Dagli archivi della follia RECENSIONE A "LA DOPPIA MORTE DI GEROLAMO RIZZO - DIARIO "CLINICO" DI UNA FOLLIA VISSUTA"

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10 marzo, 2020 - 05:41
Autore: FRANCESCO BOLLORINO - GILBERTO DI PETTA
Editore: ALPES Roma
Anno: 2020
Pagine: 124
Costo: €10.79

Francesco Bollorino e Gilberto Di Petta propongono in questo libro il testo-memoria-diario scritto da Gerolamo Rizzo (1862-1932), genovese, maestro elementare, internato nel manicomio di Cogoleto dopo che nell’autunno 1908 aveva ucciso per strada con un colpo di pistola alla nuca don Paolo Canessa, un prete che aveva incrociato per caso. Allo scritto di Gerolamo Rizzo seguono i commenti e le analisi di Rita Corsa che discute l’interpretazione psicoanalitica della vicenda umana di Gerolamo, l’intervento di Pier Paolo Martucci sul suo profilo criminologico e quello di Paolo Francesco Peloso sul rapporto di tale storia con la Genova del suo tempo.

Nel testo, reperito nell’Archivio della documentazione clinica del manicomio di Cogoleto, Gerolamo Rizzo racconta il succedersi di quotidiane, specie notturne, drammatiche esperienze personali di interferenze che lo portarono a dare loro senso, corpo e forma del tutto originali, uniche, esclusive, non condivise da alcuna altra persona, parente, amica, conoscente appartenente al suo contesto di vita. Questo fino ad arrivare ad una propria costruzione interpretativa sistematizzata definibile, nei termini della psicopatologia, come delirio paranoide, frutto di un lavoro mentale intenso, denso di angosce per l’irruzione giorno e notte di rumori e voci di persone anonime, percezioni che lo inseguono ovunque, anche quando è lontano fisicamente da Genova. Alla fine, Gerolamo arriva a identificare una macchina, che chiama “macrocacofono”, da cui sarebbero partite le interferenze che lo tormentavano.
 



Aveva chiesto invano aiuto ai preti, ai famigliari finché, esasperato, per reagire in qualche modo, si arma di una rivoltella con cui uccide il primo prete che gli capita davanti. Dopo il gesto criminale, Gerolamo Rizzo diventa per la società un “folle reo”, trascorre sei mesi nell’infermeria del carcere per poi essere trasferito definitivamente in manicomio, il posto naturale “dove ci sono medici specialisti che visitano diverse volte al giorno e curano gli ammalati, e dove dopo attenta osservazione di qualche tempo, possono farsi un criterio esatto se un uomo è matto o no”. È in manicomio che egli redige il suo testo-memoria-diario ritrovato da Francesco Bollorino.

In manicomio è registrato come una persona tranquilla, di “buon comando”: in una nota in cartella in data 25 novembre 1927 è scritto che “durante la lunga degenza in questo Istituto ha mantenuto costantemente un contegno tranquillo. Vive appartato, taciturno, risponde solo se interrogato, dissimulando però il persistente delirio persecutorio. Si dimostra rispettoso, disciplinato e compie volentieri lavori di pulizia nell’interno del padiglione tranquilli ove è sempre rimasto”. Un paziente ideale, insomma, per i gestori di una istituzione, come il manicomio, in cui non dovrebbe mai accadere nulla di nuovo e rilevante. E invece accade che, “alla vigilia di essere mandato a casa” per “buona condotta”,  Gerolamo Rizzo viene massacrato di botte e ucciso da un altro internato. Nessuna responsabilità risultò emergere a carico del personale di assistenza e custodia: “Risulta dagli interrogatori del personale di assistenza e dei ricoverati, lucidi e attendibili, presenti al fatto che gli infermieri di guardia, i quali si trovavano rispettivamente nel corridoio e nel dormitorio attigui alla latrina, accorsero immediatamente. […] Concludendo, non risulterebbe alcuna responsabilità a carico del personale di assistenza  menzionato”.

A chi dei “curanti” di inizi del XX° secolo potevano interessare le memorie di Gerolamo Rizzo? Da quanto risulta dal suo diario, la “presa in carico” come paziente psichiatrico omicida  sarebbe consistita sostanzialmente nella visita antropometrica e nell’esame obiettivo al suo ingresso in carcere, nel rispetto dei parametri della scienza positivistica lombrosiana: “ Mi presero le misure antropometriche e vollero che levassi la camicia, per vedere se avevo tatuaggi nel corpo come tutti quelli della malavita fanno”.

Gerolamo Rizzo accetta la condizione di psichiatrizzato e pare per taluni aspetti “rassicurato” di trovarsi in manicomio dove trova tempo e motivazioni per ripensare a quanto gli è accaduto, ordinare il susseguirsi degli episodi, delle sensazioni, nella ricerca di dar loro senso. Gerolamo Rizzo non ha mai cessato di lavorare, riflettere; prima di compiere il delitto, per quasi cinque anni, come annota Paolo Peloso, è riuscito a reggere l’impegno dell’insegnamento, convivendo con le pesantissime interferenze che gli rovinavano la vita quotidiana.

Il valore di questo suo lavoro personale di elaborazione rimase ignorato, non fu mai preso in considerazione, assunto, valutato dai “curanti”: una occasione perduta, quindi. Forse perché non erano “curanti”, ma piuttosto “custodi”, e nella vicenda della morte di Gerolamo, purtroppo, cattivi custodi, tragicamente disattenti.

Le sue memorie avrebbero invece certamente interessato, e grandemente, il compianto Sergio Piro che, alla conclusione del suo intenso, colto, documentatissimo Il linguaggio schizofrenico (Feltrinelli, Milano, 1967, scriveva:

“Non v’è dubbio che ogni via di accostamento all’uomo schizofrenico deve passare attraverso il suo linguaggio, poiché v’è in esso ogni indizio e ogni espressione che possa rivelarlo nella sua interezza.

Il linguaggio schizofrenico trascina con sé, in una sovrapposizione sconcertante e peculiare, il segno di una metamorfosi disumana e l’espressione di un fallimento tragicamente umano.

Nel paesaggio devastato dalla schizofrenia le rovine delle cose familiari e dei simboli umani sono spietatamente investite dalla luce irreale e minacciosa di un sole estraneo. Là dove l’assurdo e il comprensibile, l’atroce e il patetico, il mutamento pauroso e la ricerca di pace, la trasformazione surreale dei simboli e la semplicità degli affetti, si mescolano senza fondersi e si sovrappongono senza unificarsi, in una contraddizione che non si risolve, in una tensione che non si allenta, là è la schizofrenia. Il linguaggio è la sua cifra misteriosa e inconfondibile”. (p. 532)

Quante tragedie sono avvenute (e devono ancora avvenire) perché nell’assistenza psichiatrica pubblica ad una persona sofferente mentale siano prestati ascolto e  rispetto, oltre che aiuto e conforto?


 

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