L’infinito è un concetto più epistemico che ontologico; perciò, avendo poca esistenza, stenta a entrare nella cultura generale, in particolare in quella filosofica, che preferisce concetti più solidi da porre a fondamento della metafisica. Dalla psicanalisi sappiamo, infatti, che la volontà d’ignoranza è più forte della volontà di potenza. Quindi d’infinito si parla con timore e tremore. In questo testo intendo segnalare una via di accesso, che ritengo relativamente poco ardua, alla nozione non concettuale d’infinito. En passant mostrerò la vicinanza della nozione d’infinito alla lacaniana di reale, dal maestro parigino inteso come “ciò che non cessa di non scriversi”. Userò come anello di congiunzione tra infinito e reale la nozione di simmetria, declinata in operazioni di scrittura fondamentalmente algebrica. Risulterà che la simmetria è un modo di trattare la diversità, scrivendo in modo diverso cose uguali o in modo uguale cose diverse. Costeggiando la contraddizione, sfido Hegel fuori casa, in campo non filosofico, ma – absit iniuria – meccanicistico.
La nozione di simmetria è molto generale; include fenomeni astratti e concreti. È astratta la simmetria tra numeri positivi e negativi rispetto allo zero, che così resta determinato in modo univoco: non esistono due zeri o il doppio zero. È concreta la simmetria tra lato destro e lato sinistro del corpo umano, a sua volta simmetrizzata nell’immagine speculare, che il soggetto umano esperimenta nello stadio dello specchio, quando si riconosce e si aliena nella Gestalt invertita di sé. È astratta e al tempo stesso concreta la simmetria onda-particella in meccanica quantistica: è astratta nell’evoluzione dell’onda con una certa fase; è concreta come proprietà della particella, per esempio spin su o giù, che non esiste prima della misura. Non stupisce, perciò, che sin dai tempi di Galilei le simmetrie ricorrano in molte “sensate esperienze e dimostrazioni necessarie” del discorso scientifico, senza per altro pretendere di fondarlo.
E in psicanalisi? Andiamo piano. In psicanalisi, prima di accertare simmetrie scientifiche, bisogna ancora far posto a nozioni galileiane di base. Freud ignorava Galilei; non aveva le opere del Pisano in biblioteca; non sapeva usare i suoi strumenti, a cominciare dalla nozione di variabile. Era imbarazzato con le variabili qualitative, a cominciare dalle binarie, capostipite la bisessualità; sulle variabili quantitative, le cosiddette grandezze, aveva idee confuse, tanto da parlare di libido – l’energia psichica – come quantità senza unità di misura, meritando le critiche beffarde di Bleuler. Forse intendeva che la libido fosse una variabile ordinale, cioè una successione di posti da occupare (Besetzungen) uno dopo l’altro: primo, secondo, terzo, ecc. come orale, anale, fallico. Seguo tale ipotesi accostandomi all’algebra delle permutazioni di n elementi in n posti.
Cominciamo dall’algebra
Nell’antica Grecia la matematica fu sistematizzata e formalizzata in sistema ipotetico-deduttivo come geometria da Euclide negli Elementi (circa 250 a.C.). I Greci classici non conoscevano l’algebra, non per volontà di ignoranza ma per mancanza di strumenti teorici convenienti, a iniziare dalla nozione di variabile; il vocabolo per il sostantivo “variabile” mancava alla loro lingua. Facevano matematica disegnando figure e studiando le loro simmetrie spaziali, ma senza tematizzarle come tali. L’eccezione tardiva fu Diofanto, che tra il III e il IV secolo d.C. introdusse nelle equazioni la scrittura delle variabili: la lettera sigma per i termini lineari, la sillaba du per i quadratici. L’algebra sincopata di Diofanto, a metà strada tra l’algebra parlata e la simbolica, inaugura l’algebra come arte di ridurre e risolvere equazioni grazie a manipolazioni di scrittura – così la considerava ancora Gauss 15 secoli dopo. Diofanto impose una restrizione non da poco: le soluzioni delle sue equazioni dovevano essere o numeri interi o razionali, escluso lo zero e i numeri negativi, gli unici che Diofanto supponeva noti. C’è sempre un’incerta supposizione di sapere all’origine di ogni percorso scientifico, come in psicanalisi con il transfert.
La matematica moderna – esempio paradigmatico è la teoria dei numeri di Pierre de Fermat, che si dedicò a rilanciare Diofanto – cessa di dedicarsi alla descrizione di figure e comincia a scrivere formule; le formule, tuttora esorcizzate da un umanesimo deteriore, sono luoghi simbolici dove le simmetrie di scrittura si realizzano. Nella modernità prende corpo un’istanza della lettera diversa dall’antica; le lettere perdono valore fonetico e acquistano valore simbolico di variabili; come tali possono essere trasformate le une nelle altre con regole puramente sintattiche, come sono le regole grammaticali di una lingua parlata. Nasce così l’algebra. Solo che la lingua dell’algebra non si parla; si scrive ma non si legge in modo fonetico, essendo ideografica; resta muta; l’algebra non è un romanzo. Diofanto avviò solo l’inizio di un processo innaturale. Si capisce perché i suoi libri caddero presto nel lungo letargo matematico delle civiltà romana e cristiana, dominate dal diritto e dalla teologia. Fu solo con l’importazione in Europa, ottocento anni dopo Diofanto, della scrittura ideografica delle cifre indo-arabe per merito di Leonardo Pisano, detto Fibonacci, che lo spirito dell’algebra poté prender corpo. La scrittura passò da attrezzo della narrazione storica e romanzesca a strumento per indagare tra le pieghe del sapere matematico. Cambiava il rapporto alla verità: non solo verità storica o diacronica, ma strutturale o sincronica.
Dovrei parlare dei fasti dell’algebra rinascimentale, soprattutto italiana, che portò a risolvere le equazioni di terzo e quarto grado, oltre ad aver inventato il nome dell’arte algebrica, Cossicao l’arte di trovare laCosa, cioè l’incognita. Non faccio un discorso tecnico perché mi preme parlare di una seconda successiva transizione algebrica: il passaggio dall’arte di risolvere le singole equazioni all’analisi dei campi di esistenza delle loro radici, perché è lì che abitano le simmetrie. Fu un matematico italiano del XVI secolo a inaugurare questa transizione, Rafael Bombelli, che intravide nel campo dei numeri complessi il luogo proprio dell’esistenza delle radici delle equazioni. Ma fu solo nel XIX secolo che il ventunenne genio di Evariste Galois, prematuramente scomparso, trasformò l’algebra da arte di risolvere equazioni a scienza universale.
E fu proprio grazie alla nozione di simmetria che si trovarono le premesse della transizione, diciamo, dall’analisi del caso individuale – la soluzione della singola equazione – al caso generale – lo studio del corpo delle equazioni risolubili in un certo modo, un passaggio dal locale al globale. Insomma, adottare il punto di vista algebrico fu una generalizzazione della Cosa, che tracciò la via di non ritorno dalla scienza antica – l’aristotelico scire per causas per comprendere (verstehen) il singolo fenomeno storico – alla scienza moderna, che formula modelli per spiegare (erklären) classi di fenomeni diversi e indipendenti: dalle pinne delle balene al bipedismo del genere Homo.
L’osservazione di partenza, apparentemente banale ma molto profonda – l’ovvio non è mai banale, diceva von Neumann – fu che la n-pla delle radici di un’equazione algebrica di grado n-esimo, rimane ancora una n-pla di soluzioni comunque si cambi il loro ordine. È come ruotare un quadrato intorno al suo centro o ribaltarlo attorno a un suo asse di simmetria; rimane sempre lo stesso quadrato: i vertici ci sono ancora tutti, ma cadono in posti diversi rispetto alla partenza. Risultato banale, forse, ma così profondo che i classici, avendo una nozione antropomorfa di moto, con una causa efficiente, il motore, e una causa finale, il luogo di arrivo, non arrivarono a isolare il semplice fenomeno della simmetria. Per Euclide summetros significava dotato di unità di misura, cioè grandezza razionale. Per Aristotele il moto simmetrico del pendolo non esisteva neppure. Non lo trattò negli otto libri della Fisica, mentre Galilei inaugurò la sua dinamica proprio registrando soggettivamente l’isocronia delle oscillazioni del pendolo attraverso le pulsazioni del polso; Galilei rilevò una simmetria tra energia cinetica e potenziale: dove una cresce l’altra diminuisce e viceversa. Lo ricordo a chi sostiene che la scienza fuorclude il soggetto. La scienza non fuorclude il soggetto ma l’antropomorfismo.
Grazie a Galilei, che sul moto aveva le idee chiare, meccaniche e non antropomorfe, siamo arrivati alla vera nozione di simmetria per trattare le diversità in termini di uguaglianza. I movimenti di trasformazione del quadrato sono simmetrie che conservano la forma del quadrato: gli stessi quattro lati, gli stessi quattro angoli retti in posizioni diverse. Con la permutazione delle radici è lo stesso: rimangono radici anche se cambiano di posto, sostituendo le une alle altre, scritte (ecco la scrittura!) in un altro ordine. Il gruppo delle permutazioni di ordine n si chiama giustamente gruppo di simmetria, un concetto di cui mi occuperò d’ora in avanti in modo non troppo rigoroso.
La nozione di simmetria unifica geometria e algebra; permette di trattare la geometria in modo algebrico, cioè attraverso la scrittura, esattamente come fecero Viète e Cartesio. La nuova Sacra Scrittura, per cui l’Inquisizione processò e condannò Galilei, è algebrica; descrive la forma scrivendo la formula; l’etimologia dice la radice comune. r4= I è la formula di struttura della forma quadrata; significa che, dopo quattro rotazioni di novanta gradi r attorno al centro, il quadrato torna alla posizione di partenza, cioè l’identità I. Con l’algebra l’oggetto non è più esterno all’elucubrazione matematica come forma ideale: il triangolo, il quadrato ecc. ma è interno alla stessa scrittura, anzi, è la scrittura stessa. La scrittura è il luogo dell’immanenza delle strutture matematiche, che non abitano l’Iperuranio, come vorrebbe un certo realismo platonico. Si fa matematica come si fa poesia, scrivendo. Purtroppo il termine stesso di formula, come quello per indicare la variabile, mancava al vocabolario greco antico. In latino si trova solo la “formula magica” o carmen.
E ora quattro passi – non di più – nell’algebra, senza affrontare le odiate formule, che fanno dire che la matematica è rigida e arida, “senz’anima”. Alla scienza si resiste da sempre, non si dimentichi. Qualsiasi intruglio storico-fenomenologico-dialettico, per non dire romanzesco, va bene pur di evitare teoremi. La resistenza al sapere accomuna la psicanalisi alla scienza.
Cos’è una struttura algebrica? È un insieme di enti matematici – numeri, ma non solo: matrici, trasformazioni, traslocazioni, ribaltamenti o altre simmetrie, non importa di quale natura – dotato nel caso più semplice di un’operazione binaria di composizione; per ogni coppia di elementi dell’insieme l’operazione algebrica di composizione determina univocamente un elemento dello stesso insieme; nel caso dei numeri la composizione è realizzata dalla somma o dalla moltiplicazione, che producono numeri ben determinati, ma ripeto: non si tratta in generale solo di numeri. L’algebra generalizza il carattere dell’operazione; la composizione è una semplice “associazione”, che prescinde dalla natura dei singoli elementi su cui opera. Si può dire che l’algebra sia innaturale; perciò fomenta le resistenze alla scienza. Per il senso comune la “scienza naturale” è la storia – una volta la biologia era detta storia naturale, cioè storia, essenzialmente classificatoria, dei singoli vegetali o animali.
Chiaro? Diventerà più chiaro, precisando le restrizioni cui devono sottostare le operazioni algebriche, a prescindere dalla natura degli operandi.
Il vincolo più ovvio è la chiusura. L’operazione sugli elementi della struttura algebrica non fa uscire dalla struttura. 1+1 fa 2; 2 è un numero come 1.
Meno ovvia è la richiesta di associatività: (ab)c deve esser uguale a a(bc), cioè si deve poter scrivere abc senza parentesi, essendo indifferente eseguire per prima la prima operazione o la seconda. (Esistono algebre non associative). Le strutture chiuse e associative si chiamano semi-monoidi.
Si produce una struttura algebrica elementare, detta monoide, imponendo l’esistenza della simmetria unitaria che, applicata agli elementi della struttura, li lascia come prima. Moltiplicare un numero per 1 o sommarvi 0 non lo cambia. La filosofia delle simmetrie sembra regolata dal motto eracliteo in versione gattopardesca: “Bisogna che tutto cambi, perché nulla cambi e tutto resti come prima”. L’insieme dei numeri interi relativi è un monoide rispetto alla somma.
La richiesta più esigente, aitema direbbe Euclide, trasforma il monoide in un gruppo; riguarda direttamente la natura della simmetria, stabilendo che per ogni simmetria esista l’inversa, cioè la simmetria che riporta le cose a come stavano prima. Le simmetrie, inoltre, sono simmetriche rispetto alla simmetria neutra, l’unità, che lascia le cose come stanno; l’unità è autosimmetrica, coincidendo con la propria inversa. Nel caso additivo la trasformazione inversa dell’aggiunta di aè la sottrazione di a. Aggiungere –a dopo aver aggiunto +a è come aggiungere o togliere niente, lo zero. Aggiungere è un’operazione reversibile rispetto a togliere: l’insieme dei numeri interi relativi (cioè con segno) è un gruppo di simmetria o di reversibilità rispetto alla somma.
In generale a un gruppo di simmetrie non si richiede che l’operazione per comporle sia commutativa. I gruppi in cui vale ab = ba si dicono commutativi. Per la possibilità di formalizzare la nozione di ripetizione, potrebbero avere interesse per la psicanalisi i cosiddetti gruppi ciclici, i cui elementi sono generati come potenze successive di un ben preciso elemento detto generatore. Per formalizzare la propria teoria dei quattro discorsi (padrone, università, isteria, analista), Lacan usò il gruppo ciclico di ordine 4 del quadrato. Tutti i gruppi ciclici sono commutativi.
Siamo arrivati al punto. I quattro assiomi: chiusura, associatività, esistenza dell’unità, esistenza degli inversi, vanno bene per qualunque gruppo, finito o infinito. Ma, se il gruppo è finito, bastano solo tre assiomi: chiusura, associatività e cancellazione. La legge di cancellazione a destra permette di trascrivere l’equazione ax = bx in a= b; la simmetrica legge di cancellazione a sinistra permette di trascrivere l’equazione ya = yb in a = b. Le leggi di cancellazione sono regole di scrittura: semplificano le scritture. (Sempre di scrittura si tratta in algebra!). Lo vide giustamente Derrida nella sua grammatologia: la cancellazione della scrittura è ancora una scrittura, come è vero che esistono lettere che, pur essedo scritte, non si leggono, come se fossero cancellate.
Dimostrare che dalle leggi di cancellazione derivano nel caso finito i teoremi di esistenza dell’unità e degli inversi non è difficile. Non entro in argomento perché forse non interessa allo psicanalista, che mi crederà sulla parola. Mi limito a considerare un semplice particolare, per così dire metamatematico, già notato da Aristotele, citato in esergo, che forse interessa di più i non matematici.
Le leggi di cancellazione, come dicevo, fanno giocare la scrittura, cancellando lo scritto. La singolarità che mi preme mettere in evidenza è che la scrittura consente di dominare il caso finito, ma non fa presa sul caso infinito; tre assiomi bastano a formalizzare il caso finito; non bastano nel caso infinito. Sto dicendo delle banalità, che sembrano scontate ma non lo sono poi tanto; quindi ci vuole un minimo d’attenzione per seguirmi (e non annoiarsi).
Posso scrivere 1,2,3,4,… e fermarmi quando voglio. In ogni caso non raggiungo l’infinito. L’infinito “non cessa di non scriversi”, come diceva Lacan del reale. L’infinito scrive sempre qualcosa di nuovo, come intuì Aristotele. L’elaborazione di Lacan, presa con le pinze, è abbastanza convincente. Convince che ciò che cessa di scriversi sia la castrazione, intesa come la possibilità logica di emergenza del soggetto finito che “cessa di scriversi”. Convince un po’ meno che ciò che "non cessa di non scriversi" sia l’impossibile. Pi greco ha un’espansione decimale infinita, che non cessa di non scriversi, ma è ben possibile e reale: si verifica in ogni cerchio come rapporto tra circonferenza e diametro, anche se Euclide non poteva determinarlo con riga e compasso. Con un passo gigantesco per i suoi tempi, Archimede arrivò ad approssimarlo, localizzandolo tra 3+1/7 e 3+10/71, perché pi greco esiste come limite da approssimare anche se non si può scriverlo tutto. Oggi si conosce solo qualche miliardo di cifre del suo sviluppo decimale, ma pi greco continua a non scriversi. È l’occasione per sfatare un luogo comune: in generale la scienza, in particolare la matematica, non è il regno dell’esattezza ma della buona approssimazione; spiega con i mezzi a disposizione come vanno le cose senza comprenderne l’essenza.
La scrittura in psicanalisi
A prima vista, quanto precede sembra non attinente alla teoria e alla pratica della psicanalisi. Attiene, invece. Riguarda le faglie della teoria e della pratica che i nostri maestri ci hanno lasciato in eredità.
Partiamo dall’assioma lacaniano: “l’inconscio è strutturato come un linguaggio”. Teorema. L’inconscio si scrive nelle cosiddette formazioni inconsce: sogni, sintomi, atti mancati, transfert. Corollario. L’inconscio non si scrive tutto, esattamente come pi greco, benché possa continuare a ripetere ciò che ha già scritto. Alla fine dell’Io e l’Es Freud diceva: “L’Es non può dire [tutto] ciò che vuole”. Esiste, infatti, una rimozione originaria, i cui contenuti non sono mai stati rimossi perché non sono mai diventati coscienti.
Ancora considerazioni di simmetria possono aiutare ad analizzare i rapporti tra algebra e scrittura, ruotando intorno all’oggetto infinito, senza pretesa di definirlo. Consideriamo l’algebra delle permutazioni, partendo dalla permutazione finita di nelementi, astrattamente rappresentata da nnumeri (1,2,3, …,n). Da questa permutazione di base si ottengono tutte le altre mediante la scrittura bilineare
1, 2, 3, …, n
a1,a2,a3, … an;
significa che il primo elemento va al posto di a1, il secondo al posto di a2, ecc. Sostituendo una sostituzione con l’altra si creano le simmetrie di un gruppo algebrico, detto appunto, come ho anticipato, gruppo simmetrico.
Non entro nei dettagli del discorso algebrico, perché mi preme sottolineare la caratteristica metamatematica annunciata, che può avere una certa rilevanza per il discorso psicanalitico. È caratteristico delle permutazioni finite che lo spostamento coincida con la sostituzione: spostare una lettera vuol dire portarla nel luogo di un’altra e sostituirla. Nei termini del processo primario freudiano si può dire che nel caso delle permutazioni finite lo spostamento (Verschiebung) coincide con la sostituzione; Freud la chiamava condensazione (Verdichtung), perché il vecchio simbolo si condensa con il nuovo: a1 prende il posto di 1 nel primo posto, a2 il posto di 2 nel secondo posto ecc.; in termini linguistici si direbbe che la metonimia coincide con la metafora. Questa è una caratteristica dei codici; non appartiene ai linguaggi naturali, quindi neppure all’inconscio
.
Per illustrare cosa avviene nel linguaggio naturale, quindi nell’inconscio, ricorro alla favola dell’albergo di Hilbert, che tratta l’oggetto infinito in modo “narrativo”, quindi accessibile agli umanisti fissati alla scienza storica. L’albergo di Hilbert ha, infatti, una peculiarità: ha un numero infinito di stanza. Non conosciamo il nome dell’architetto che l’ha costruito, ma è bello così. Gli affari vanno bene per il gestore, perché l’albergo è sempre pieno. Un giorno arriva un nuovo avventore. Come ospitarlo? Il gestore non ci pensa due volte e organizza un trasloco infinito: sposta il cliente della prima stanza nella seconda, il secondo nella terza, il terzo nella quarta, ecc. Risultato: la prima stanza è libera per il nuovo avventore. Ecco la differenza con il caso finito: mentre nel caso delle sostituzioni finite un vecchio simbolo prende il posto del precedente che occupava quel posto, nel caso infinito il nuovo sostituisce il vecchio. Se si definisce la metafora come sostituzione di significanti, la metafora poetica si realizza quando un nuovo significante prende il posto del vecchio, presupponendo un ambiente infinito di sostituzioni.
Morale: nell’infinito c’è sempre posto per il nuovo, come sapeva anche Aristotele. Volendo, nell’albergo infinito si può far posto a un’infinità di nuovi clienti: basta spostare i vecchi in stanze con il numero doppio e sistemare i nuovi nelle stanze con numero dispari. Quella tra pari e dispari è bene una simmetria. La simmetria permette di fare i conti con l’infinito. L’albergo di Hilbert stesso è una buona metafora di inconscio e della sua scrittura. Dopo tutto il gestore di quell’albergo riesce a fare i suoi traslochi – in psicanalisi si chiamano transfert – perché sa leggere e scrivere i numeri, cioè sa trattare l’algebra delle simmetrie. Il transfert è un effetto di sapere, insegnava Lacan alla fine dell’XI Seminario. Con il transfert, cioè traslocando, si può cominciare a trattare l’infinito come simmetria anche in psicanalisi.
Die gleichschwebende Aufmerksamkeit
Chi sia arrivato a leggere fin qui difficilmente avrà indovinato il movente della mia scrittura. Non è un segreto. Si tratta del problema di come tradurre uno dei rarissimi consigli tecnici di Freud al medico per dirigere l’analisi. Per Freud l’attenzione del suo ascolto deve essere la gleichschwebende Aufmerksamkeit.
Le opzioni di traduzione sono essenzialmente due: l’attenzione analitica deve essere o ugualmente sospesa o ugualmente fluttuante. Le ragioni a favore dell’una o dell’altra traduzione sono equinumerose e sostanzialmente di pari forza. Per non farla lunga dico le mie ragioni contro “sospensione” e a favore di “fluttuazione”.
La sospensione è statica, la fluttuazione dinamica. Volendo introdurre in psicanalisi il meccanicismo (non è una parolaccia!), preferisco la fluttuazione, per intenderci l’oscillazione del pendolo. La fluttuazione dell’attenzione costituisce a mio parere il pendolo di Freud, o forse meglio la sua bussola, sospesa da qualche parte nel linguaggio, ma assente dai suoi scritti.
La sospensione è negativa e burocratica, la fluttuazione positiva e scientifica. Per dire che una pratica è sospesa nelle more della burocrazia, per esempio giudiziaria, il tedesco dice: in der Schwebe bleiben. La sospensione sospende, cioè annulla l’attenzione. Chi è a favore di questa traduzione sostiene che viene sospeso il giudizio. Giusto, ma per sospendere il giudizio, l’attenzione non deve essere sospesa; deve attivamente ed effettivamente considerare tutte le possibili alternative, non privilegiandone alcuna. In questo senso laSchwebefreudiana non è l’epoché fenomenologica: non toglie valore a ciò che si sa già – la cosiddetta precomprensione – ma attribuisce a tutte le possibili congetture lo stesso peso. L’epoché, la sospensione, si può dire in tedesco in tanti modi, nessuno dei quali è prossimo all’intenzione (Absicht) freudiana di definire l’attenzione. Un elenco parziale di epoché potrebbe essere:
Reduktion: riduzione (eidetica o trascendentale);
außer Geltung setzen = togliere validità o mettere fuori corso;
außer Spiel setzen = mettere fuori gioco;
außer Aktion setzen = disattivare;
ausschalten = disabilitare, disconnettere un dispositivo elettronico;
einklammern = mettere tra parentesi.
La decisione finale spetta al prefisso gleich, corrispondente all’italiano “equi” di “equilatero” (gleichseitig), “equiparabile” (gleichstellbar), “equiprobabile” (gleich möglich), “equilibrio” (Gleichgewicht). Dopo tutto un’equazione algebrica rappresenta l’equilibrio tra i termini scritti a destra e a sinistra del segno di uguaglianza: la madre di tutte le simmetrie, anche meccaniche. Grazie alla simmetria della leva Archimede calcolò l’area del segmento di parabola. Fachinelli, che era cimbro e aveva il tedesco come seconda lingua madre, tradusse “attenzione fluttuante”, omettendo lo scientifico gleich. Fu un errore. Concludendo, la traduzione che propongo è “attenzione equifluttuante”. La mia opzione mira a promuovere l’ingresso di un significante nuovo nell’albergo di Hilbert. Agli altri significanti, già accomodati nella lingua, tocca fare un passo di lato per far posto al nuovo. Chiedo loro scusa per il fastidio.
Non credo che le ragioni scientifiche a favore della mia traduzione possano convincere i sostenitori dell’“attenzione ugualmente sospesa”. Tuttavia le espongo lo stesso, perché scopo della scienza non è convincere – questo è compito del discorso magistrale – ma aprire nuove strade interpretative.
Ma mi accorgo che ho già finito. Non ho da dire niente di nuovo rispetto al già detto, cui rimando. Propongo “equifluttuante” nel senso di “oscillante a 360 gradi”, eventualmente ripetendosi dopo il primo giro, magari più di una volta, ora in un senso ora nel senso opposto (simmetria!). Insomma, equifluttuante vuol dire “ciclico” come il pendolo di Galilei o il gruppo delle simmetrie di Galois. Se la vita ti ha fatto compiere tre giri in un senso, l’analisi te ne fa ripercorrere tre in senso inverso in ordine inverso, riportandoti al punto da cui ripartire per una nuova vita. In formule, l’inverso di abè b-1a-1. Infatti, abb-1a-1= aIa-1= aa-1= I. Il risultato simmetrico si ottiene partendo da b-1a-1ab = b-1Ib = b-1b = I. Siamo così ricaduti nell’algebra delle simmetrie, di cui ho parlato nei paragrafi precedenti. Sì, è l’algebra che apre la strada all’infinito, proprio all’infinito freudiano della ripetizione, mai identica a sé stessa (Kierkegaard), in un certo senso sempre nuova. Quel che rimane costante è la direzione verso la guarigione, cioè verso un nuovo soggetto, come giustamente si pretende dalla direzione della cura non sintomatica della psicanalisi.
Certo, capisco le resistenze alla mia proposta di traduzione. L’attenzione equifluttuante fa dell’analista un “oggetto freddo”, come lo chiamava Freud, non animato da una particolare direzione affettiva, la cosiddetta Einfühlung, o empatia, dei fenomenologi esistenziali. Mi spiace, dal punto di vista algebrico il controtransfert è la semplice simmetria inversa del transfert. Il resto è paccottiglia romanzesca, giustificata da un intramontabile antropomorfismo, alimentato dalla perenne fonte narcisistica. Serve poco alla cura analitica.
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