ZATTERE AGLI INCURABILI
Una Poesia al giorno toglie l' Analista di torno...
di Maria Ferretti

LETTERA DAL FRONTE: PSICOANALISI IN ZONA ROSSA

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16 marzo, 2020 - 07:48
di Maria Ferretti

BRESCIA 16 MARZO 2020

 

Giorno uno dalla zona rossa

Non mi sottraggo alle sedute preparo lo studio: cinque metri di distanza, guanti, mascherina.

Mi sento eccessiva ma rispetto le regole.

Non sembra ancora entrato in seduta il virus. Si continua a parlare dei propri dolori. Le storie si srotolano seguono la loro logica.

Io continuo a pensare al virus e rispetto le difese dei pazienti con un interrogativo: quando intervenire per poter mostrare che la paura fa brutti scherzi tra cui negare la realtà.

I discorsi dei pazienti contrastano i loro atteggiamenti: rispettano alla lettera le regole imposte e soprattutto tutti vengono, tutti.

 

Il giorno numero due l’aria si fa più tesa, le chiamate si susseguono per chiedere se ricevo.

Io non mollo: ritengo che esserci sia fondamentale.

Non posso lasciarli ma soprattutto devo mostrare loro compostezza e lucidità, un “come si fa”.

Non è fare l’eroina ma senso della presa in carico dell’altro che non si lascia mai, nel momento del bisogno.

Mi rendo conto che per me è pesante non poter esserci non vorrei mollare e la serata finisce con attacchi d’amore di chi ti ama e che ti vuole proteggere e ti sgrida perché vedi i pazienti e chi ti dice che non ti darà più una mano perché ho visto i miei pazienti.

Ecco le persone si vedono nel momento del bisogno: altruismo ed egoismo.

La paura di morire è qualcosa che alcuni di noi masticano da quando sono nati.

Ci si vive quotidianamente e in un certo senso diventa compagna di vita.

Non amo il rischio ma sento la spinta a non abbandonare chi ha bisogno di me.

Si chiama senso di responsabilità ed etica.

Il disagio della mente ha la stessa dignità del corpo.

Decido di seguire le linee guida del mio Ordine e proteggere i pazienti dagli spostamenti.

Li chiamo uno ad uno e converto online le sedute.

Tutti accettano.

 

Il giorno numero tre inizia con loro in uno spazio nuovo con stessi orari.

Sento che esserci è una dimensione acorporea quel che conta è essere lì: pensarsi e ascoltarsi, la voce.

Non cambia nulla. Siamo in un nuovo spazio, un pezzo dell’altro, un pezzo di me.

Il miracolo del video rende la seduta assolutamente “normale”.

Le considerazioni vertono sul coronavirus poi però arrivano i temi della propria storia che ad orecchio attento si colorano di negazione.

A fine seduta ho male alla gola. Sento che sforzo le corde vocali quasi avessi il timore che non mi sentano. Mi fanno male le spalle non ho ancora una postura online.

Faccio 13 sedute in un giorno, raccolgo tutti.

Finisco con un colloquio da chi sta combattendo direttamente sul campo il virus, un medico.

La prima domanda: Dottoressa ha paura?

Penso prima di rispondere. No, non ho paura di morire ho paura di vivere. Mi fa paura ciò che verrà. Come affronteremo i postumi.

Ho voluto esser sincera con chi è in prima linea. Non posso non commuovermi quando penso agli uomini e alle donne che si prendono cura dei malati esponendo le loro vite.

Non è esser eroi ma come soldati in guerra si sviluppa un senso del non voler abbandonare i propri compagni al fronte.

Un altro medico al fronte alla mia domanda: come va? Mi risponde: come vuole che vada, continuano a morire ora me ne torno al lazzaretto siamo rimasti in pochi e ci aiutiamo tra noi.

Un pugno nello stomaco!

Chi è dentro e chi sta fuori.

Fa male non poter esser dentro coi Dottori poterli ascoltare e sostenere nella caduta, inevitabile fatta delle stesse paure dei loro pazienti.

La paura di morire è democratica.

Vorrei esser lì a svolgere questa funzione che ogni giorno compie chi fa lo psicoanalista.

Noi raccogliamo l’angoscia da sempre. Siamo pulitori, convertitori.

 

Il giorno numero quattro continuo i colloqui ed il virus si fa sempre più presente.

Inizio con un paziente sotto antibiotico e reduce da influenza, solo e giovane con nessun accanto nè padre nè madre.

Ho paura di avere il virus, Dottoressa.

Si rasserena la seduta finisce con il sorriso ed un grazie di esserci e continuare.

Sento l’importanza di esserci in tempo per l’altro.

Le sedute online sono più intense: i nostri visi sono in primo piano, il volto si fa centrale.

Gli occhi le espressioni sono in primo piano. Anche io lo sono. Mi domando che cosa vede l’altro di me. Il primo piano è qualcosa di nuovo di non conosciuto. Cattura di più l’attenzione. Ipnotizza.

Poi c’è chi del pronto soccorso ne ha fatto sempre un uso antipanico  ed ora non può accedervi per cui la paura di non calmarsi soccombe alla paura di morire davvero.

Arriva il giorno numero cinque è sabato ma ricevo ancora messaggi sento che non ci sarà pausa sento che la mia disponibilità è sempre online, pronta a ricevere.

Devo ossigenarmi e correre, mantenere un assetto fisico e mentale lucido, il più possibile in salute.

Mi sveglio alle tre del mattino un uomo nel sogno mi consegna una busta in cui il messaggio dice che mio figlio è stato rapito. Lui è un mafioso qualcuno che agisce in modo subdolo, lo stato nello stato e mi dice che riaverlo indietro dipenderà da qualcosa di altrettanto oscuro.

Mi sveglio con la percezione di disperazione.

I sogni all’epoca del virus sono lo specchio di ciò che è angoscia.

L’angoscia gira costantemente e si fa sentire nei risvegli notturni e nei discorsi diurni.

Ci svegliamo con male alla gola, con affanno, tachicardie e insonnia.

E poi c’è la rabbia ingoiata dei nostri progetti spezzati interrotti, il da capo.

 

Giorno numero 6 è domenica, è marzo, ma hai la sensazione di quel silenzio che capita prima di nevicare.

I ciliegi i peschi sono in fiore.

Tutto odora di primavera.

Esco o non esco a correre?

Mi sento in colpa se lo faccio.

Metto maschera e boccaglio, autorizzazione in tasca e corro, corro, corro per un’ora nelle orecchie una canzone dice:

 

Hey, little train! Wait for me!

Hey, trenino! Aspettami!

I once was blind but now I see

Una volta ero cieco, ma ora ci vedo

Have you left a seat for me?

Hai lasciato un posto per me?

Is that such a stretch of the imagination?

E' così difficile da immaginare?

Hey little train! Wait for me!

Ehi, piccolo treno! Aspettami!

I was held in chains but now I'm free

Ero in catene ma ora sono libero

I'm hanging in there, don't you see

Sto resistendo laggiù, non vedi

In this process of elimination

In questo processo di eliminazione

 

 

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