“Là successe quello che doveva succedere…”
Questa è la storia clinica, tragica e umana, di un’esistenza, quella di Gerolamo Rizzo, trascorsa un secolo fa, in una Italia diversa, in un mondo, quello occidentale, che si avviava al crollo della belle époque, per entrare, attraverso il lavacro di sangue di due conflitti mondiali e di milioni di morti, nella complessa post-modernità che stiamo vivendo.
Dunque questa è, in definitiva, una piccola storia individuale che, in sé, sembrerebbe essere una piuma di fronte alla montagna della grande storia. Questa, però, è anche la storia, in piccolo, di una branca della medicina e del sapere che è la psichiatria, la quale, mutatis mutandis, un secolo dopo questa storia, ancora si muove tra oggetti concettuali e destini umani largamente imprevedibili, proprio come è stato il destino di Gerolamo. Una storia scritta, questa volta, in prima persona, non già da uno storico, ma da un protagonista della psichiatria per eccellenza, ovvero da un paziente. Ovvero da uno che della Psichiatria ha provato, sulla propria pelle, fino alla morte, le descrizioni di superficie, le ricadute applicative e i fallimenti.
Nel mutamento drastico, in Italia, della cornice assistenziale psichiatrica, caratterizzato dall’abolizione totale dei manicomi (anche di quelli giudiziari) come luoghi di custodia e dall’utilizzo di farmaci in grado di controllare i sintomi maggiori delle psicosi, l’essenza della cosiddetta “malattia mentale” ancora sfugge, e il livello di descrizione superficiale di certi fenomeni clinici, oggi, non si discosta molto da quello dei secchi raccordi anamnestici riportati in calce a questo racconto. Quello che, invece, questa storia riporta alla luce, con una freschezza inalterata, è la narrazione (concatenata e dall’interno) dell’esperienza di una follia subdola, esplosiva e progressivamente ed inevitabilmente ingrediente, che travolge completamente un’esistenza, facendola sparire dal contesto sociale, nel gorgo di un manicomio nel quale essa stessa troverà, quasi per una nemesi, la stessa morte che ha inferto ad una vittima innocente e casuale, questa volta per mano di un altro folle.
LA DOPPIA MORTE DI GEROLAMO RIZZO, dunque, è costituita, come recita dal titolo, dalla prima morte, quella che egli provoca, con l’omicidio di un sacerdote incontrato per caso, e dalla seconda morte, quella che egli subisce, ad opera di un altro matto incontrato per caso, un giorno, dentro una latrina, al riparo dagli occhi che avrebbero dovuto vigilare su di loro[1].
La subitaneità e l’imprevedibilità della prima morte, coagulate in una rivoltella che spunta in una mano e fa fuoco sul primo prete capitato a tiro, ritorna come destino nella tempesta di calci che rompe, in un istante, la monotona catalessi di un paziente giudicato, con i severi criteri di allora, un tranquillo residuale.
In mezzo a queste due morti, quella data e quella subita, c’è l’esistenza clinica e umana di Gerolamo, un uomo disperatamente solo, protagonista di una vita rotta da un dramma che non viene intercettato da nessuno, per la quale sembra che nessuno possa fare nulla, neanche proteggerla dopo che è stata esclusa dal mondo.
La storia di Gerolamo è quella rinvenuta, per caso, spulciando i faldoni dell’ex Ospedale Psichiatrico di Cogoleto, dove erano raccolte tutte le cartelle cliniche, anche quelle, come queste, provenienti dal Manicomio di Genova Quarto. Dunque a disonore della Psichiatria, non si tratta di una storia evinta dai resoconti anamnestici, che poco dicono, ma di una storia scritta dal paziente medesimo, dunque di una storia vissuta, dotata, proprio per questo, di una salienza psicopatologica incommensurabile.
Le cartelle cliniche e, attraverso di esse, le vite di migliaia di pazienti, abitavano[2] grandi scaffali, in faldoni polverosi suddivisi per anno, in tre ampi stanzoni al primo piano di un edificio isolato nel grande comprensorio dell’Ospedale Psichiatrico di Cogoleto. In lontananza, attraverso le grandi finestre si vede il mare (l’OPP si trova su una collina, a poche centinaia di metri in linea d’aria dalla costa, completamente occupata dagli edifici organizzati a villaggio e collegati tra loro da ampi viali, un luogo bellissimo nella sua tragicità), al piano terra si trova la camera mortuaria, a chiusura del cerchio di tante esistenze spezzate, raccontate con molti documenti burocratici e pochissime note, in diari clinici vergati a penna. La storia di Gerolamo è una rara eccezione, accanto alle poche note dei “curanti”, un testo che compare per caso, come un memoriale lasciato lì, chissà se mai letto, chissà se mai studiato, chissà se mai usato in termini clinici. Ma verosimilmente no. In fondo, cosa potevano contare le ragioni “deliranti” di un internato, in quell’agenzia di sparizione di massa che è stato il “grande internamento” di foucaultiana memoria.
Gerolamo è un giovane uomo di circa trent’anni, insegnante, con discreta cultura, dal carattere ombroso e solitario, quando, una notte, subisce l’irruzione allucinatoria che non lo lascerà più e che si insinuerà nella sua vita dirigendone tragicamente i passi verso il baratro finale, non senza prima portarlo, purtroppo, a travolgere un’altra esistenza innocente. La descrizione che fa Gerolamo della sua vicenda è insieme straordinaria e iperreale.
Una lucida discesa agli inferi, un mondo esterno che svapora inesorabilmente fino al suo epilogo tragico. La narrazione è appena retrospettiva, ma non fredda. Con parole essenziali, dettate dalla sofferenza, senza fronzoli retorici, egli riesce a fotografare meglio di qualunque scala di valutazione o trattato di psicopatologia i gradini della sua esperienza, fino all’inferno.
Il tragitto psicopatologico più plausibile, desumibile sulla base di una lettura fenomenologica dell’esperienza narrata, è quello che Gerolamo avesse una personalità vulnerabile di base sensitivo-paranoide, alla Kretschmer, che fa quindi uno scompenso paranoicale persecutorio la cui frangia si allarga, si dilata e si approfondisce fino ad una demolizione pressochè completa dell’esame di realtà.
Il mondo persecutorio di Gerolamo non arriva mai alla fredda sistematizzazione, e per questo il suo delirio rimane caldo, evolutivo, fino a compromettere totalmente il senso comune. L’approdo clinico di Gerolamo è, verosimilmente, quello di una schizofrenia paranoide con una relativa conservazione di una parte critica, per quanto sottile, di uno spettatore narrante, che affida la verità incredibile della propria catastrofe esistenziale ad un racconto infilato in una cartella clinica, nella speranza ultima che un giorno, qualcuno, leggendo, possa restaurare la verità.
Cosa che accade puntualmente, circa un secolo dopo, quando Francesco Bollorino, durante le sue ricerche da topo di manicomio, si imbatte nel manoscritto, e con un lavoro indiziario[3], incrocia le storie dell’omicida a sua volta giustiziato e del suo giustiziere.
L’altro aspetto, per gli psichiatri cruciale, da una prospettiva scientifica, è la documentazione minuziosa di una evolutività clinica “naturale” della patologia, non interferita da cure.
Questo riapre l’annosa questione della cronicizzazione della malattia e della crucialità di trattare bene l’esordio, rispetto alla possibilità di modificare il decorso e, soprattutto, nel caso dei deliri persecutori, di prevenire agiti catastrofici.
Rimangono, certo, la tristezza e il senso di impotenza rispetto a Gerolamo, un essere umano come noi che, progressivamente, rapito da forze esterne, aliene, incomprensibili, si allontana dal consesso comune fino ad uccidere e poi morire a sua volta. Questo è quello che ancora può accadere. Questo è quello che noi non dovremmo consentire.
Da questo punto di vista, raccogliere lo stremato richiamo di incontro di Gerolamo, una voce che, come il diario di Anna Frank, ha superato la glaciale siderazione del tempo concentrazionario, forse ci consente, oggi, di guardare diversamente a tutte quelle situazioni, solo apparentemente dissimili, che incontriamo nel nostro quotidiano.
L’assurdo della vicenda di Gerolamo, al di là della morte data e della morte ricevuta, sta proprio in quella lunga frangia silenziosa e iniziale di deflagrazione, quando la follia prende piede tra le pieghe della normalità e quando, nonostante la richiesta di aiuto, nessuno riesce a fare nulla, al di là delle minacce, dell’indifferenza, o del blando sostegno morale.
L’idea di dotare l’asciutto, ma ricco di rimandi, racconto di Gerolamo di una base di note dei curatori, di carattere psicopatologico-critico, e di un’appendice corredata da tre saggi connotati da approcci scientifici diversificati, ha il senso di aiutare il lettore, di qualunque provenienza culturale egli sia, a soffermarsi su dei punti cruciali, ad apprezzare certe sfumature che sensibilmente modificano l’esistenza di Gerolamo, facendole prendere la piega inevitabile del suo destino. Una sorta di meta narrazione, o di una narrazione a cotè, quella nostra, volta a mettere in rilievo i punti cruciali del racconto, che mantiene, per altro la sua forza e la sua dignità anche letteraria di per sé.
E’ anche, il nostro, un modo per chiedere idealmente, come psichiatri, perdono. Perdono non aver capito, per non aver compreso, per esserci limitati a fare il rogito notarile di una storia clinica che parte da un’esecuzione e culmina con un’esecuzione. E tra le due esecuzioni nulla, tranne la reclusione.
L’ultima notazione concerne la verità dell’impianto psicopatologico : Gerolamo, digiuno di psicopatologia, racconta la sequenza della sua morte in termini drasticamente sovrapponibili a quelli codificati dalla psicopatologia nella fattispecie fenomenologica e psicoanalitica.
Per noi psichiatri di una certa curvatura culturale questa documentazione diaristica rappresenta, dunque, una validazione in parallelo dell’impianto concettuale, descrittivo ed ermeneutico della psicopatologia fenomenologica e psicoanalitica. Ovvero sentiamo che un corpus dottrinario stratificatosi storicamente ed un paziente hanno usato lo stesso linguaggio. E questa è l’unica validazione che ha un senso, poiché fatta da chi ha tragicamente, e fino in fondo, vissuto certe esperienze.
Per noi clinici e psicopatologi è questa la verità migliore possibile sulla follia, ovvero sentire di aver codificato un linguaggio che, a volte, ci consente di comprendere una richiesta di aiuto, a volte di formulare una proposta di aiuto, rompendo in questo modo la parete dell’incomunicabilità che si instaura fatalmente tra chi rimane è “al di qua” e chi, invece, tracima “al di là” del cosiddetto senso comune.
L’idea i pubblicare questo scritto, ad ogni modo, va oltre l’interesse scientifico, e il destinatario non è solo tra gli psichiatri e gli psicologi. Questo messaggio nella bottiglia, che ha superato l’oceano della storia, che ha superato il Novecento, va al suo destinatario originale : la gente qualunque, l’uomo comune.
Gerolamo, ormai tradito da tutti, si appella all’universo mondo, consegna la sua inevasa richiesta di giustizia e il proclama della sua innocenza originaria ad una lettera diretta all’umanità.
Poiché tutto è perduto, Gerolamo vorrebbe salvare una certa idea di giustizia, che si inabissa, in un modo o in un altro, ogni volta che un innocente soccombe.
Egli è un innocente, benché omicida, poichè costretto ad attuare una soluzione delittuosa per volere di forze che lo hanno dominato senza quartiere, togliendogli ogni serenità.
E noi vogliamo essere, alla fine, solo il tramite, che la storia ha interrotto e che la storia ripristina, tra la vicenda umana di Gerolamo e il resto dell’umanità.
[1] Volendo potremmo anche immaginare un terza morte: quella civile rappresentata dall’internamento a vita in Manicomio, un luogo in cui l’”èlan vital” rimbalza, con sempre minor forza fino a spegnersi, contro un alto muro di cinta che circonda l’anima più che il corpo dei ricoverati
[2] Oggi l’Archivio delle cartelle cliniche degli exOPP della Provincia di Genova si trova in un fondo dell’Ospedale Psichiatrico di Genova Quarto
[3] Per prima è stata trovata la Cartella di Gerolamo Rizzo che ha subito attratto l’attenzione per la presenza del memoire e per la “storia” che raccontava fino alla sua tragica conclusione. Il problema era trovare la seconda cartella sepolta tra migliaia di altre cartelle impolverate e mai aperte da decenni. Non è stato facile poiché la cartella di Francesco Melnati non era nello stesso faldone di quella di Gerolamo, ma alla fine è saltata fuori, e ci ha permesso di ricostruire compiutamente la storia per poterla poi proporre ai lettori.
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