la clinica analitica a cavallo tra realtà psichica ed effettuale, tra dentro e fuori, tra immaginario e reale, attraversando il ponte simbolico.
La topologia ha da dire la sua anche a proposito dell’ascolto analitico. Freud definì l’attenzione dell’analista “egualmente fluttuante” (gleichschwebend); si potrebbe tradurre isofluttuante, come isometrico, o anche equifluttuante, come equiprobabile o equilatero (gleichseitig). Forzando l’analogia, si direbbe che l’attenzione equifluttuante corrisponde all’isocronismo delle piccole oscillazioni del pendolo di Galilei (1592), autore che tuttavia Freud non citò mai. In biblioteca non aveva le sue opere. La scienza freudiana non fu galileiana.
La negazione è equifluttuante nel senso che non nega una particolare direzione del senso del discorso, ma le ammette tutte.[9]Tale topologia è evidente nel caso dello sguardo, dove il soggetto è visto dall’altro in modo delocalizzato, cioè a 360 gradi, senza vedere sé stesso.[10] È prevista addirittura la ripetizione, nel senso che gli angoli possono superare i 360 gradi, girando più volte attorno al centro di rotazione.Situazione analoga si verifica con la voce. Della voce materna il soggetto ha l’imprinting intrauterino. Ciò ne fa un oggetto arcaico, delocalizzato come lo sguardo altrui; la voce che chiama il soggetto all’esistenza èovunque e in nessun luogo. Lo disse bene il poeta nel famoso idillio sull’infinito:
E come il vento
Odo stormir tra queste piante, io quello
Infinito silenzio a questa voce
Vo comparando.
In meccanica quantistica il fenomeno accade “oggettivamente”: la direzione dell’elettrone esposto a radiazione è indeterminata. Nella famosa lettera a Born del 29 aprile 1924, in cui sentenziò che “Dio non gioca a dadi con il mondo”, Einstein scriveva con un certo astio: “L’idea che l’elettrone esposto a radiazione possa scegliere liberamente l’istante e la direzione in cui spiccare il salto è per me intollerabile. Se fosse così, preferirei fare il ciabattino, o magari il biscazziere, anziché il fisico”.[11]
In clinica anche l’infinito vocale è tangibile. Quando l’analizzante tace, come si ascolta la voce di “quello infinito silenzio”? Si attende l’emergere di una qualunque delle infinite parole possibili nella lingua. Su questo infinito tra potenziale e attuale, tra langue e parole, secondo de Saussure, si innesta la differenza logica tra le due formulazioni della regola fondamentale dell’analisi, consegnata all’analizzante: “comunicare tutto”,alles mitzuteilenper Freud, vs“dire una cosa qualunque”, dire n’importe quoiper Lacan. È la differenza tra i quantificatori logici universale (per ogni) ed esistenziale (esiste almeno uno).
È una questione di logica delle variabili, ignota agli antichi.[12] La versione binaria di tale logica annulla la differenza tra i quantificatori; li definisce l’uno con l’altro attraverso la doppia negazione: l’universale è non esiste uno che non, l’esistenziale ènon per ogni non. Più rispettosa dell’infinito, la logica intuizionista sospende la tirannia binaria del principio del terzo escluso[13] e salva l’indipendenza dei due quantificatori. È una buona ragione per adottare la logica intuizionista in psicanalisi, data la sua strutturale debolezza ontologica, dovuta alla presenza dell’infinito. In questo senso le sedute brevi di Lacan presentano sin dall’inizio lo stesso oggetto infinito, ben prima di concludersi.[14] Prolungarle non aggiunge nulla all’infinito che le inaugura, come aggiungere un milione a zero.[15]
Siamo così tornati al punto. Che cosa non si può negare? Tre secoli e mezzo fa Spinoza lo stabilì in uno dei primi assiomi dell’Etica: è proprio l’infinito a non sopportare la negazione. Lo dice la VI definizione della Prima parte dell’Etica: “È assolutamente infinito tutto ciò che esprime essenza e non implica alcuna negazione”.[16] Insomma, l’infinito numerabile non è cinque, non è undici, non è quattromilaseicentodiciassette. L’infinito non è in nessuna di tutte queste negazioni. Quando il suo paziente enuncia “Non è la madre”, sospendendo la negazione e traducendo “È la madre”, Freud convoca l’infinito come oggetto del desiderio, innegabile e precedente ogni mitologia edipica.
La situazione non si presenta solo nel caso dell’infinito numerabile. Il caso dell’infinito non numerabile è simile nella diversità. Ancora Spinoza lo espose al proprio medico Lodovico Meyer nella lettera XII del 1663, dove disegnò due cerchi eccentrici uno interno all’altro; dimostrava così che esiste l’infinito limitato: le distanze tra i due cerchi sono infinite e infinitamente diverse, pur restando limitate tra un massimo e un minimo.[17] Insomma, l’infinito non sopporta la negazione del limite; esiste l’infinito limitato.
La distinzione tra infinito e infinità, buona o cattiva, su cui armeggiò Hegel nella Scienza della logica (1830), fu poi precisata in senso scientifico da Riemann e Cantor. Grazie a loro oggi sappiamo che l’infinito non è solo l’apeiron, l’illimitato degli antichi Greci. Sappiamo anche che esistono diversi infiniti non confrontabili, ognuno “incarnato” in un modello diverso dagli altri; c’è il modello numerabile dei numeri naturali, con cui si conta; c’è il modello continuo dei numeri reali, con cui si misura, e ci sono tutti i modelli transfiniti delle relazioni tra infiniti diversi, che Cantor generava passando da un infinito all’infinito “più grande” delle sue parti. Insomma l’infinito non è uno; è un oggetto “non categorico”, come dicono i matematici per dire “non concettuale”[18] o “inconcepibile” (unbegreiflich), nel senso che la sua semantica ospita modelli non equivalenti.[19] L’infinito è il padre di tutti gli indeterminismi probabilistici o caotici della scienza moderna. A causa dell’infinito, la battaglia di Einstein e Freud per la “rigorosa causalità” è persa dall’inizio.
Come se la cava il filosofo con la realtà sfuggente dell’infinito, direbbe Brouwer?[20]Male. Nel caso dell’infinito vocale Baas tenta di dire che l’oggetto voce è una meta-voce, una voce senza parole, silenziosa, fenomenologica (trascendentale) al di là della voce fenomenale (empirica): pura risonanza senza suono, qualcosa da ascoltare con il terzo orecchio. Un suo modello è l’enunciazione senza enunciato, tipica l’enunciazione interrotta: “Piero va…” non sappiamo né dove né a che a che scopo vada. L’infinito è al di là del finito e del definito. Torna il concetto di infinito come resto, giusta la notazione algebrica: oggetto a. La voce evoca l’impossibile, quel reale che ancora secondo Lacan non cessa di non scriversi. J.-A. Miller conclude: “La voce è ciò che non si può dire”.[21] Risuona, è il caso di dire, il teorema che Lacan enunciò all’inizio dello scritto L’étourdit: “Che si dica si scorda dietro ciò che si dice in ciò che s’intende”.[22] Benjamin aderirebbe alla tesi che la voce è incomunicabile e non comunicante come la poesia:
[…] Nessuna poesia è per il lettore, nessun quadro per l’osservatore, nessuna sinfonia per l’ascoltatore. E la traduzione sarebbe per lettori che non capiscono l’originale? Basterebbe a spiegare la differenza principale fra l’uno e l’altra in campo artistico. Inoltre, sembra l’unica ragione possibile per ridire “la stessa cosa”. Cosa “dice” una poesia? Cosa comunica? Molto poco a chi la capisce. L’essenziale della poesia non è la comunicazione, non è l’enunciato. Pertanto la traduzione che pretenda comunicare non comunicherebbe altro che la comunicazione, cioè l’inessenziale. È questo, infatti, anche il segno di riconoscimento delle cattive traduzioni.[23]
Detto in lacanese, la voce sarebbe un oggetto fuori significato e fuori significante, né immaginario né simbolico, ma reale, che pure sta al fondo di ogni associazione immaginaria e articolazione simbolica?[24] L’analista tradurrebbe la voce silenziosa e intraducibile dell’inconscio? Darebbe voce al desiderio? Direbbe quell’infinito che non si può dire, perché fuori concetto? Belle domande, scientifiche, che le scuole neppure si pongono. Dimenticano che alla fine dell'Io e l'Es Freud affermava che l'Es non può dire ciò che vuole (Es kann nicht sagen was es will).
La voce dell’infinito
Resta da chiarire il duplice effetto della voce: come produca l’angoscia e la legge morale, sotto forma di voce (non vocale) della coscienza, das Gewissen. Sul punto mi guidano le riflessioni della Klein sulla derivazione del Super-Io dall’oggetto introiettato e idealizzato, il suo imprinting vocale. Di Freud non utilizzo la prima teoria dell’angoscia come libido non soddisfatta, ma la seconda, sviluppata in Inibizione, sintomo e angoscia,[25] dell’angoscia come Unlustsignal, “segnale di repulsione”, mal tradotto “segnale di dispiacere”. Di quale repulsione si tratta? Per spiegarlo devo fare un lungo giro.
Il mio punto di partenza è l’assioma empirico che Lacan enunciò nel X Seminario sull’angoscia del 19 dicembre 1962: l’angoscia è un affetto che non inganna. Premetto che il tedesco Affekt è un falso amico: non significa “affetto” ma “eccitazione”. La precisazione semantica ripresenta l’oggettualità: quale oggetto repellente eccita l’angoscia e al tempo stesso predispone il soggetto alla legge morale?
Il filosofo non sa dirlo altrimenti: per lui l’oggetto angosciante è il nulla,[26] antico e simmetrico compagno di giochi dell’infinito. Il nulla attiva la libertà soggettiva come la “possibilità per la possibilità”.[27] Il niente nientifica e così genera angoscia. Al tempo stesso l’infinito apre uno spazio di libertà; inaugura la legge morale e a rovescio il desiderio, il peccato per Kierkegaard. Il soggetto opta per l’etica nell’esperienza originaria dell’angoscia. Con Kierkegaard direi che l’etica fiorisce nel campo estetico dell’angoscia e lo trascende.
Lo psicanalista lo dice in modo simmetrico, passando dal registro ontologico all’epistemico. Il nulla diventa ignoranza, addirittura volontà di ignoranza: non si vuole sapere ciò che si sa già. Lo si rimuove in modo originario, preventivo, addirittura prima di avvertirlo coscientemente; è la Urverdrängung freudiana; è lei a innestare l’inconscio nel soggetto. D’altra parte “la possibilità per la possibilità” diventa la scabrosa possibilità che il finito sfugga alla presa e il nulla si espanda all’infinito.[28] Perciò dell’infinito non si vuole sapere. Ignoranza e infinito vanno a braccetto da Aristotele in poi. Lo Stagirita negava l’infinito perché inficiava il principio di ragion sufficiente, necessario alla conoscenza, supposta esclusivamente eziologica, l’antico scire per causas; infatti, se il regresso dagli effetti alle loro cause fosse senza fine, non si troverebbe la causa prima né nello spazio né nel tempo, cioè ci sarebbero inconcepibili effetti magici senza causa.
Per salvare il principio eziologico, evitando l’indeterminismo (o la magia), i filosofi dopo Aristotele hanno escogitato la ripetizione dell’identico. La ripetizione è un trucco apparentemente astuto per riaffermare il finito contro l’infinito: all’infinito spaziale (ontico) si sostituisce l’infinita ripetizione temporale del finito, supposto inesistente il ciclo infinito da percorrere a velocità finita. Se tutto si ripete, c’è l’inizio della ripetizione, quindi la causa prima esiste. Gli ingenui ontologi non si accorsero della circolarità logica latente nella circolarità ontologica; infatti, l’ultimo effetto causerebbe la prima causa senza la quale lui stesso non esisterebbe; quindi la prima causa non esiste, perché l’ultimo effetto non si è ancora prodotto. Prima Nietzsche e poi Freud caddero in questa incongruenza. Succede ai grandi quando si fissano alle loro grandi idee.
In particolare, ipotizzando la pulsione di morte come causa finale della ripetizione, che porterebbe il soggetto verso uno stato di nirvana, smaltendo ad ogni ripetizione parte dell’affetto (l’eccitazione), Freud ricadde nella Fisicaaristotelica, dove il mobile tende alla propria sede naturale e lì si ferma in quiete, come il soggetto si acquieta nel desiderio soddisfatto. Aristotele non sapeva che la quiete è un moto a velocità nulla. Ci volle Galilei a chiarire che la quiete non ha cause diverse dal moto (principio di inerzia). Pur di salvare l’essere che è, l’ontologia sopporta incongruenze anche maggiori.
Prima di procedere, ricordo che la ripetizione è una situazione usuale nella materia: i cristalli di una sostanza allo stato solido si ordinano nella ripetizione spaziale secondo reticoli tridimensionali.Oggi, grazie alla correlazione relativistica tra spazio e tempo, si conoscono cristalli con simmetrie temporali oltre che spaziali. Sono alla base di orologi più precisi degli attuali. Il concetto astratto di ripetizione dell’identico è invarianza, per cui tutto cambia per rimanere uguale. In meccanica e in geometria si chiama simmetria.
In matematica, grazie alle proprietà di simmetria, l’eterna ripetizione dell’identico si tratta in modo algebrico. Si chiama aritmetica modulare; fu inventata da Gauss tra il XVIII e il XIX secolo; oggi è di uso comune in diversi settori della matematica pura e applicata: nella crittografia a chiave pubblica, nell’archiviazione dei dati su computer o nella generazione di numeri pseudo-casuali, necessari a simulare fenomeni complessi. Si considerano congruenti due numeri interi se e solo se differiscono per il multiplo di un certo intero m, il modulo.[29] Ancora una volta per trattare l’infinito si calcola un resto: il resto della divisione per m. L’operazione ripartisce l’insieme infinito degli interi in un numero finito di classi di congruenza, pari al numero m dei resti della divisione per m. Esempio banale è l’aritmetica modulo 12 dell’orologio; sono le 18 di sera, ma l’orologio segna le 6, che è congruo a 18 perché 18-6 è divisibile per 12. L’orologio riduce l’infinito al finito delle dodici classi orarie. Dillo al filosofo, ma non a Kierkegaard, che affermava: “Quello che si può riprendere è già stato, altrimenti non si potrebbe riprendere, ma proprio in questo essere già stato consiste la novità del riprendere. […] La ripresa è la chiave di ogni concezione etica”.[30]
Da dove emergerebbe allora l’angoscioso segnale repellente dell’infinito? Ora sono in grado di precisarlo un po’ meglio.
Come tutti gli psicoterapeuti prima e dopo di lui, Freud adottò una psicologia antropomorfa, dotata di un piccolo uomo dentro l’uomo. In particolare la sua metapsicologia supponeva tre piccoli uomini dentro l’uomo: l’Io, l’Es e il Super-Io, tra loro in conflitto. L’allarme angoscioso proviene dal Super-Io; al piccolo Io, che desidera la donna del padre, segnala il pericolo della castrazione. L’oggetto è castrante: in potenza per il maschio, in atto per la femmina. L’angoscia di castrazione ha sede nell’Io, vera e propria stazione ricevente del segnale d’angoscia.
Personalmente ritengo che il complesso di castrazione, combinato al parricidio, fosse un sintomo nevrotico di Freud, precisamente ossessivo; in pratica fu l’idioletto in cui Freud articolò tutta la teoria analitica.[31] Perciò mi rifiuto di identificarmi in modo isterico al sintomo del maestro. Ne riconosco la diffusione, secondo il modello maschile dell’onnipotenza del pene paterno, ma non ritengo la minaccia di castrazione una legge universale.
Preferisco adottare una concezione più scientifica, di certo criticabile perché astratta, cioè indipendente da ogni interpretazione vitalistica, ma sicuramente meno antropomorfa. Nella mia teoria il segnale di allarme proviene da un oggetto infinito che non si sottomette alle leggi del finito e potenzialmente sopraffà il soggetto finito. L’infinito destabilizza le certezze, quindi produce angoscia. Al tempo stesso richiede leggi provvisorie e incomplete per trattarlo. Ricordo che in Cartesio la morale è sempre parprovision, cioè abita il dubbio.
Ma, come il dubbio, anche il provvisorio non è per tutti. Ci vuole stoffa morale per sostenerlo e sopportarlo. Invece di affrontare l’incertezza si preferisce accettare la menzogna, purché sia definitiva, stabile e certa. I preti lo sanno bene. Garantire false certezze è la funzione sociale delle ideologie e delle religioni per contenere l’enigma del reale. In regime di incertezza rischia di liquefarsi il legame sociale, che invece le ideologie e le religioni consolidano. Perciò, per salvare il soggetto collettivo, si preferisce optare per qualche certezza, anche se falsa. A questo bisogno di certezze illusorie si piega anche l’uso statistico dei test di significatività nella pratica scientifica che esercitavo da giovane: si crede vera un’ipotesi se l’ipotesi antagonista (l’ipotesi zero) raggiunge il limite mitico di probabilità del 5 per cento. Non si fa scienza in modo così meccanico, neppure se si adottano modelli meccanicisti. Il bisogno di certezze è il nemico interno alla scienza.
Al tempo stesso si osteggia la scienza dall’esterno perché non dà certezze ultime ma solo qualche indicazione plausibile per il tempo presente, dal senso comune e/o filosofico ritenuta delirante. Chiedetelo a Greta Thunberg, che grida al deserto di ascoltare la scienza sul clima del pianeta. La scienza è assimilata alla morte e quindi avversata.[32] La scienza angoscia perché il suo oggetto infinito è la cosa più certa che ci sia di cui non si hanno certezze.[33] Ci si ripara dietro un consolidato meccanismo di difesa: siccome l’oggetto della scienza – l’infinito – non è oggettivabile, la scienza è ritenuta non oggettiva; allora si opta per la tecnologia, che offre procedure certe e oggettivamente controllabili, quando non si rifugia nell’ineffabile omeopatico. In psicanalisi si chiama Verleugnung, o rinnegamento. Produce la perversione, una psicopatologia immodificabile dalla psicanalisi, anche se scientifica.[34]
A intenderla bene, questo dice la voce silenziosa di Freud. Ma c’è orecchio che l’ascolti? Aspettiamo che si apra il terzo orecchio di Theodor Reik, per origliare il mormorio che la coppia fantasmatica di soggetto finito e oggetto infinito bisbiglia tra sé e sé.
Concludendo, provo a dirlo in positivo e sospendo la negazione come mi ha insegnato Freud: l’oggetto non oggettivo è soggettivo. La divisione non passa tra soggetto e oggetto, come pretende l’ontologia. La divisione divide lo stesso soggetto in due zone epistemiche: conscia e inconscia. L’oggetto dipende dal sapere del soggetto, che il soggetto magari non sa di sapere; lo dico con buona pace di qualunque versione di realismo ontologico.
Se poi il soggetto è collettivo… Let it be, “E va bene”.
Farrar, Straus, & Giroux, New York 1948.