LE PAROLE CHE TOCCANO
30 marzo, 2020 - 10:44
30 marzo, 2020 - 10:44
LA PREDOMINANZA DELLA VISTA
Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? […] La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
Italo Calvino, Lezioni americane, 1988.
La crescente egemonia della vista, incentrata sulle immagini e la tecnologia, ha fatto si che nella cultura occidentale la visione assumesse un ruolo egemonico nella percezione della realtà. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un tale incremento del numero di immagini visive, che le nostre vite sembrano esserne già sature. Da Google a Instagram, ai videogiochi, alle installazioni artistiche, questa trasformazione ha prodotto una società globale di tipo visuale che genera confusione, in quanto non solo vediamo il mondo, ma continuiamo a riprodurlo in immagini, condividendole e scambiandole con altri (Mirzoeff, 2015).
Scrive Italo Calvino:
“Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione di estraneità e di disagio” (Calvino, 1988, pp. 58-59).
Luce Irigaray (2011) sottolinea come, nonostante il tatto prenda parte a tutte le nostre relazioni esistenziali, la nostra cultura sia dominata dalla vista, dal guardare a, con una logica di possesso piuttosto che di contemplazione.
La dittatura visuale, pertanto, ha posto in secondo piano la portata del senso del tatto, ma anche quello dell’olfatto, nella nostra esperienza, nonostante il toccare e l’annusare siano modalità sensoriali fondamentali per articolare la conoscenza che abbiamo del mondo, integrandola con quella che abbiamo di noi stessi.
LA PSICOANALISI E IL TATTO
La psicoanalisi ha dato valore al tatto, inteso non tanto in termini fisici, quanto come espressione emotivo-relazionale.
Sandor Ferenczi (1927-1928, p. 306) ha definito il tatto come “La capacità di mettersi nei panni di un altro”, ed è per lui una questione di tatto “Il tempo e il modo di comunicare una certa cosa al soggetto in analisi, quando il materiale fornito si debba dichiarare insufficiente perché se ne possano trarre delle conseguenze, in quale forma si debba eventualmente porgere la comunicazione, come si debba reagire a una reazione inattesa o stupefacente del paziente, quando sia consigliabile tacere attendere altre associazioni e quando invece il silenzio costituisca un inutile tormento per il paziente”.
Il saggio “L’elasticità della tecnica psicoanalitica”, accompagnato da una lettera, fu inviato a Freud il 1^ gennaio 1928. Freud rispose a Ferenczi il 4 gennaio 1928, giudicando positivamente lo scritto, ma osservando che “[…] apre il campo a quelli che, essendo privi di tatto, possono trovare giustificazioni per i loro interventi arbitrari […]”.
Il 14 gennaio Ferenczi replicava alle critiche di Freud, scrivendo: “[…] Il termine ‘tatto’ non significa affatto una concessione all’arbitrarietà del fattore soggettivo […], ma mettersi nei panni del paziente ed entrare dentro a quello che lui prova” (Correspondence, tome 3, pp. 370 e 372).
Glauco Carloni ricorda che con il termine tatto, per traslato si intende “l’arte di trattare il prossimo, fatta di accortezza, tempestività, opportunità, prudenza, garbo e misura: richiede elasticità e intelligenza, cioè, di continuo, adattabilità e inventiva per cogliere e risolvere ogni problema nuovo. [...] Così come con il tatto fisico si prova, si palpa, con il tatto psichico (che si serve del primo e degli altri sensi, nonché di quel sesto e più importante senso che chiamiamo empatia) si osserva, si sente, si studia l’altrui disposizione, articolata e condizionata dalla individuale vulnerabilità. L’essere il tatto prevalentemente acuto nelle mani rende comprensibile come per questa adiacenza sia facile, sia in senso fisico che in senso figurato, scivolare dal tatto in quelle forme di falsificazione e inquinamento del medesimo che vanno sotto il nome di manipolazioni, manovre o maneggi” (Carloni, 1984, pp. 196-197).
Emmanuelle Chervet (2017, p. 37) ha proposto di descrivere il tatto dell’analista come la sua capacità di adattamento alle esigenze di “ricevibilità” del paziente, come quindi la capacità di ascoltare il suo ascolto e sintonizzarsi con esso.
Ribellandoci all’assolutezza della visione nel setting e valorizzando il tatto, noi analisti abbiamo sperimentato la possibilità di mettere insieme i diversi sensi, di metterci in gioco nella nostra totalità percettiva, dando al contatto con il paziente una valenza multisensoriale.
Wilfred Bion con un divertente gioco di parole parla di senso comune (common sense), cioè del far lavorare i sensi insieme per beneficiare dell’apporto delle varie fonti senso-percettive.
“Il termine ‘senso comune’ viene vissuto come una descrizione adeguata a un’esperienza che è sentita come sostenuta da tutti i sensi senza alcuna disarmonia” (Bion, 1992, p. 34) .
Una disarmonia tra le varie percezioni sensoriali segnala una carenza di contatto con la realtà, e quindi un indebolimento della capacità di apprendere dalla esperienza.
Scrive Michael Eigen (1999, p. 104):
“I diversi sensi forniscono non solo informazioni, ma anche differenti mondi, differenti qualità di mondi diversi, differenti tessuti in cui vivere; non solo informazioni da elaborare, ma differenti accostamenti, differenti modi in cui ci accostiamo al mondo, con il tatto o con gli altri organi sensoriali”.
LA PERDITA DEL CONTATTO FISICO E LA VALORIZZAZIONE DELL’UDITO
L’abolizione del contatto visivo e tattile si rivela immediatamente come una vera e propria deprivazione psichica. Gli sguardi che si incontrano o si evitano, l’intensità della stretta di mano, l’ampiezza della superficie di contatto delle epidermidi negli abbracci, rappresentano la gerarchia sentimentale ed emotiva della vita che, in situazioni traumatiche come durante l’epidemia da coronavirus, viene drasticamente messa in discussione (Mazzucco, 2020).
Carlo Pasino (2020) nella mailing list della SPI ricorda con nostalgia quando poteva utilizzare tutti i suoi sensi anche nel lavoro analitico in situazioni complesse, sentendosi invece poi costretto a lavorare come se fosse in uno scafandro e fantasticando di volare come una farfalla.
Quanto valore assuma nella relazione il contatto si può desumere dalle manovre sempre più accurate messe in atto in sala parto. Il neonato non viene immediatamente allontanato dalla madre mediante il traumatico taglio del cordone ombelicale, ma viene posto su di lei in modo da rendere meno traumatica per il neonato, ma anche per la madre la definitiva separazione, in una penombra che rimandi alla tranquillità intrauterina.
E quante volte abbiamo visto il bambino dormire con il capo attaccato al bordo della culla, a cercare il contenimento uterino perduto!
E il suo sorriso raggiante quando, nel passaggio dal gattonare alla stazione eretta, muove barcollando i primi passi per raggiungere a bracci aperte l’agognata ricompensa dell’abbraccio di un genitore!
L’altro giorno, andando a comprare il giornale, in piena emergenza di coronavirus, ho visto due ragazzine correre una attaccata all’altra. Ho fatto segno loro di distanziarsi e loro immediatamente si sono separate, ma subito dopo, voltandomi, mi sono accorto che, come tirate da un elastico invisibile, sono tornate a correre una di fianco all’altra, come necessariamente a toccarsi. Nonostante avessero ascoltato il mio messaggio e avessero cognitivamente risposto in modo adeguato, la forza attrattiva del contatto funzionava come una calamita inconscia.
Quanto sia dolorosa la separazione lo sappiamo, ma sappiamo anche quanto possa essere necessaria e, soprattutto, quanto sia necessario fare i conti con essa, elaborandola e evitando di mettere in atto antieconomici meccanismi di difesa. Personalmente, nell’impossibilità del contatto fisico, preferisco l’uso del telefono alle modalità di comunicazione visiva online, che rischiano di essere un succedaneo (almeno per me!) del contatto visivo, un surrogato che, producendo più che altro estraneità e fantasie di controllo, deformando lo sguardo e distorcendo il vissuto di immediatezza, rischia di intrudere l’intimità altrui. Ricordo, come dice Marshall Mc Luhan (1967), che il medium è messaggio. Certo questo vale anche per la comunicazione telefonica, ma ho la sensazione che gli svantaggi, i danni collaterali siano minori nelle conversazioni telefoniche che nelle sedute a distanza via Skype.
Quando il contatto fisico favorisce il contagio, quando mette a rischio la sopravvivenza, allora bisogna fare i conti con la realtà, accettarne i limiti, ma anche provare a pensare, a immaginare, a sognare possibilità comunicative che, seppure imperfette, raccolgano realisticamente alcune proprietà di quelle che non è possibile mettere in atto.
Può venirci in aiuto nella valorizzazione di modalità di comunicazioni vicarie la scoperta della neuroplasticità, ossia quella proprietà del cervello umano di modificare se stesso, di individuare una nuova modalità di funzionamento, che ma messo in discussione la convinzione che l’anatomia cerebrale sia immutabile.
Si pensa, in base a dati sperimentali, che il cervello sia in grado di modificare la propria struttura a livello di ciascuna funzionalità specifica, perfezionando i propri circuiti in modo da adattarli più efficacemente al compito da svolgere di volta in volta, che possa cioè funzionalmente riorganizzare ogni sua parte per sopperire alle carenze che si vengono a creare in seguito a danneggiamenti determinati da traumi, da problemi neurologici ritenuti incurabili, dall’invecchiamento (Doidge, 2007).
Proprio facendo riferimento alla teoria della neuroplasticità, si può pensare che, in seguito all’interruzione traumatica dei contatti fisici, possa assumere rilevanza quello che chiamerei “l’udito immaginativo”, la possibilità cioè che le vie acustiche si arricchiscano di funzioni aggiuntive, vicariando alcune di quelle che sono normalmente appannaggio, per esempio, della vista, del tatto e dell’olfatto e riassumendo in sé, quindi, quella multisensorialità che altrimenti andrebbe perduta.
Marion Milner (1952) pensa che l’essenziale nell’esperienza sia ciò che aggiungiamo a ciò che vediamo e che, senza un contributo da parte nostra, noi non vediamo nulla.
Danielle Quinodoz (2002, p. 55) sostiene che:
“L’assenza di supporto visivo nelle sedute può favorire la presa di coscienza dell’esperienza corporea. Soprattutto nel caso in cui tale esperienza sia poco differenziata e faccia intervenire sensazioni interne difficili da localizzare, per esempio sensazioni propriocettive o sensazioni che si rapportano al corpo nel suo insieme, talvolta legate a degli atteggiamenti o ad alcune posizioni”.
L’analista ginevrina cerca di trovare “le parole che toccano” per quelle persone angosciate dalla mancanza di coesione interna e che temono di perdere il sentimento della propria identità. Queste persone, definite da Danielle Quinodoz pazienti eterogenei, per poter dispiegare la propria libertà psichica e la propria creatività, hanno un particolare bisogno di un linguaggio incarnato, di essere toccate da parole in grado nello stesso tempo di cogliere fantasmi, pensieri, sentimenti e sensazioni.
Possiamo, estendendo le riflessioni di Danielle Quinodoz, pensare che un uso accorto, non tanto e non solo tecnicamente, quanto emotivamente e affettivamente, della nostra voce, l’utilizzo cioè di parole che tocchino, che veicolino differenti emozioni possa, seppure non totalmente, vicariare quel tatto e quella visione che necessariamente subiscono un’eclissi in questa contingenza storica?
Credo che oggi sia importante dare maggiore spazio più in generale a un buon uso della voce e dell’ascolto nelle telefonate, che sono aumentate a dismisura, assumendo in sé una polivalenza di significati che prima non avevano, o avevano in misura estremamente ridotta.
A VOCE SOLA[1]
In una recente intervista il cantautore genovese Ivano Fossati ha detto che il suono della voce è come lo sguardo e viene prima delle parole. Quando si ascolta l’assolo di uno strumento musicale, si capisce se quelle frasi sono sincere o se chi sta suonando sta solo facendo virtuosismi, o esercizi. Questi aspetti della voce sono stati studiati da psicoanalisti quali Thomas Ogden (1999), Antonio Di Benedetto (2000), Mauro Mancia (2002), Fausto Petrella (2018), a sottolineare l’importanza dell’intonazione, del timbro, del volume della voce, del ritmo, della prosodia, della sintassi e dei tempi del linguaggio. Tutti questi aspetti potrebbero favorire, anche nelle comunicazioni a distanza, la costituzione di un quadro di intimità acustica che favorisca la possibilità che gli affetti inconsci trapelino sotto forma di segni espressivi canori sfuggiti alla coscienza al pari dei lapsus.
Scrive Lucia Monterosa (2013, p. 585)
“Nella stanza di analisi talvolta ascoltiamo voci flebili che ci costringono all’immobilità per fare il minimo rumore possibile mentre protendiamo l’orecchio, come una madre che si sporge sulla culla del suo bambino per essere sicura che respiri, alcune altre che declamano o protestano in maniera penetrante, altre che sembrano corpi estranei e altre ancora che si materializzano in modo martellante e inespressivo. […] Tutte queste differenti sonorità richiedono un lavorio di recepimento e di sintonizzazione: una sorta di adattamento fisico a qualcosa che viene espresso dal corpo dell’altro”.
Quanto fa bene, oggi, distinguere la cacofonia delle sirene delle ambulanze che nitidamente si stagliano nell’irreale silenzio delle strade cittadine, dall’eufonia delle voci che danno corpo a pensieri silenziosi, bisognosi di un veicolo che li accolga e li trasporti rispettosamente.
Thomas Ogden (2013, pp. 634-635) sostiene che in analisi:
“La conversazione, in cui due persone parlano l’una all’altra, implica una differente modalità di strutturazione del linguaggio e dell’esperienza. La conversazione parlata risuona con una conversazione inconscia in cui le due persone pensano insieme. Il pensare insieme richiede la creazione di una forma di pensiero inconscio che, tenendo insieme congiuntamente il pensare e il sentire delle due persone, permette loro di pensare e sentire in un modo in cui nessuno dei due da solo poteva pensare e sentire. Io credo – dice Ogden – che l’esperienza di pensare insieme a un’altra persona con cui si sta conversando, consciamente o inconsciamente, abbia le potenzialità di creare le condizioni in cui possa avvenire lo scambio psichico tra paziente e analista”.
Scrive Adam Phillips (1999, p. 127):
“Un aspetto straordinario dell’intrattenere una buona conversazione è che ci dimentichiamo della conversazione stessa. Essa assume una vita propria. […] Psicoanalisi dovrebbe essere una conversazione continua, interessante per entrambe le parti, che non sanno perché la apprezzano, ma vogliono proseguirla”.
Lo spirito della psicoanalisi vive primariamente nell’esperienza diretta della comunicazione della coppia in seduta e solo secondariamente nell’analisi successiva. Nulla vieta di esaminare un brano musicale dopo averlo ascoltato, di scomporne la struttura, esplorarne le armonie e le tonalità: ma prima bisogna semplicemente lasciarsi trasportare dal suono. Allo stesso modo le sedute analitiche vanno vissute “senza memoria e senza desiderio”, nell’hic et nunc, per permettere una comunicazione autentica e genuina, che può successivamente essere elaborata e approfondita nella sua polisemia.
Ancora più efficacemente si esprime Wisława Szymborska (2002, p. 581) nella poesia Il silenzio delle piante:
Viaggiamo insieme.
E quando si viaggia insieme si conversa, […]
Non mancherebbero argomenti, molto ci unisce,
La stessa stella ci tiene alla sua portata.
Gettiamo ombre basate sulle stesse leggi.
Cerchiamo di sapere qualcosa, ognuno a suo modo,
e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna.
Non sono un esperto fonologo, ma mi chiedo se quello al telefono possa essere il necessario e inusitato viaggio, in cui in treni tra loro lontani, ma diretti verso una meta comune, i viaggiatori conversano e costruiscono un linguaggio nuovo in un comune scompartimento immaginario?
Il Piccolo Principe nel romanzo di Saint- Éxupery ripete a se stesso quello che gli ha detto la volpe:
“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (de Saint-Exupéry, 1943, p. 98).
Può questo essenziale essere espresso e recepito attraverso la musica delle parole?
Il possedere una funzione terapeutica è una caratteristica antropologica universale della musica e questo vale sia per chi attiva dentro di sé i processi creativi e comunica simbolicamente aspetti della sua vita mentale attraverso le forme sonore, sia per chi fruisce del prodotto artistico. L’esperienza dell’ascolto non prescinde mai per sua natura dalla sensibilità dell’ascoltatore della musica, dalla capacità di lasciarsene penetrare in modo che parti ignote o dimenticate di sé possano essere raggiunte e in cui l’esperienza del bello non escluda quella dell’inquietante.
La radio, la televisione, i dischi, i computer da molto tempo riproducono e propongono a distanza, musica, suoni, parole. Ne deriva proprio in termini puramente percettivi un diverso ascolto, nonché una diversa cenestesi in relazione alla distanza e alla separazione. Penso che le parole, come per i suoni, anche a distanza, anche nelle conversazioni telefoniche possano assumere il senso non di un’esposizione più o meno ossessivamente minuziosa di quanto accade, ma una ricca e creativa capacità rappresentativa, seppure deformata dall’ineliminabile angoscia che in questi tempi drammatici ci pervade tutti. Le descrizioni possono essere accolte come un dono, come un tentativo coraggioso di mettere in atto la propria capacità discriminatoria delle emozioni e dei sentimenti nella relazione seppure a distanza e con il telefonino in mano.
Quello che Mauro Mancia (2004, p. 53) aveva attribuito alla voce e cioè che: “In analisi [è possibile] cogliere il senso della comunicazione del paziente non tanto nel contenuto delle parole quanto, piuttosto, attraverso il tono, il timbro, il volume della voce, il ritmo, la prosodia, la sintassi e i tempi del linguaggio”, può essere ritrovato nella capacità di condivisione acustica, direi musicale, dei propri vissuti, delle proprie speranze, delle proprie angosce e paure, quindi di trasmettere “un’espressione di sé in relazione con l’altro” (Ibid., p. 54).
Mi viene in mente il racconto di Marguerite Yourcenar (1981, pp. 178-179) Une belle matinée (Una bella mattina), in cui il protagonista è un bambino che vive e lavora in un albergo-bordello. Innamorato del teatro, spia dal buco della serratura le prove di un vecchio attore, che da anni vive in una stanza dell’albergo e che tanto tempo prima ha avuto una storia d’amore con la maîtresse. Così il bambino descrive le prove dell’anziano attore: “La voce del vecchio signore cambiava di continuo: ora era la bella voce di un uomo che si sarebbe immaginato molto giovane, una di quelle voci che fanno pensare a labbra piene e denti perfetti. Ora era una voce di fanciulla, molto dolce, che rideva e ciangottava come una fonte. E c’erano anche molte voci di contadini che sembravano litigare tra loro. Ma la cosa più bella era quando parlava con voce maestosa e così lenta che era di certo la voce di un vescovo o di un re”.
È possibile che le nostre comunicazioni telefoniche con i pazienti in analisi contemplino la possibilità di esprimersi con quella pluralità di voci, quella molteplicità di sonorità e significati, quella musica delle parole e delle pause che tanto aveva affascinato il bambino del racconto della Yourcenar e che vanno ben oltre l’intenzionalità cosciente?
BIBLIOGRAFIA
Bion, W. R. (1992). Cogitations. Pensieri. Trad. it. Roma: Armando, 1996.
Calvino, I. (1988). Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio. Torino: Einaudi.
Carloni, G. (1984). Tatto, contatto e tattica. Rivista di psicoanalisi, XXX, 2: 191-205.
Chervet, E. (2017). Patient, et interprète Le domaine intermédiaire, Bulletin de la Société Psychanalytique de Paris, 1: 31-111.
De Saint-Exupéry, A. (1943). Il piccolo principe. Trad. it. Milano: Bompiani, 1985.
Di Benedetto, A. (2000). Prima della parola. L'ascolto psicoanalitico del non detto attraverso le forme dell'arte. Milano: FrancoAngeli.
Doidge, N. (2007). Il cervello infinito. Alle frontiere della neuroscienza: storie di persone che hanno cambiato il proprio cervello. Trad. it. Milano: Ponte alle Grazie, 2008.
Eigen, M. (1999). Michael Eigen (pp. 88-118). In A. Molino (a cura di), Liberamente associati. Incontri psicoanalitici. Roma: Astrolabio.
Ferenczi, S. (1927-1928). L’elasticità della tecnica psicoanalitica (pp. 293-303). In Id. Fondamenti della tecnica psicoanalitica, Vol. III, Ulteriori contributi (1908-1933). Psicoanalisi delle abitudini sessuali ed altri saggi. Trad. it. Rimini: Guaraldi, 1974.
Ferenczi, S. (1928a). Lettera a Freud del 1^ gennaio. In Freud S. e
Ferenczi, S. (1928b). Lettera a Freud del 14 gennaio. In Freud S. e Ferenczi S., op. cit.
Freud, S. e Ferenczi, S. (1920-1933). Correspondance Freud-Ferenczi 1920-1933, tome 3, Les années douloureuses. Paris: Calmann-Lévy, 2000.
Freud, S. (1928). Lettera a Ferenczi del 4 gennaio. In Freud S. e Ferenczi S. (1920-1933), op. cit.
Irigaray, L. (2011). Elogio del toccare. Trad. it. Genova: Il Melangolo, 2013.
Mancia, M. (2004). Sentire le parole. Torino: Bollati Boringhieri.
Mazzucco, M. (2020). Baci e abbracci. Il senso perduto del contatto, La Repubblica, 20 marzo, 2020.
Mc Luhan, M. e Fiore, Q. (1967). Il medium è messaggio. Un inventario di effetti. Milano: Feltrinelli,1968..
Milner, M. (1952). Disegno e creatività. Trad. it. Firenze: La Nuova Italia, 1968.
Mirzoeff, N. (2015). Come vedere il mondo. Trad. it. Monza: Johan & Levi, 2017.
Monterosa, L. (2013). Lo spazio sonoro nella stanza di analisi, Rivista di psicoanalisi, LIX, 3: 573-590.
Ogden, Th. (1999). “The Music of What Happens” in Poetry and Psychoanalysis, International Journal of Psycho-Analysis, 80: 879-894.
Ogden, Th. (2013). Thomas Ogden in Conversation with Luca Di Donna, Rivista di psicoanalisi, LIX, 3: 625-641.
Pasino, C., (200). Comunicazione nella mailing list SPI del 23 marzo.
Phillips, A. (1999). Adam Phillips (pp. 119-152). In A. Molino (a cura di), op. cit.
Patrella, F. (2018). L’ascolto e l’ostacolo. Psicoanalisi e musica. Milano: Jaca Book.
Quinodoz, D. (2002). Le parole che toccano. Trad. it. Roma: Borla, 2004.
Szymborska, W. (2002). Il silenzio delle piante (pp. 580-581). In Id. Opere. Trad. it. Milano: Adelphi, 2008.
Yourcenar, M. (1981). Una bella mattina. In Come l’acqua che scorre. Trad. it. Einaudi, Torino, 1983.
Il potere di evocare immagini in assenza continuerà a svilupparsi in un’umanità sempre più inondata dal diluvio delle immagini prefabbricate? […] La memoria è ricoperta da strati di frantumi d’immagini come un deposito di spazzatura, dove è sempre più difficile che una figura tra le tante riesca ad acquistare rilievo.
Italo Calvino, Lezioni americane, 1988.
La crescente egemonia della vista, incentrata sulle immagini e la tecnologia, ha fatto si che nella cultura occidentale la visione assumesse un ruolo egemonico nella percezione della realtà. Negli ultimi decenni abbiamo assistito a un tale incremento del numero di immagini visive, che le nostre vite sembrano esserne già sature. Da Google a Instagram, ai videogiochi, alle installazioni artistiche, questa trasformazione ha prodotto una società globale di tipo visuale che genera confusione, in quanto non solo vediamo il mondo, ma continuiamo a riprodurlo in immagini, condividendole e scambiandole con altri (Mirzoeff, 2015).
Scrive Italo Calvino:
“Viviamo sotto una pioggia ininterrotta di immagini; i più potenti media non fanno che trasformare il mondo in immagini e moltiplicarlo attraverso una fantasmagoria di giochi di specchi: immagini che in gran parte sono prive della necessità interna che dovrebbe caratterizzare ogni immagine, come forma e come significato, come forza di imporsi all’attenzione, come ricchezza di significati possibili. Gran parte di questa nuvola d’immagini si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria; ma non si dissolve una sensazione di estraneità e di disagio” (Calvino, 1988, pp. 58-59).
Luce Irigaray (2011) sottolinea come, nonostante il tatto prenda parte a tutte le nostre relazioni esistenziali, la nostra cultura sia dominata dalla vista, dal guardare a, con una logica di possesso piuttosto che di contemplazione.
La dittatura visuale, pertanto, ha posto in secondo piano la portata del senso del tatto, ma anche quello dell’olfatto, nella nostra esperienza, nonostante il toccare e l’annusare siano modalità sensoriali fondamentali per articolare la conoscenza che abbiamo del mondo, integrandola con quella che abbiamo di noi stessi.
LA PSICOANALISI E IL TATTO
La psicoanalisi ha dato valore al tatto, inteso non tanto in termini fisici, quanto come espressione emotivo-relazionale.
Sandor Ferenczi (1927-1928, p. 306) ha definito il tatto come “La capacità di mettersi nei panni di un altro”, ed è per lui una questione di tatto “Il tempo e il modo di comunicare una certa cosa al soggetto in analisi, quando il materiale fornito si debba dichiarare insufficiente perché se ne possano trarre delle conseguenze, in quale forma si debba eventualmente porgere la comunicazione, come si debba reagire a una reazione inattesa o stupefacente del paziente, quando sia consigliabile tacere attendere altre associazioni e quando invece il silenzio costituisca un inutile tormento per il paziente”.
Il saggio “L’elasticità della tecnica psicoanalitica”, accompagnato da una lettera, fu inviato a Freud il 1^ gennaio 1928. Freud rispose a Ferenczi il 4 gennaio 1928, giudicando positivamente lo scritto, ma osservando che “[…] apre il campo a quelli che, essendo privi di tatto, possono trovare giustificazioni per i loro interventi arbitrari […]”.
Il 14 gennaio Ferenczi replicava alle critiche di Freud, scrivendo: “[…] Il termine ‘tatto’ non significa affatto una concessione all’arbitrarietà del fattore soggettivo […], ma mettersi nei panni del paziente ed entrare dentro a quello che lui prova” (Correspondence, tome 3, pp. 370 e 372).
Glauco Carloni ricorda che con il termine tatto, per traslato si intende “l’arte di trattare il prossimo, fatta di accortezza, tempestività, opportunità, prudenza, garbo e misura: richiede elasticità e intelligenza, cioè, di continuo, adattabilità e inventiva per cogliere e risolvere ogni problema nuovo. [...] Così come con il tatto fisico si prova, si palpa, con il tatto psichico (che si serve del primo e degli altri sensi, nonché di quel sesto e più importante senso che chiamiamo empatia) si osserva, si sente, si studia l’altrui disposizione, articolata e condizionata dalla individuale vulnerabilità. L’essere il tatto prevalentemente acuto nelle mani rende comprensibile come per questa adiacenza sia facile, sia in senso fisico che in senso figurato, scivolare dal tatto in quelle forme di falsificazione e inquinamento del medesimo che vanno sotto il nome di manipolazioni, manovre o maneggi” (Carloni, 1984, pp. 196-197).
Emmanuelle Chervet (2017, p. 37) ha proposto di descrivere il tatto dell’analista come la sua capacità di adattamento alle esigenze di “ricevibilità” del paziente, come quindi la capacità di ascoltare il suo ascolto e sintonizzarsi con esso.
Ribellandoci all’assolutezza della visione nel setting e valorizzando il tatto, noi analisti abbiamo sperimentato la possibilità di mettere insieme i diversi sensi, di metterci in gioco nella nostra totalità percettiva, dando al contatto con il paziente una valenza multisensoriale.
Wilfred Bion con un divertente gioco di parole parla di senso comune (common sense), cioè del far lavorare i sensi insieme per beneficiare dell’apporto delle varie fonti senso-percettive.
“Il termine ‘senso comune’ viene vissuto come una descrizione adeguata a un’esperienza che è sentita come sostenuta da tutti i sensi senza alcuna disarmonia” (Bion, 1992, p. 34) .
Una disarmonia tra le varie percezioni sensoriali segnala una carenza di contatto con la realtà, e quindi un indebolimento della capacità di apprendere dalla esperienza.
Scrive Michael Eigen (1999, p. 104):
“I diversi sensi forniscono non solo informazioni, ma anche differenti mondi, differenti qualità di mondi diversi, differenti tessuti in cui vivere; non solo informazioni da elaborare, ma differenti accostamenti, differenti modi in cui ci accostiamo al mondo, con il tatto o con gli altri organi sensoriali”.
LA PERDITA DEL CONTATTO FISICO E LA VALORIZZAZIONE DELL’UDITO
L’abolizione del contatto visivo e tattile si rivela immediatamente come una vera e propria deprivazione psichica. Gli sguardi che si incontrano o si evitano, l’intensità della stretta di mano, l’ampiezza della superficie di contatto delle epidermidi negli abbracci, rappresentano la gerarchia sentimentale ed emotiva della vita che, in situazioni traumatiche come durante l’epidemia da coronavirus, viene drasticamente messa in discussione (Mazzucco, 2020).
Carlo Pasino (2020) nella mailing list della SPI ricorda con nostalgia quando poteva utilizzare tutti i suoi sensi anche nel lavoro analitico in situazioni complesse, sentendosi invece poi costretto a lavorare come se fosse in uno scafandro e fantasticando di volare come una farfalla.
Quanto valore assuma nella relazione il contatto si può desumere dalle manovre sempre più accurate messe in atto in sala parto. Il neonato non viene immediatamente allontanato dalla madre mediante il traumatico taglio del cordone ombelicale, ma viene posto su di lei in modo da rendere meno traumatica per il neonato, ma anche per la madre la definitiva separazione, in una penombra che rimandi alla tranquillità intrauterina.
E quante volte abbiamo visto il bambino dormire con il capo attaccato al bordo della culla, a cercare il contenimento uterino perduto!
E il suo sorriso raggiante quando, nel passaggio dal gattonare alla stazione eretta, muove barcollando i primi passi per raggiungere a bracci aperte l’agognata ricompensa dell’abbraccio di un genitore!
L’altro giorno, andando a comprare il giornale, in piena emergenza di coronavirus, ho visto due ragazzine correre una attaccata all’altra. Ho fatto segno loro di distanziarsi e loro immediatamente si sono separate, ma subito dopo, voltandomi, mi sono accorto che, come tirate da un elastico invisibile, sono tornate a correre una di fianco all’altra, come necessariamente a toccarsi. Nonostante avessero ascoltato il mio messaggio e avessero cognitivamente risposto in modo adeguato, la forza attrattiva del contatto funzionava come una calamita inconscia.
Quanto sia dolorosa la separazione lo sappiamo, ma sappiamo anche quanto possa essere necessaria e, soprattutto, quanto sia necessario fare i conti con essa, elaborandola e evitando di mettere in atto antieconomici meccanismi di difesa. Personalmente, nell’impossibilità del contatto fisico, preferisco l’uso del telefono alle modalità di comunicazione visiva online, che rischiano di essere un succedaneo (almeno per me!) del contatto visivo, un surrogato che, producendo più che altro estraneità e fantasie di controllo, deformando lo sguardo e distorcendo il vissuto di immediatezza, rischia di intrudere l’intimità altrui. Ricordo, come dice Marshall Mc Luhan (1967), che il medium è messaggio. Certo questo vale anche per la comunicazione telefonica, ma ho la sensazione che gli svantaggi, i danni collaterali siano minori nelle conversazioni telefoniche che nelle sedute a distanza via Skype.
Quando il contatto fisico favorisce il contagio, quando mette a rischio la sopravvivenza, allora bisogna fare i conti con la realtà, accettarne i limiti, ma anche provare a pensare, a immaginare, a sognare possibilità comunicative che, seppure imperfette, raccolgano realisticamente alcune proprietà di quelle che non è possibile mettere in atto.
Può venirci in aiuto nella valorizzazione di modalità di comunicazioni vicarie la scoperta della neuroplasticità, ossia quella proprietà del cervello umano di modificare se stesso, di individuare una nuova modalità di funzionamento, che ma messo in discussione la convinzione che l’anatomia cerebrale sia immutabile.
Si pensa, in base a dati sperimentali, che il cervello sia in grado di modificare la propria struttura a livello di ciascuna funzionalità specifica, perfezionando i propri circuiti in modo da adattarli più efficacemente al compito da svolgere di volta in volta, che possa cioè funzionalmente riorganizzare ogni sua parte per sopperire alle carenze che si vengono a creare in seguito a danneggiamenti determinati da traumi, da problemi neurologici ritenuti incurabili, dall’invecchiamento (Doidge, 2007).
Proprio facendo riferimento alla teoria della neuroplasticità, si può pensare che, in seguito all’interruzione traumatica dei contatti fisici, possa assumere rilevanza quello che chiamerei “l’udito immaginativo”, la possibilità cioè che le vie acustiche si arricchiscano di funzioni aggiuntive, vicariando alcune di quelle che sono normalmente appannaggio, per esempio, della vista, del tatto e dell’olfatto e riassumendo in sé, quindi, quella multisensorialità che altrimenti andrebbe perduta.
Marion Milner (1952) pensa che l’essenziale nell’esperienza sia ciò che aggiungiamo a ciò che vediamo e che, senza un contributo da parte nostra, noi non vediamo nulla.
Danielle Quinodoz (2002, p. 55) sostiene che:
“L’assenza di supporto visivo nelle sedute può favorire la presa di coscienza dell’esperienza corporea. Soprattutto nel caso in cui tale esperienza sia poco differenziata e faccia intervenire sensazioni interne difficili da localizzare, per esempio sensazioni propriocettive o sensazioni che si rapportano al corpo nel suo insieme, talvolta legate a degli atteggiamenti o ad alcune posizioni”.
L’analista ginevrina cerca di trovare “le parole che toccano” per quelle persone angosciate dalla mancanza di coesione interna e che temono di perdere il sentimento della propria identità. Queste persone, definite da Danielle Quinodoz pazienti eterogenei, per poter dispiegare la propria libertà psichica e la propria creatività, hanno un particolare bisogno di un linguaggio incarnato, di essere toccate da parole in grado nello stesso tempo di cogliere fantasmi, pensieri, sentimenti e sensazioni.
Possiamo, estendendo le riflessioni di Danielle Quinodoz, pensare che un uso accorto, non tanto e non solo tecnicamente, quanto emotivamente e affettivamente, della nostra voce, l’utilizzo cioè di parole che tocchino, che veicolino differenti emozioni possa, seppure non totalmente, vicariare quel tatto e quella visione che necessariamente subiscono un’eclissi in questa contingenza storica?
Credo che oggi sia importante dare maggiore spazio più in generale a un buon uso della voce e dell’ascolto nelle telefonate, che sono aumentate a dismisura, assumendo in sé una polivalenza di significati che prima non avevano, o avevano in misura estremamente ridotta.
A VOCE SOLA[1]
In una recente intervista il cantautore genovese Ivano Fossati ha detto che il suono della voce è come lo sguardo e viene prima delle parole. Quando si ascolta l’assolo di uno strumento musicale, si capisce se quelle frasi sono sincere o se chi sta suonando sta solo facendo virtuosismi, o esercizi. Questi aspetti della voce sono stati studiati da psicoanalisti quali Thomas Ogden (1999), Antonio Di Benedetto (2000), Mauro Mancia (2002), Fausto Petrella (2018), a sottolineare l’importanza dell’intonazione, del timbro, del volume della voce, del ritmo, della prosodia, della sintassi e dei tempi del linguaggio. Tutti questi aspetti potrebbero favorire, anche nelle comunicazioni a distanza, la costituzione di un quadro di intimità acustica che favorisca la possibilità che gli affetti inconsci trapelino sotto forma di segni espressivi canori sfuggiti alla coscienza al pari dei lapsus.
Scrive Lucia Monterosa (2013, p. 585)
“Nella stanza di analisi talvolta ascoltiamo voci flebili che ci costringono all’immobilità per fare il minimo rumore possibile mentre protendiamo l’orecchio, come una madre che si sporge sulla culla del suo bambino per essere sicura che respiri, alcune altre che declamano o protestano in maniera penetrante, altre che sembrano corpi estranei e altre ancora che si materializzano in modo martellante e inespressivo. […] Tutte queste differenti sonorità richiedono un lavorio di recepimento e di sintonizzazione: una sorta di adattamento fisico a qualcosa che viene espresso dal corpo dell’altro”.
Quanto fa bene, oggi, distinguere la cacofonia delle sirene delle ambulanze che nitidamente si stagliano nell’irreale silenzio delle strade cittadine, dall’eufonia delle voci che danno corpo a pensieri silenziosi, bisognosi di un veicolo che li accolga e li trasporti rispettosamente.
Thomas Ogden (2013, pp. 634-635) sostiene che in analisi:
“La conversazione, in cui due persone parlano l’una all’altra, implica una differente modalità di strutturazione del linguaggio e dell’esperienza. La conversazione parlata risuona con una conversazione inconscia in cui le due persone pensano insieme. Il pensare insieme richiede la creazione di una forma di pensiero inconscio che, tenendo insieme congiuntamente il pensare e il sentire delle due persone, permette loro di pensare e sentire in un modo in cui nessuno dei due da solo poteva pensare e sentire. Io credo – dice Ogden – che l’esperienza di pensare insieme a un’altra persona con cui si sta conversando, consciamente o inconsciamente, abbia le potenzialità di creare le condizioni in cui possa avvenire lo scambio psichico tra paziente e analista”.
Scrive Adam Phillips (1999, p. 127):
“Un aspetto straordinario dell’intrattenere una buona conversazione è che ci dimentichiamo della conversazione stessa. Essa assume una vita propria. […] Psicoanalisi dovrebbe essere una conversazione continua, interessante per entrambe le parti, che non sanno perché la apprezzano, ma vogliono proseguirla”.
Lo spirito della psicoanalisi vive primariamente nell’esperienza diretta della comunicazione della coppia in seduta e solo secondariamente nell’analisi successiva. Nulla vieta di esaminare un brano musicale dopo averlo ascoltato, di scomporne la struttura, esplorarne le armonie e le tonalità: ma prima bisogna semplicemente lasciarsi trasportare dal suono. Allo stesso modo le sedute analitiche vanno vissute “senza memoria e senza desiderio”, nell’hic et nunc, per permettere una comunicazione autentica e genuina, che può successivamente essere elaborata e approfondita nella sua polisemia.
Ancora più efficacemente si esprime Wisława Szymborska (2002, p. 581) nella poesia Il silenzio delle piante:
Viaggiamo insieme.
E quando si viaggia insieme si conversa, […]
Non mancherebbero argomenti, molto ci unisce,
La stessa stella ci tiene alla sua portata.
Gettiamo ombre basate sulle stesse leggi.
Cerchiamo di sapere qualcosa, ognuno a suo modo,
e ciò che non sappiamo, anch’esso ci accomuna.
Non sono un esperto fonologo, ma mi chiedo se quello al telefono possa essere il necessario e inusitato viaggio, in cui in treni tra loro lontani, ma diretti verso una meta comune, i viaggiatori conversano e costruiscono un linguaggio nuovo in un comune scompartimento immaginario?
Il Piccolo Principe nel romanzo di Saint- Éxupery ripete a se stesso quello che gli ha detto la volpe:
“Non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi” (de Saint-Exupéry, 1943, p. 98).
Può questo essenziale essere espresso e recepito attraverso la musica delle parole?
Il possedere una funzione terapeutica è una caratteristica antropologica universale della musica e questo vale sia per chi attiva dentro di sé i processi creativi e comunica simbolicamente aspetti della sua vita mentale attraverso le forme sonore, sia per chi fruisce del prodotto artistico. L’esperienza dell’ascolto non prescinde mai per sua natura dalla sensibilità dell’ascoltatore della musica, dalla capacità di lasciarsene penetrare in modo che parti ignote o dimenticate di sé possano essere raggiunte e in cui l’esperienza del bello non escluda quella dell’inquietante.
La radio, la televisione, i dischi, i computer da molto tempo riproducono e propongono a distanza, musica, suoni, parole. Ne deriva proprio in termini puramente percettivi un diverso ascolto, nonché una diversa cenestesi in relazione alla distanza e alla separazione. Penso che le parole, come per i suoni, anche a distanza, anche nelle conversazioni telefoniche possano assumere il senso non di un’esposizione più o meno ossessivamente minuziosa di quanto accade, ma una ricca e creativa capacità rappresentativa, seppure deformata dall’ineliminabile angoscia che in questi tempi drammatici ci pervade tutti. Le descrizioni possono essere accolte come un dono, come un tentativo coraggioso di mettere in atto la propria capacità discriminatoria delle emozioni e dei sentimenti nella relazione seppure a distanza e con il telefonino in mano.
Quello che Mauro Mancia (2004, p. 53) aveva attribuito alla voce e cioè che: “In analisi [è possibile] cogliere il senso della comunicazione del paziente non tanto nel contenuto delle parole quanto, piuttosto, attraverso il tono, il timbro, il volume della voce, il ritmo, la prosodia, la sintassi e i tempi del linguaggio”, può essere ritrovato nella capacità di condivisione acustica, direi musicale, dei propri vissuti, delle proprie speranze, delle proprie angosce e paure, quindi di trasmettere “un’espressione di sé in relazione con l’altro” (Ibid., p. 54).
Mi viene in mente il racconto di Marguerite Yourcenar (1981, pp. 178-179) Une belle matinée (Una bella mattina), in cui il protagonista è un bambino che vive e lavora in un albergo-bordello. Innamorato del teatro, spia dal buco della serratura le prove di un vecchio attore, che da anni vive in una stanza dell’albergo e che tanto tempo prima ha avuto una storia d’amore con la maîtresse. Così il bambino descrive le prove dell’anziano attore: “La voce del vecchio signore cambiava di continuo: ora era la bella voce di un uomo che si sarebbe immaginato molto giovane, una di quelle voci che fanno pensare a labbra piene e denti perfetti. Ora era una voce di fanciulla, molto dolce, che rideva e ciangottava come una fonte. E c’erano anche molte voci di contadini che sembravano litigare tra loro. Ma la cosa più bella era quando parlava con voce maestosa e così lenta che era di certo la voce di un vescovo o di un re”.
È possibile che le nostre comunicazioni telefoniche con i pazienti in analisi contemplino la possibilità di esprimersi con quella pluralità di voci, quella molteplicità di sonorità e significati, quella musica delle parole e delle pause che tanto aveva affascinato il bambino del racconto della Yourcenar e che vanno ben oltre l’intenzionalità cosciente?
BIBLIOGRAFIA
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[1] Il titolo del paragrafo deriva dalle Arie, canzonette e recitativi col basso continuo realizzato per clavicembalo o pianoforte di Claudio Monteverdi (1567-1643).