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Guarire o impazzire. I disturbi alimentari a sfondo non nevrotico.

5 Feb 20

A cura di info_1

La domanda di un soggetto che soffre di disturbi del comportamento alimentare implica una mobilitazione di risorse e  competenze che devono sapersi costituire in rete in maniera stabile e continuativa nel tempo. La multidisciplinarietà dell’intervento, punto oggi imprescindibile, passa per una rigorosa divisione dei saperi. Nella maggioranza dei casi  la prima richiesta d’aiuto, che non necessariamente contiene una  domanda di cura, viene portata al medico di famiglia, il quale deve possedere strumenti ben tarati ed affinati per valutare l’effettiva presenza e l’entità di un disturbo dell’alimentazione.  In questa prospettiva   la presenza del nutrizionista è d’obbligo in quanto è a questa figura che si chiede e si demanda una valutazione dei parametri corporei del richiedente. Una valutazione non solo necessaria per la formulazione di una diagnosi appropriata di DCA, ma utile anche a fotografare il qui ed ora corporeo del soggetto in sofferenza,  viatico necessario per coadiuvare ed orientare il lavoro delle altre figure coinvolte.
 La questione diagnostica   è una elemento cruciale  rispetto alla progettazione di un piano terapeutico riabilitativo centrato sulla singolarità del richiedente. Oggi infatti i parametri per definire i dca sono oggetto di costante discussione: la diagnosi dell’anoressia nervosa è definita dai criteri del DSM IV e dell’ICD 10, si calcola però che dal 40 al 60% dei pazienti con disturbi del comportamento alimentare non soddisfino i criteri diagnostici del DSM IV e questa indeterminazione appare potersi tradurre in una prognosi più problematica. Una buona parte di questi pazienti non ha però caratteristiche così lontane da quelle dei pazienti “codificabili”. Thomas [1]  in una recente meta-analisi, in vista della ridefinizione del DSM V, sottolinea come alcuni dei criteri distintivi della Anoressia nervosa siano fragili. In particolare l’amenorrea e la soglia di dimagrimento non sembrano essere predittivi rispetto al decorso della malattia: uno studio che rivede questi due criteri permette di recuperare dalla categoria “Disturbi del comportamento alimentare non altrimenti specificati” il 15,5% dei casi . Viceversa l’assenza della paura di ingrassare pare sia collegata ad un decorso più benigno e dunque possibilmente identifichi un diverso sottogruppo.     
La  funzione dello psicoterapeuta   è  in prima istanza  quella di garantire una percorso di soggettivazione ,  libero da parametri medici e nozioni di ordine nutrizionale. Un cammino che rinunci alla   questioni ponderali che il soggetto sa essere affrontate e trattate in separata sede. In pratica, il clinico ha in un primo tempo il compito di togliere quell’etichetta che sovente ha intrappolato il paziente in un percorso che ne può impedire la rettifica soggettiva.  Tali etichette  rinforzano i processi identificativi che molti soggetti affetti da dca difficilmente classificabili vanno cercando,  fungendo da  strumento capace  di offrire un appartenenza     al ‘gruppo dei’, favorendo un temporaneo transito  in una zona franca che ponga rimedio  alla caduta di quei  punti di riferimento dei quali parla Freud in  in ‘Psicologia delle masse e analisi dell’Io[2]‘.  Anoressiche, bulimiche, affetti da Binge  Eating Disorder  possono  definirsi individui i quali, pur non conoscendosi tra loro,  sentono di appartenere al gruppo ‘ di quelli che hanno  quella cosa’. Possono contare su un Altro virtuale, reperibile, che li tiene raggruppati . [3]
 
Nei casi di dca a sfondo psicotico non c’è stata l’inclusione o la ricerca di un associazione che recluti in virtù di  un identico tratto comune.  Il paziente è solo con al su armatura anoressico-bulimica, chiuso in un discorso che non pare aprire ad altro.  La formulazione di una diagnosi differenziale condivisa assume dunque un valore maggiore quando ci si trova in presenza di soggetti a rischio di scompenso psicotico.  Nelle psicosi compensate  il corpo magro funge in molti casi  da elemento di ‘tenuta’, reperito e rinforzato per evitare scompensi più profondi e gravi,  dovuti per l’appunto a strutture piu’ fragili non deflagrate .
In tal caso il concetto di ‘guarigione’ che sovente soddisfa  il corpo  medico, basato sul solo recupero ponderale, lavora contro il mantenimento dell’omesotasi raggiunta dal soggetto con il suo sintomo. Il lavoro del gruppo clinico, e qua fondamentale l’apporto dello psicoterapeuta, deve saper tradurre nel lessicomedico concetti quali equilibrio, tenuta, compensazione che spesso vanno al di la del semplice aumento di peso. In pratica aumento di peso non necessariamente significa guarigione, quanto l’abbandono di una posizione compensata che apre a squilibri piu’ profondi. All’analista compete una doppia posizione. In prima battuta, egli può tranquillamente incarnare  quella dello psicoterapeuta, cercando di gestire il transfert, puntando in tal modo, specie quando la vita del paziente  è a rischio, di lenire il sintomo , dicendo no  all’ingaggio sul discorso alimentare, il che favorisce la ripresa di  un peso sopra la soglia vitale. Essere colloquiale, chiamarsi fuori dalla interminabile serie di ‘dottori del peso’ con cui il paziente sovente da anni recita la questione calorie si, calorie no. Se il lavoro è ben fatto, e il peso aumenta, trattandosi di soggetti a sfondo psicotico, emergono, o deflagrano, fenomeni elementari sottostanti. Allucinazioni, stati d’angoscia ingestibili, turbe caratteriali. Ed è proprio in quel momento che l’analista deve saper occupare la sua posizione di ferro, capace di sorreggere  l’individuo allorquando il vaso di pandora di scoperchia. Sovente si tratta di  un compito in soliutari giacché il recupero ponderale, viatico dello scompenso, vien preso da gran parte del mondo medico per una ‘guarigione’, il che induce ad allentare la presa. 
 
Vediamoper exemplaquanto descritto 
 
Lisa[4]si rivolge al medico di famiglia a causa di forti dolori addominali che perdurano da circa due mesi. Gli esami ai quali il medico la sottopone evidenziano un grave prolasso  delle pareti intestinali causati dalla perdita di peso. Lisa ha 22 anni, da poco più di due ha iniziato un dimagrimento che l’ha portata al di sotto dei 40 kg. Il medico la invia per una consultazione al locale ospedale dove il chirurgo le prospetta un intervento per ripristinare le pareti collassate. Un intervento risolutivo che lei rifiuta. Il medico la invia presso il mio studio con una nota ‘ la ragazza rifiuta le cure. E’ refrattaria all’idea di guarire’.  Due anni e mezzo fa è uscita dalla casa dei genitori con un uomo più vecchio di 5 anni. Lui se ne va circa un anno dopo, provocandole un crollo di una certa entità, che vede l’acuirsi della sua magrezza. Aveva già iniziato una dieta un anno prima di uscire di casa, ma quella separazione porta ad un esito drastico, (30 kili in meno di otto mesi). Non fa ritorno dai genitori, ma si fidanza con un ragazzo conosciuto in discoteca e lo porta a casa sua. In pochi mesi questa storia ha termine. Chiama allora a convivere un vecchio amico di infanzia. Quando hanno inizio le sedute, costui è in procinto di andarsene.   Mia madre ha detto che, visto che Gianni ( l’attuale coinquilino) sta per andaresene, sarebbe il caso di tornare la, con loro, ma io non tornerò mai più a casa con lei! ‘ E perché? ‘ domando io.
‘Lei entra in camera, entra dappertutto. Per ogni cosa facciamo liti furibonde!’. La vita con la madre viene descritta come un inferno: una presenza incombente e penetrante.  
Poi, e questo è un ritornello che ritornerà in tutte le sedute, copre tutto con un     ‘Ma Io la amo.Lei è tutto per me’. Poi aggiunge: ‘I miei genitori non si sono mai accorti che stavo male. Oggi almeno con la questione del mio prolasso, vedono quanto soffro.’ Per contro il padre è descritto non all’altezza, inerme e   disinteressato a lei e alle vicende familiari. Le sedute seguenti sono un alternanza di descrizoni di un rapporto impossibile, a frasi del tipo‘ ma non mi separeranno mica da mia madre, vero? Io non mi posso staccare da lei’. Prima di uscire di casa, una lite con la madre, contraria a questa scelta, sfociò in un suo defenestramento.
Dopo la sua dipartita hanno continuato a frequentarsi regolarmente Solo adesso dice che il primo ragazzo se ne andò anche per questo.  
E’ passato un anno e mezzo dal primo colloquio, e Lisa ha ripreso gran parte del suo peso. Ha trovato un piccolo lavoro serale per sopperire all’affitto che è venuto a mancare. La madre, dopo che ella ha dichiarato di non voler fare ritorno a casa, è scivolata in una depressione di una certa entità accompagnata da grave calo ponderale. Continuano a vedersi, alternando momenti di pace a feroci litigi causati dalla richiesta materna di ritorno a casa. Richiesta alla quale fa seguito un aggravamento della patologia rettale di Lisa, con conseguente ricovero in day Hospital.  
 Quando Lisa è entrata nel mio studio il coinquilino era in procinto di andarsene , provocando in lei una forte crisi d’angoscia. Un affetto che era giunto ad un culmine insopportabile, in tutto simile a quello provato al momento della separazione dal primo compagno, quando  si aprirono le porte per un possibile  ritorno dalla madre.  
La costruzione anoressica di Lisa, iniziata tra le mura domestiche, non ha sortito nel tempo l’effetto di elemento separatore e protettivo  Ella ha pertanto dovuto aggiungere a ciò la presenza di un uomo per pagarsi una casa lontana dalla madre, anzi, più uomini in successione. Ecco allora l’origine dell’angoscia delle prime sedute, legata all’avvicinarsi della presenza materna fagocitante . Angoscia che raggiunge il culmine quando la risposta al quesito cosa vuole l’Altro da me appare nefasta: tornando a casa, lei può divenire l’oggetto preso. Ecco allora, cadute queste due  putrelle, l’identificazione alla patologia rettale. Più attuale, ma conseguenza medica della magrezza fisica, sintomo più strutturato e antico. Un nuovo strumento col quale Lisa ricostruisce la barriera, più funzionale dell’armatura anoressica, che può quindi essere lasciata cadere. Da qua il significativo recupero ponderale che stupisce molti medici, che la ritenevano ‘guarita dall’anoressia’.
Questo rapporto semi simbiotico con la madre  appare essenziale alle due per sostenersi. E’ qualcosa di non sopportabile, ma nemmeno di risolvibile. Non può stare troppo vicino a lei, ma allontanarsene sembra preludere a uno scompenso. Consapevole della natura fagocitante, cerca di renderlo il meno pericoloso possibile. Come un tossicomane che utilizza la droga come elemento curativo ad una sottostante struttura a rischio di scompenso, rendendola meno pura e più tollerabile, senza però mai mettere in dubbio la sua necessità di continuare ad assumerla.
Quando dice:‘ nessuno mi separerà da mia madre’, e ‘ io lo  so che la faccio soffrire non tornando a casa e a causa di questa mia malattia’, indica la volontà  non dialettizzabile di mantenere il legame inalterato. Ci si aspetterebbe, in caso di nevrosi, un momento di elaborazione , di rettifica, che spinga il soggetto a prendere atto del rapporto causa effetto che governa il meccanismo.
Invece lei aggiunge ‘ Non so perchè. Io e lei siamo legati in questo modo. Non mi chieda altro. Lo stare assieme non si discute.  
Con che tipo di anoressia abbiamo a che fare in questo caso? Un anoressia durata circa tre anni e oggi ‘risolta’ in poco tempo in prospettiva peso/sopravvivenza. Questo rimanda alla questione della diagnosi differenziale. Lisa non ha mai operato alcuna rettifica in merito al suo dimagrimento. Mai ha  domandato aiuto.   Cioè non ha mai avvertito , come di solito avviene col nevrotico, che quel sintomo avesse raggiunto un livello di dolore non più gestibile tale da giustificare una messa in discussione. Non  siamo quindi  nell’ordine del sintomo nevrotico ‘dal quale il soggetto  non chiede che di liberarsi’. Di più, l’attenuarsi dell’anoressia ha coinciso con l’adesione pressochè totale ad un altra forma di malattia, con la quale ha tutt’ora un identificazione totale 
Malattia che ;
1 le permette di tenere una giusta  distanza dalla madre
2  di farle pagare qualche conto arretrato ( ‘ anche lei adesso  sta male!’)
3 Le garantisce quel riconoscimento che con la fase anoressica non era mai arrivato. ( ‘Ora vedono che sono ammalata’)
4 Riesce ad agganciarsi ad un discorso medico, molto articolato, fatto di visite e ricoveri. Insomma l’Altro le riconosce lo status di ‘malata’ e le da un posto . Ecco allora che la patologia rettale, più che l’anoressia, le permette di reperire un significante col quale riesce ‘a farsi rappresentare e organizzare il ( suo)  mondo”. Possiamo   parlare di un elemento che funge da tenuta. Dunque non una produzione dell’inconscio, quanto piuttosto un elemento inanalizzabile. Nella prospettiva psicoanalitica lacaniana il sinthomo è un “elemento riparatore(..),una guarigione, un elemento terapeutico” . Qualcosa che “non è da interpretare, ma è da ridurre, e non è da guarire, ma si presenta perché se ne faccia uso”
 Un ponte che garantisce il contatto e la via di fuga, che per definizione, non può essere ‘guaribile’. Questo mi ha fatto riflettere sul furor sanandidi molti medici.  A cosa sarebbe andata incontro se  avesse accettato la proposta di ripristinare le sue pareti rettali strappandole di colpo un sintomo così elaborato? Avrebbe aperto le porte ad uno sfaldamento del soggetto?  Non a caso lei ha detto no all’intervento.
 

  • [1]Thomas J., Vartanian L., Brownell K., The relationship between eating disorder not otherwise specified (EDNOS) and officially recognized eating disorders: Meta-analysis and implications for DSM, Psychol Bull, 135:407-433, 2009;
[2]Sigmund Freud, Psicologia delle masse e analisi dell’Io,   inOpere,  a c. di C. Musatti, Boringhieri,   
   Torino 1980, vol. IX. 306.
 
[3]Maurizio Montanari. ‘Il posto del panico, il tempo dell’ngoscia’. Edizioni Del cerro, Italia 2012.
Edizioni Flamingo ( Bellinzona) 2019
[4]I dati anagrafici, lavorativi e geografici dei casi descritti, sono modificati in modo da rendere non riconoscibili i pazienti. Ne resta immutato il canovaccio di vita. 
 

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