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COVID-19: L’isolamento prolungato come prassi di autenticità

26 Mar 20

A cura di luigidelia

PRIMA PARTE: COVID-19: La pandemia è come un Trattamento Sanitario Obbligatorio collettivo – segui il link

La situazione unica e straordinaria che tutto il mondo sta vivendo a causa di un virus è un’occasione irripetibile per rivedere la gerarchia di valori dei nostri più comuni stili di vita.

Voglio però immediatamente uscire dalla retorica vitalistica e inutilmente ottimistica di certa pubblicistica psicologica dove tutti ci ameremo di più perché ci siamo mancati tanto. No, non credo proprio. La mancanza prefigura e riabilita l’oggetto perduto, questo è vero, ma per comprenderne e fissarne la sua essenzialità occorre un suo ripensamento etico che non è detto cha avvenga e che richiede nuove premesse e un nuovo ordine del discorso.

Non assumo dunque posizioni astrattamente ottimistiche o viceversa pessimistiche, la mia è una visione francamente palingenetica. Ovverosia, la rinascita deriva da un azzeramento. Un Reset, come dice egregiamente Franco Berardi, nella sua Cronaca della psicodeflazione.

E un primo azzeramento, o meglio livellamento, già lo stiamo osservando (ne avevo già accennato qui): il livellamento dell’attribuzione del valore sociale del tempo libero, avvenuto già dal primo giorno di quarantena. Il tempo libero del top manager e il tempo libero del disoccupato, che prima erano su due poli opposti riguardo al valore socialmente riconosciuto, adesso si ritrovano entrambi sulla stessa linea di partenza. Chi ha più talento lo può mostrare ed usare senza alcuna differenza di classe.

Una nuova forma di egualitarismo di cui non si aveva sentore dai tempi della rivoluzione francese. Anche lì un mondo finiva e ne cominciava un altro.

Un egualitarismo, quello attuale, che però, oltre ad essere prodotto di una costrizione, riguarda principalmente il nostro stile di vita, e più precisamente uno dei “valori” immateriali più preziosi che abbiamo, il tempo libero, e l’uso che ne facciamo.

Ma l’esempio del tempo libero è solo uno tra i tanti possibili. In queste primissime settimane di isolamento collettivo è ben visibile, nelle numerose storie che si raccolgono tra amici e pazienti, come si ponga al centro di ogni discorso la disarticolazione radicale delle nostre precedenti abitudini consolidate.

La disarticolazione delle abitudini consolidate è in fondo un altro modo di dire azzeramento e livellamento. Ci aiuta a capire noi stessi come nulla precedentemente.

Chi, come me, da bambino smontava i giocattoli curioso di rubare il segreto e la magia del loro funzionamento o del loro assemblaggio, può comprendere quale occasione irripetibile sia quella che ci offre questa quarantena forzata di smontare pezzo a pezzo le nostre abitudini, mettere i pezzi su un tavolo e capire come e perché erano montati e come e perché ci davano sicurezza o viceversa angoscia.

Emergono storie davvero interessanti in questo momento storico per uno psicologo che voglia raccoglierle e rimirarle in controluce e in filigrana, e infilare il naso nel cappello a cilindro del mago è qualcosa che solo oggi possiamo permetterci di fare.

Tra le tante, ne scelgo una, di un mio paziente, che chiameremo con nome fittizio Francesco, il quale ci racconta (col suo consenso) la seguente illuminante storia, dopo sole due settimane dall’inizio del distanziamento sociale imposto dal virus:

<<Sai Luigi, temo di cadere nell’apatia in questo momento. È vero che continuo un po’ a lavorare, che riesco a occupare il tempo in tanti hobby, che chiamo spesso tante persone amiche, ma mi rendo (tristemente) conto di una cosa che questo momento di isolamento mi sta svelando.
Mi rendo conto cioè che tutta la mia vita, specialmente negli ultimi anni, è stata messa in forma dalla mia scelta professionale (ma, mi accorgo definitivamente, che della mia professione non mi interessa nulla) e che tutto il mio mondo sociale girava attorno a questioni e interessi collegati alla mia attività professionale. Quando parlavo con i miei cari amici, alla fine parlavo solo di quello, evitavo ogni mia questione personale. Ho paura di non saper più cosa voglia dire parlare di sé, confidarsi, aprirsi con le proprie debolezze alle persone care. Ho capito che fino ad oggi ho pensato che le mie debolezze non possano interessare proprio nessuno, a partire da me stesso>>
.

Mi vengono immediatamente in mente le parole di Donald Winnicott quando dice, a proposito del Falso Sé, che esso, nello sviluppo psicologico dell’individuo, serve sostanzialmente a nascondere e proteggere il Vero Sé dal sentimento di invalidazione che la relazione con l’ambiente materno induce direttamente o indirettamente. Il bambino che da adulto svilupperà un falso sé è colui che durante l’infanzia ha vissuto una vera e propria esperienza di irrealtà, una discontinuità esistenziale dovuta alle vicissitudini di una mancata accoglienza del vero sé.

L’autenticità, ci dice Winnicott, attraverso le illuminanti parole di Francesco, è quindi esperienza eminentemente relazionale. Essa è possibile solo se e quando le proprie parti fragili sono state in qualche modo e misura accolte e ritenute interessanti. Solo questo ci fa sentire reali e continui.

Per la cronaca, Francesco oltre ad essere persona di spessore e coltissima, è persona perfettamente in grado di vivere l’autenticità e di entrare in contatto autentico con se stesso e col prossimo, solo non ha ancora preso sufficientemente sul serio la propria… trepidazione.

Ma quello che ci sta indicando chiaramente non è certo solo un funzionamento relazionale o solo un vissuto interno, ma un funzionamento sociale consolidato.

Ed ecco che, infilando il naso e gli occhi nel cappello del mago, troviamo codici sociali, ingranaggi del giochino, che organizzano e sincronizzano le nostre vite su una socialità messa in forma da interessi che, per quanto rispettabili e socialmente utili, risultano di fatto lontani mille miglia dalla nostra autentica interiorità. Irrealtà e discontinuità esistenziale sono due capisaldi del sentimento di precarietà della nostra epoca storica, dalla new economy in giù (e forse da prima ancora).

Ci ritroviamo, ormai adulti, a non possedere più parole per descrivere le nostre paure, le nostre gioie e speranze, le nostre incertezze, ma anche a non avere più alcun interlocutore qualificato per ascoltarci. Nessun ambiente relazionale può mai essere all’altezza di un compito ritenuto ormai impossibile: accoglierci. Prevale un’esperienza di irrealtà e di distanza da se stessi e dal prossimo.

Il giochino ora è smontato ed è a pezzettini sul tavolo in salotto, e noi sul letto a piangere perché non sappiamo rimontarlo come era prima. Ma forse è un bene.

Il mondo pre-quarantena sta mostrando finalmente, per moltissimi di noi, il suo vero, feroce, volto.
Su un grattacielo di Santiago del Cile compare questa frase: “Non torneremo alla normalità perché la normalità era il problema”. È forse questo il nostro compito.

Quella normalità che ci scandiva le giornate, le settimane, i mesi, gli anni, le vite intere a costruire posizioni o a difendere posizioni acquisite (non da noi), a tentare di fare soldi, a scalare montagne, a compiacere chissà chi, a far ripartire ascensori sociali rotti ormai da decenni e fermi al piano terra, quella normalità di cittadini ridotti e retrocessi da anni a unità consumatrici, a criceti nella ruota che alimenta l’energia della città, quella normalità che ci confinava in  identità socio-lavorative del tutto disidentitarie, o in appartenenze del tutto spaesate, quella normalità era il problema, il giochino s’è rotto ed e è venuto il momento di proseguire a giocare usando la sola immaginazione. Chi più ne ha, più ne metta e più si diverta.

Ora però, in questo isolamento, abbiamo paura, proviamo tristezza, noia, frustrazione, rabbia, insofferenza, inquietudine. Quante parole ci vogliono per descrivere le nostre attualissime umane fragilità? Tantissime, sono tantissime, e molte ancora possono essere inventate perché qualcuno ci ascolti e ci accarezzi, seppure virtualmente in questo momento, permettendo alla nostra anima di allinearsi per un momento ad un sentimento di verità e di realtà.

Chi ha poesie da scrivere, strumenti musicali da imparare a suonare, canzoni da cantare, storie incredibili da raccontare, emozioni reali da trasmettere, bellezza da condividere, giochi da giocare, idee o scoperte da socializzare, viaggi da raccontare, libri da leggere e commentare, pensieri da ripensare ad alta voce, chi ha tutto questo e altro ancora, ecco, adesso è arrivato il momento giusto per farlo. Senza veli.

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