Recensione di "Essere nella cura"
Giacomo Di Marco è uno psichiatra, psicoterapeuta di formazione psicoanalitica. È stato Direttore del Dipartimento Psichiatria della Provincia Autonoma di Trento, docente presso il Corso di laurea in Tecnico della riabilitazione psichiatrica dell’Università di Verona, è docente presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia della C.O.I.R.A.G. (Confederazione di Organizzazioni Italiane per la Ricerca Analitica sui Gruppi). Svolge attività di formazione e consulenza presso équipes psichiatriche e comunità terapeutiche.
Fra i suoi libri:
- La funzione terapeutica. Esperienze in campo istituzionale, ed. UPSEL, 1991
- A che punto è la psichiatria? ed. UPSEL, 1994
- Esercizi di psichiatria italiana. Prassi e tecniche del lavoro istituzionale, Castelvecchi, 1997
- La clinica istituzionale in Italia, origini, fondamenti, sviluppi, con Flavio Nosè, Franco Angeli, Milano, 2010
Isabella Schiappadori, psicologa, psicoterapeuta di formazione psicoanalitica, socio fondatore del
C. I. S. P.P. ( Centro Internazionale di Studi Psicodinamici della Personalità) fondato dal prof. S. Resnik, ha esperienza di lavoro in Istituzione Psichiatrica. Tra il 2013 e il 2018 è stata docente di Psicoterapia Psicoanalitica Individuale presso la scuola di Specializzazione C. O. I. R. A. G. di Padova.
Fra i suoi libri:
- Rêverie e trasformazioni tra madre a bambino. Esperienze di osservazione in famiglia e in ambiente ospedaliero e riabilitativo, con Sandra Perobelli e Lucilla Rebecca, Franco Angeli, Milano, 2017.
- Esseri passati. Tracce di vita di ricoverati nel manicomio di Mantova nell’Ottocento (a cura), Ombre Corte, Verona, 2019.
Giacomo Di Marco e Isabella Schiappadori appartengono alle generazioni di operatori dell’assistenza psichiatrica pubblica italiana che, a partire dagli anni ’60 e ’70 del secolo scorso hanno lavorato per la chiusura dei manicomi e la costruzione di organizzazioni e opportunità di cure su base territoriale/comunitaria. Si è trattato di un lavoro condotto da molte persone, un impegno duro, faticoso perché si partiva dalle pratiche e dalle culture degli asili psichiatrici, che comunque intanto continuavano a funzionare, e si doveva contemporaneamente imparare a cambiare stili, luoghi, finalità del lavoro di cura, imparare a lavorare non più da soli, ma in un gruppo multi professionale (medico psichiatra, psicologo, assistente sociale, infermieri) che alla fine andava a comprendere anche il paziente, la sua famiglia, le sue relazioni sociali.
Che cosa bisognava imparare, sapere e saper fare per riuscire a non far danni, a fare un tale lavoro bene, insieme? Dove si poteva imparare? Chi erano i maestri? Quello che ci avevano insegnato, e per lo più si continuava ad insegnare nei Corsi di laurea, nelle Scuole di Specializzazione in “Clinica delle malattie Nervose e mentali”, poi “Psichiatria”, non era molto utile allo scopo.
I più significativi riferimenti scientifici, dottrinali, culturali, esperienziali, organizzativi furono:
- Le esperienze di Comunità Terapeutica e l’elaborazione di Franco Basaglia e Agostino Pirella a Gorizia negli anni ’60, con la pubblicazione de L’istituzione negata, a Trieste ed Arezzo poi
- L’esperienza e la elaborazione del “settore psichiatrico” di Edoardo Balduzzi e del gruppo attorno a lui di giovani psichiatri del Manicomio di Varese che poi scelse di dedicarsi alla formazione aprendo in via Ariosto, a Milano, un centro da cui transitarono centinaia e centinaia di operatori della psichiatria pubblica italiana.
- Pier Francesco Galli e il gruppo di Milano- fondamentale fu l’8° Congresso internazionale di psicoterapia che si tenne a Milano nell’Agosto 1970 sul tema La psicoterapia di fronte alle scienze umane. Gli Atti furono pubblicati da Feltrinelli nel 1973.
- Le esperienze di “Psichiatria di Comunità” a forte radicamento territoriale a Perugia, Reggio Emilia.
In quegli anni, irruppero nell’editoria italiana la letteratura sociologica (Goffmann), quella della psichiatria di comunità soprattutto anglo-sassoni, la letteratura psicoanalitica di fonte anglo-sassone e francese fino ad allora ignorata dalla psichiatria e dalla psicologia accademiche italiane, gli apprendimenti individuali e di gruppo presso le numerose, varie Scuole psicoanalitiche e Psicoterapiche.
A tali molte anime del movimento riformatore, accomunate dalla critica dei modelli medici a base organicista, vanno aggiunte le sollecitazioni della politica nazionale e locale a partire dal convegno dell’Istituto Gramsci Psicologia, psichiatria e rapporti di potere del 1969, e la partecipazione all’impegno nella costruzione del Servizio sanitario nazionale.
Fra i nodi rimasti da allora aperti e non risolti, di cui Essere nella cura si occupa, mi pare che il più importante sia quella della “formazione” di base e permanente degli operatori: luoghi, titolari, metodi, contenuti, finalità.
Nel corso del Congresso di Milano La psicoterapia di fronte alle scienze umane del 1970, nella sessione dedicata a Psicoterapia e mutamenti nelle istituzioni psichiatriche, intervenne il “Centro Studi di psicoterapia, psicopedagogia e metodologia istituzionale” (ossia il gruppo di via Ariosto) che attaccò l’esperienza goriziana di Basaglia affermando che “ la nuova ideologia ripropone una nuova distanza fra l’operatore sociale e la realtà cattiva in cui agisce. […] Resta sempre un qualcosa di cattivo da distruggere, qualcosa di malato, qualcosa di diverso da noi, un sistema retto da una ideologia contro la quale se ne vuole imporre una “buona” magari, ma pur sempre usata nell’ambito di una dinamica di potere”[1]. Nella replica il gruppo di Gorizia ribadì il valore della negazione istituzionale e affermò che “l’etichettamento psichiatrico o psicodinamico copre la realtà con l’ideologia tecnica specifica che fornisce l’alibi a tale copertura. Il dibattito aperto sui vissuti, la dialettica tra i vissuti stessi e la realtà istituzionale-sociale e lo svelamento della copertura ideologica di esse, sono gli elementi fondamentali cui il nostro lavoro cerca di mantenersi fedele. Non è fedeltà a una nuova ideologia, ma la continuazione dell’impegno pratico contro l’oppressione e contro l’inganno che cerca di spacciarla per onesta tutela”.[2]
Essere nella cura si colloca dentro questa pluridecennale discussione cui apporta contributi, testimonianze di esperienze di formazione/supervisione/manutenzione di professionisti e gruppi di lavoro multidisciplinari. Essere nella cura conduce una critica severa allo stato attuale dei servizi di assistenza psichiatrica pubblica e, in polemica con i sostenitori dell’approccio “salute mentale”, afferma, con forza, la liceità e la necessità di perseguire finalità di cura, proprio perché le malattie mentali esistono, e propone una “clinica dei legami”.
Per dare un riferimento, ricordo che con la legge 180 del 1978, i servizi che si proponevano di “fare a meno” del manicomio, assunsero il nome di Dipartimenti di salute mentale”. Cosa ha significato tale scelta, forse il mettere da una parte, in un angolo, le finalità della cura (“prendersi cura” invece che “curare”), per passare da relazioni di cura a “relazioni di aiuto”?
La mia opinione, al riguardo, è che la parola-chiave del lavoro per la salute mentale, quella che definisce i modi delle relazioni fra curanti, utenti, famiglie è “accompagnamento” di cui cito la definizione che ne ha dato Domenico Castronovo :
“E’ importante un gesto semplice per accompagnare nella quotidianità chi chiede e accetta di essere aiutato per riprendere in mano la propria vita. Accompagnare non è controllare, è mettersi a fianco, condividere la fatica; non è precedere e neanche seguire e neanche prendere in carico. È rimpiazzare il controllo con la presenza, la vigilanza con la cura, la sicurezza con la rassicurazione. È sostenere l’altro a sentirsi sempre più capace a condurre la propria vita. La salute mentale è un bene della comunità. In cammino”. (2018)
Come detto, l’opzione, la proposta degli AA sono nettamente per la “cura”, perché gli operatori tutti imparino, siano aiutati, si aiutino fra di loro a usare il proprio valore terapeutico sia naturale, sia prodotto dall’esperienza” (p. 149). E qui risultano fondamentali:
il “mettersi nei panni” della persona sofferente mentale, gestendo la distanza;
che nessuno sia lasciato da solo nella gestione dei successi e degli insuccessi;
i momenti strutturali di riflessione,
la supervisione esterna;
l’attenzione al logoramento, allo stress, anche rispetto alle vicende della vita personale di ciascuno dei protagonisti.
Insomma, il singolo operatore deve poter contare su spazi di riflessione da dedicare a se stesso, con l’aiuto di chi può ascoltarlo e saper indirizzare le sue energie psichiche provate dalla vita e dal lavoro verso aspettative più proporzionate rispetto alla fase critica che sta attraversando (p. 153). Questo perché “il mestiere dell’operatore è un mestiere difficile” che si svolge dentro un contesto istituzionale che bisogna conoscere e di cui bisogna tener conto.
Per tutte queste ragioni insieme al ritorno alla clinica, una vera “clinica istituzionale”, è “necessario avere cura dei sistemi di cura” (p. 155) per “saper essere nella cura”, vale a dire sentirsi in grado di funzionare terapeuticamente, per offrire relazione, per una ricerca di senso della sofferenza mentale, opportunità di integrazione.
In Appendice, a esemplificare finalità, metodi e contenuti di un buon “lavoro di cura” è proposto un documento degli operatori della Comunità “Il roveto” di Montecchio Maggiore a conclusione dell’esperienza di formazione condotta con Giacomo Di Marco: vi si parla e discute di Istituzione, Comunità, Terapeutica, Tempo, Cosa ci si attende dal proprio lavoro rispetto ai singoli pazienti, Strategie per i cambiamenti di comportamento, Strategie per prevenire la sofferenza, Flessibilità, Strategie nei momenti di crisi, nei rapporti famigliari e nei rapporti con il corpo.
Nel suo ultimo libro Il fiume della vita, Eugenio Borgna, straordinario, sapiente psichiatra oggi novantenne che ha attraversato da protagonista generoso e inquieto la psichiatria italiana, denuncia la “fragile e precaria formazione emozionale e culturale degli psichiatri. Senza di essa, senza passione della speranza e senza entusiasmo, senza autentiche attitudini alla immedesimazione e all’ascolto del linguaggio delle parole, degli sguardi e dei volti, non si fa una psichiatria come quella immaginata da Basaglia”[3]. L’empatia, il dialogo: i pazienti non sono casi, ma volti, nomi, parole.