CBT IN PILLOLE
Psicoterapia cognitivo-comportamentale nella pratica clinica
di Emilio Franceschina

LA COSTELLAZIONE DELLE CBT

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7 gennaio, 2020 - 08:59
di Emilio Franceschina
Voglio dare avvio a questa mia rubrica partendo da alcuni punti che ritengo fondamentali e che ai più possono risultare poco noti. Il primo tra questi riguarda la sostanziale multidimensionalità dell’approccio CBT. Si potrebbe infatti pensare che, vista la tanto decantata aspirazione alla fedeltà ed al rispetto dei principi di scientificità, un approccio di questo tipo debba configurarsi come una terapia univoca e monolitica, costituita essenzialmente da una sola scuola di pensiero e, di conseguenza, da iter trattamentali rigorosamente “fedeli alla linea”. La realtà è invece assai diversa. Infatti, sebbene ogni trattamento CBT abbia precisi riferimenti teorici ed un background epistemologico e metodologico in larga parte condiviso, tuttavia esso fa parte di una costellazione di trattamenti. In altre parole, una molteplicità di trattamenti vengono definiti, a torto o a ragione, cognitivo-comportamentali, non uno soltanto.

A riprova di quanto sto affermando, e a dimostrazione che non si tratti di una semplice sfumatura, ma di un aspetto di una certa importanza, è il fatto che alcune tra le più importanti associazioni scientifiche internazionali che riuniscono ricercatori e professionisti CBT declinano, nel loro acronimo, la lettera T al plurale: ad es. l’associazione europea EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) o l’associazione americana ABCT (Association for Behavioral and Cognitive Therapies). Evidentemente queste associazioni hanno ritenuto che l’uso del plurale rispecchiasse più fedelmente l’effettiva presenza di una pluralità di interventi identificabili come cognitivo-comportamentali, piuttosto che un’unica tipologia. Mi rendo conto che ciò che sto dicendo non sia una novità assoluta, visto che potremmo notare la stessa cosa anche a proposito, ad es. delle terapie psicodinamiche: una serie di elementi comuni, ma poi grandi diversità tra scuole, autori, ecc. Molti colleghi tuttavia continuano erroneamente a ritenere che vi sia una sola tipologia di psicologo cognitivo-comportamentale. Alcuni, addirittura, identificano il cognitivo-comportamentale con il comportamentista – la qual cosa non è del tutto impropria, sia ben chiaro –, ma non di rado questa tipizzazione finisce per avere una connotazione negativa, volendo riferirsi ad una forma stereotipata di psicologia S-R, dipinta come grezza, arcaica ed ingenuamente velleitaria. La costellazione CBT invece è composta da un insieme estremamente ampio e variegato di modelli teorici e di applicazioni cliniche, come avrò via via modo di illustrare.

Attenzione alle etichette
La presenza di una molteplicità di trattamenti definibili come cognitivo-comportamentali pone, di conseguenza, anche qualche problema di corretta identificazione delle tecniche impiegate in un dato contesto clinico o in un determinato studio scientifico, così come dei contenuti insegnati in una scuola di formazione. È come se stessimo parlando di un’ottima zuppa e fossimo tutti concordi nel definirla così, ma solo una più puntuale descrizione degli ingredienti ci permetterà non solo di denominarla più specificatamente e di classificarla entro categorie note, ma anche di poterla poi servire correttamente ai nostri ospiti.
Immaginiamo di scorrere l’abstract di un articolo di ricerca in cui un dato trattamento, definito nel testo per brevità “CBT”, sia stato posto a confronto con un'altra terapia psicologica o farmacologica per verificarne l’efficacia nei confronti di un certo disturbo: l’acronimo CBT potrebbe risultare in realtà generico ed identificare potenzialmente un’ampia varietà di metodiche. Viceversa, in altri casi ci si potrebbe non accorgere di come etichette diverse possano riferirsi, di fatto, ai medesimi trattamenti terapeutici. Ad esempio, nel passare in rassegna alcune meta-analisi che riguardano l’efficacia di terapie antidepressive, ci si potrebbe accorgere che alcuni autori hanno messo insieme studi che hanno impiegato sia la “CT”, sia la “CBT”. Il mistero tuttavia è presto svelato: CT sta per Cognitive Therapy (la Terapia Cognitiva di Beck) e CBT sta per (come sappiamo) Cognitive Behavioral Therapy, che tuttavia si riferisce in questo caso, ugualmente, alla terapia di Beck. Infatti, le componenti della terapia di Beck per la depressione sono, tradizionalmente, considerate tra le più ortodosse e consolidate applicazioni della CBT, tanto da indurre questi autori a mettere insieme questi risultati, provenienti solo apparentemente da fonti eterogenee. Attraverso questo esempio, quindi, possiamo notare come l’acronimo CBT possa essere impiegato sia nel senso più ampio e generale (per definire la costellazione CBT), sia talvolta in un senso più specifico, per definire alcune sue applicazioni standard, specie quelle riferite a specifici disturbi (come ad es. l’ansia o la depressione).

CBT: quali i fattori comuni?
Gli psicoterapeuti cognitivo-comportamentali, pertanto, possono essere piuttosto diversi tra loro ed operare nella pratica clinica in modo assai meno uniforme di quanto non si pensi. Alcune matrici razionali di partenza devono essere necessariamente comuni, ma possono aver dato luogo a modelli applicativi ed a percorsi trattamentali non altrettanto sovrapponibili tra loro. Almeno tre dovrebbero essere tuttavia gli elementi aggreganti nell’approccio CBT: (1) il riconoscimento dei suoi fondamenti teorici ed epistemologici di base nelle teorie dell’apprendimento, (2) il trattamento psicologico inteso come processo di cambiamento, abilitazione e crescita della persona nel far fronte, qui ed ora, alle sue difficoltà di adattamento (talvolta, ma non sempre, classificabili come disturbi), e (3) la necessità del supporto dell’evidenza scientifica come conditio sine qua non per l’impiego di ogni applicazione clinica, sia diagnostica che trattamentale.
Ad ulteriore riprova della varietà delle correnti che caratterizzano questo approccio, sono certo che alcuni miei colleghi CBT non saranno completamente d’accordo sin dal primo punto. Ogni grande movimento culturale ha, d’altra parte, il suo dibattito interno, ha una destra e una sinistra, e magari, se vogliamo, anche un centro; ha conservatori e progressisti – sempre naturalmente, come avrete compreso, non in senso politico. Il dibattito e le diversità sono di solito una forma di arricchimento reciproco, piuttosto che di impoverimento. Per quanto mi riguarda, posso esprimere solo il mio punto di vista.
Senza la prima delle tre componenti aggreganti, la costellazione di riferimento di un percorso trattamentale potrebbe essere più propriamente definibile come cognitivista, piuttosto che cognitivo-comportamentale (non vi sarebbe infatti alcuna ragione plausibile per includere la B di Behavioral nelle proprie credenziali). Non riconoscere le proprie radici ed il fatto che queste siano tuttora presenti nella nostra borsa degli attrezzi, sarebbe come se una band affermasse di suonare musica rock senza richiamarsi – nemmeno lontanamente – al blues, al rhythm’n’blues o a Chuck Berry. I casi sono due: o conveniamo che non si tratta di una rock band o attribuiamo al termine rock un altro significato. Bella musica, si potrebbe dire, ma non è rock. Non si tratta di un mero requisito formale, al pari della tessera di un club, ma piuttosto di convenire circa l’attualità delle leggi dell’apprendimento (peraltro, tra le poche concordemente ritenute evidence-based) per il corretto impiego di alcuni fondamentali principi “attivi” propri della pratica clinica CBT.
Se venisse meno il secondo elemento aggregante (cambiamento, abilitazione e crescita), ciò risulterebbe altamente dissonante con tutta l’epistemologia e l’evoluzione storico-culturale della CBT; l’asse del processo terapeutico tornerebbe ad essere rivolto all’indietro, verso il passato, ovvero verso la ricerca delle cause remote, piuttosto che sul presente e sul futuro, ovvero sulla conoscenza e la modificazione attiva e consapevole dei propri (dis)funzionamenti. Se mancasse infine – addirittura – anche la terza componente, direi invece che ci troviamo irrimediabilmente fuori rotta. Niente ossessiva ricerca di evidenze, niente CBT! Il vaglio attento della ricerca per ogni strumento diagnostico o trattamentale è un criterio di inclusione non trattabile, innanzitutto per il suo valore etico, prima ancora che come principio fondante di tipo intellettuale.

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