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COVID-19: Cronache dalla Psichiatria nell’epidemia. Diario del 2 aprile 2020

2 Apr 20

A cura di Gerardo Favaretto

Nel diario di oggi , 2 aprile , ospitiamo l’intervento di Pietro Pellegrini , direttore del DSM di parma  che fa un intervento articolato e analitico  sulle ricadute dei cambiamenti sociali nella presa in carico e nel lavoro dei servizi e sulle prospettive che si apriranno passata l’emergenza. Di seguito un intervento di Maria Bianco direttore della UOC di Pieve di Soligo ( DSM Treviso ) che racconta quanto succede nel suo servizio e come si sono organizzati.

Annotazioni su coronavirus e salute mentale
 Di Pietro Pellegrini ( Direttore Dipartimento Assistenziale Integrato Salute Mentale Dipendenze Patologiche Ausl di Parma)
Introduzione
Da circa un mese siamo in emergenza covid 19 e dal 24 febbraio, un susseguirsi di decreti nazionali e regionali ha profondamente modificato tutta l’attività sanitaria ed anche quella del dipartimento di salute mentale dipendenze patologiche.
In questo contributo proverò a tracciare quanto accaduto per sviluppare alcune riflessioni sulle pratiche di salute mentale di comunità.
La pandemia
A tutti è parso evidente quanto l’intera comunità nazionale e non solo il sistema sanitario e sociale, sia stata colta impreparata dall’emergenza. Preparazione e pianificazione sono le parole chiave che da anni l’Organizzazione mondiale per la salute (Oms) mette in apertura dei suoi documenti. Una pandemia non è prevedibile, ma è ricorrente e probabile. Dopo la diffusione dei virus Sars (2002) e H1N1 (2009) in Italia non c’era un piano d’azione aggiornato.  
Ne è una palese dimostrazione la mancanza dei dispositivi individuali, mascherine, disinfettanti cioè presidi generici e non tanto dei tamponi specifici per i quali, trattandosi di un nuovo virus, è comprensibile un possibile ritardo.
Prima vissuta come impensabile e quindi impossibile, la pandemia si è via via imposta con la sua dura ed inevitabile presenza.
Quando si è cominciato a pensarla, la rappresentazione della epidemia, diventata poi pandemia, è stata quanto mai incerta sia nella definizione della gravità sia delle modalità per affrontarla. Questo è in parte dovuto alla scarsa conoscenza del virus ma anche alla poca memoria dimostrata rispetto a recenti epidemie.
Tutti i paesi sono stati incerti nel dare indicazioni e nel delineare strategie.
L’ospedale è diventato il centro di riferimento e il suo rapido adattamento alle esigenze della pandemia, ha portato a rimodulare reparti, chiudere specialistiche, rimandare esami ed interventi. In poche settimane si sono aperti altri posti di terapia intensiva, riattivati ospedali, padiglioni, fino a posti in palazzetti, fiere od ospedali da campo. La forza e la gravità della pandemia ha fatto comprendere all’opinione pubblica anche a quella meno attenta come la morte da coronavirus possa essere evitata solo nell’ospedale e con la tecnologia a sostegno della vita piuttosto che da terapie specifiche. 
Presa d’assalto, il timore della rete ospedaliera di non riuscire a far fronte ai bisogni dei pazienti è stato alla base del suo rapido potenziamento e al contempo questo ha determinato un sostanziale disinvestimento/abbandono dei servizi del territorio. La risposta alla diffusione della pandemia che non conosce limiti, ha segnato di nuovo confini, una necessaria separatezza per cercare di arginare, circoscrivere, limitare. Ne è derivato un immaginario costituito da un “dentro” sicuro e rispetto ad un “fuori” incentrato sulla casa della persona, separata da un sociale sempre potenzialmente infetto.
“Restare a casa” per ridurre il rischio infettivo responsabilizzando (e poi obbligando) le persone, ha finito per incidere sulla parte più innovativa dei servizi per la gestione della cronicità, basata su una dinamica fatta di passaggi, transizioni, mediazioni, piccoli supporti, dettagli fini, sensibilità esito di prolungate collaborazioni multiprofessionali. Delicatissimi equilibri sono stati messi in crisi.
Una visione di insieme
Questo pensiero, tuttavia, ha mostrato molti limiti non sul piano dei diritti rapidamente sacrificati sotto la spinta dell’emergenza, ma anche perché si è visto subito che il dentro è solo relativamente sicuro, in quanto non solo non può essere blindato, ma diviene esso stesso causa di infezione (ad esempio per quelle ospedaliere) e spesso tramite gli stessi operatori sanitari. Ecco perché il dentro va pensato collegato al fuori, in una dinamica che crei sicurezza delle cure, attraverso la protezione individuale e la verifica (tamponi) nell’ambito di una visione comunitaria.
Si tratta di ripensare il distanziamento, la riduzione dei contatti in una logica di sistema, di piccole comunità di vicinato. I comuni sono diventati il riferimento così la protezione civile. Riferimenti fondamentali, che però non possono sostituire la ricchezza di una rete di prossimità resa edotta, competente nel prevenire il rischio infettivo e al contempo tutte le altre problematiche, sanitarie e sociali con i relativi rischi non solo come sommatoria ma nelle reciproche interazioni.  Occorre la capacità di legare soggettività, personalizzazione con le esigenze delle famiglie e la costruzione di microcomunità attente e sicure.
Nella salute si inserisce anche il tema della salute mentale che da tempo ha articolato le proprie attività nella continuità di una cura co-costruita con la persona sempre pensata come parte della comunità.
Con la pandemia, superata speriamo la fase più grave dell’emergenza, si tratta di ricostruire proprio il senso delle pratiche tra ospedale e territorio. L’ospedale è la sede “salvavita” e il territorio in questa fase mostra tutte la sua complessità e i suoi punti di forza ma anche le inevitabili debolezze. L’ospedale pur come luogo altamente specialistico è anche intrecciato con molte attività sociosanitarie che nella/insieme alla comunità possono essere sviluppate? Un ripensamento già avvenuto negli interventi urgenti, tempo dipendenti, il che porta a riflettere su un assunto consolidato secondo il quale l’acuzie è solo ospedaliera e la cronicità solo territoriale.
Rispetto alla pandemia, se una quota di circa il 10% necessita di terapia intensiva, quanto di quel 90% degli infettati può restare a domicilio e lì adeguatamente curata?
Questa domanda è molto attuale e l’attività nel territorio, articolata in particolare tra dipartimento cure primarie e dipartimento di sanità pubblica, va riorganizzata. I due comparti non possono continuare a funzionare come oggi e l’occasione della pandemia potrebbe essere l’inizio di una grande riforma per una assistenza territoriale e domiciliare, sanitaria e sociale strutturata nelle 24 ore.  Questo può essere il riferimento anche per la salute mentale.
Siamo consapevoli delle difficoltà. Infatti, in queste settimane di emergenza, pur tenendo conto dell’emergenza e con l’encomiabile impegno degli operatori, la sanità pubblica in diverse realtà è parsa carente e tardiva sia sotto il profilo gestionale, informativo, operativo. D’altra parte anche le Cure primarie si sono trovate chiamate in causa ma sostanzialmente senza mezzi. Nonostante il sacrificio dei MMG, in molti casi anche della vita, si è verificato l’abbandono dei malati a domicilio, senza esami, senza tamponi, senza assistenza. I dati sui decessi a domicilio rappresentano un quadro drammatico.[1]
Cure primarie incentrate sulla cronicità, “oggi non reggono rispetto ad un territorio che richiede servizi per acuti e modelli organizzativi utili nella prevenzione e nel contenimento e non hanno gli strumenti per convertirsi ed essere di supporto in questa situazione ai medici di medicina generale. C'è un completo scollamento tra struttura territoriale e Aziende, e quindi il sistema si concentra negli ospedali con tutti i problemi che stanno venendo fuori." Secondo Scotti occorrono “cure a domicilio e cliniche mobili per evitare spostamenti non necessari e allentare la pressione sugli ospedali. Bisogna creare un sistema di sorveglianza capillare che garantisca l'adeguato isolamento dei pazienti facendo affidamento sugli strumenti della telemedicina. Un tale approccio limiterebbe l'ospedalizzazione a un gruppo mirato di malati gravi, diminuendo il contagio, proteggendo i pazienti e il personale sanitario e minimizzando il consumo di equipaggiamenti di protezione". [2]
Di fronte all’ E-U le attività tarate sul programmato, governato con liste di attesa, selezione della domanda, valutazioni cui magari consegue una presa in cura dilazionata nel tempo o talora la dichiarazione di non competenza e quindi l’evitamento-abbandono, mostrano tutti i loro limiti. Con la pandemia il problema nasce dall’emergenza perché si ha bisogno subito in tanti, e non in tanti selezionabili, sostanzialmente in base ai determinanti sociali della salute (in primis reddito e istruzione) elementi che in realtà sono costantemente in azione e pertanto da affrontare sempre. L’accelerazione e l’imprevedibilità della domanda rappresenta fattori sfavorevoli per affrontarla.
I determinanti sociali diventano centrali nella e dopo la pandemia. Per questo le recentissime Unità Speciali di Continuità Assistenziale, potrebbero essere una delle innovazioni che perdura anche dopo.
La crisi ha riguardato anche i servizi sociali, già in difficoltà, che non possono essere lasciati soli di fronte a cronicità, anziani, disagio ecc.  Le Case Residenza Anziani, ambiti critici di una risposta assistenziale non comunitaria, ma sostanzialmente neoistituzionale, si sono rivelate assai vulnerabili anche all’infezione. Serviva il virus ad evidenziare spazi inadeguati, sovraffollamento, condizioni assistenziali prive di privacy, assenza di diritti, il primo quello della libertà?
E che dire delle carceri, sovraffollate e pericolose, ben prima del coronavirus che in quei contesti rischia di dilagare.  L’investimento nel sociale, anche tramite una riforma del servizio professionale, è un non detto. Non supereremo la crisi lasciando queste parti invariate, nelle loro difficoltà. Serve agire subito: riportare, il più possibile, a casa anziani e detenuti per creare altri modelli di assistenza, cura, e reinclusione sociale. Il timore di abbandono dei malati mentali, la difficoltà a rispettare le misure, i problemi dei servizi sono stati oggetto di diverse prese di posizione. Le preoccupazioni espresse riguardano anche il futuro di servizi, già in precedenza in grave difficoltà per definanziamento, incertezze e disinvestimenti progettuali, per una loro temuta inutilità e quasi inesorabile marginalità.
I servizi per la salute mentale e le dipendenze patologiche
I servizi nell’arco di pochi giorni sono stati orientati ad occuparsi dell’E-U, ad assicurare la continuità di cura riducendo al contempo gli accessi programmati e sviluppando forme di relazione a distanza.
La parte più segnata dal cambiamento è stata quella della semiresidenzialità, basata su un movimento quotidiano tra casa e il servizio e su una prolungata permanenza in contesti affollati ritenuti pericolosi per la diffusione dell’infezione. Colpisce come in pochi giorni molti utenti (circa 50) abbiano trovato alternative e come i servizi abbiano attivato nuove forme di sostegno, ad esempio per i pasti, siano diventati dinamici, superando in un solo colpo normative e limiti vari. Le persone vanno attivamente sostenute, anche con interventi economici e Budget di salute, talora resi difficili da continuare non solo per le intervenute normative ma per mancanza di dispositivi di protezione individuale, carenze di personale.
Dobbiamo comprendere quale è e sarà la ricaduta di questa riduzione della socialità, del lavoro di gruppo, di progettualità formative e lavorative, specie se dovesse essere a lungo termine. Tuttavia non sfugge come nella crisi si siano attivate energie, possibilità, in passato non emerse, forse per routine rassicuranti o a seguito di riunioni talora rituali.
In relazione alle disposizioni le Residenze Psichiatriche si sono un po’ chiuse (meno uscite, meno visite di parenti e amici), pensando in tal modo di riuscire a prevenire l’infezione. All’interno non sono mancati vari campanelli di allarme affrontati cercando di utilizzare le stanze singole e di richiedere forme di isolamento in struttura, spesso difficili da attuare.
Il rischio infettivo, certamente presente talora non si è commisurato con l’altro rischio quello psichiatrico, di omissioni, cure inappropriate, di regressione, di scompensi psicopatologici.  Oggi occorre andare verso una valutazione bilanciata, relazionale e contestuale dei diversi rischi. Si è visto quanto siano rilevanti gli spazi, essenziali le stanze singole, un numero di degenti inferiore a 15 ma dove possibile a 10. Si è visto anche come telefonicamente o tramite servizi (pasti e farmaci) siano stati essenziali per mantenere a casa, in salute, numerosi utenti.
Per il prossimo futuro, sarebbe assai grave se sotto la spinta della paura del virus e quindi dell’estraneo, riprendessero in nuove forme la xenofobia, il razzismo o si arrivasse su base igienica a sancire strutture residenziali sempre più chiuse e magari segreganti e neomanicomiale. Non sconfiggeremo così il virus e diverranno virali lo stigma e il pregiudizio portando a richieste di esclusione sociale sulla base di possibile pericolosità infettiva. Ci sono segnali incoraggianti di una nuova spinta motivazionale nei giovani verso la cura, la solidarietà, in grado di coniugarsi con quella più datata ma ancora esistente, della riforma psichiatrica.
Gli utenti nella stragrande maggioranza hanno capito e collaborato. Diversi si sono adattati senza problemi ad una permanenza domiciliare, stressante per il rischio infettivo ma assolutamente tranquilla per quanto attiene la domanda e l’attesa sociale: basta restare a casa. Molte questioni esistenziali sono in parte sopite da una grande tragedia comune. Qualche tensione in più vi è con pazienti richiedenti e con dinamiche familiari ad alte emotività espressa. Qualche utente è stato ricoverato per l’infezione e al momento abbiamo avuto anche un paio di decessi di pazienti.
L’ambito dei minori è quello più difficile perché è venuto meno sia il riferimento scolastico sia quello sociale connesso con lo sport, il tempo libero, la cultura. Il minore è in famiglia. Per quanto si sia attivato il lavoro a distanza, diverse attività nella massima sicurezza, vanno riattivate. Non si tratta tanto di “autorizzare” qualche uscita in più, ma di riprendere in forme responsabili e tutelate da dispositivi e test, attività semiresidenziali e domiciliari. Certo chiamando tutti alla massima collaborazione, alla prevenzione ma ragionando realisticamente davvero sul rischio infettivo dei minori e delle persone che si occupano di loro. Ne è una prova la Residenza per minori che in queste settimane, è stata sottoposta a isolamento vista la presenza di casi positivi tra gli operatori.
Nelle dipendenze patologiche l’attività di E-U e di continuità di cura è stata sempre garantita, valutando per ogni persona anche il rischio infettivo e dando, come da normativa, le necessarie indicazioni. Come noto l’utenza delle DP è molto variegata e la parte che presenta marginalità sociale, “senza tetto” presenta per queste stesse ragioni un rischi aggiuntivi anche in relazione alle mutate dinamiche familiari e sociali, non ultima le variazioni del mercato illegale. Si tratta di riprendere gli accessi nelle Comunità Terapeutiche, magari con una fase di osservazione iniziale in sicurezza.
La scoperta della relazione “a distanza” rispetto alla tecnica classica, lo smart working hanno riarticolato le relazioni e fatto in questo modo, della casa della persona, un ambito di intervento. In poco tempo si sono affrontati temi come quello delle psicoterapie a distanza, dell’uso delle tecnologie (filmati, file audio, invio materiale power point, app., piattaforme, audiolibri ecc.), di cellulari e tablet.
I primi dati fanno pensare come queste forme possano essere mantenute nel tempo, formalizzandole meglio e vedendone anche i limiti e i punti critici come ad esempio la rilevanza della relazione non verbale, dell’interazione “vis a vis”, dell’importanza del setting, di atmosfere e terapie d’ambiente.
La permanenza a casa pur con tutte le tecnologie e i comfort (che spesso mancano) non può essere l’unico ambito e resta fondamentale sia l’incontro tra persone che il viaggio, interiore e reale. Ancora il rapporto con il corpo, la sua presenza oggi da proteggere rispetto al virus, è fondamentale per la salute fisica e psichica. Gli uomini hanno bisogno di relazioni, di “fare assieme” e non possono essere entità dematerializzate e sterilizzate. La pandemia ha favorito una sperimentazione importante di cui vedremo i risultati.
I servizi di salute mentale, nella complessa articolazione tra ospedale e territorio hanno finora trovato la forza di rispondere in modo abbastanza adeguato ai bisogni delle persone e questa fase potrebbe spingere aventi l’innovazione e andare verso una migliore domiciliarità ed un’auspicata declinazione delle residenze come servizi di comunità. Sul piano sociale si nota una maggiore sofferenza mentale, più diffusa, capillare ma con relative meno urgenze e TSO. Potrebbe essere tutto temporaneo e la situazione deflagrare di fronte al perdurare delle limitazioni, alla crisi delle famiglie, all’angoscioso perdurare della pandemia, al divenire economica e sociale della crisi. Con una parte rilevante degli utenti con bisogni complessi, i nostri interventi sono biopsicosociali e come tali, nella sicurezza dovranno riprendere.
Nella pandemia abbiamo assicurato anche servizi nuovi di sostegno psicologico agli operatori che sono indubbiamente a rischio per lo stress, le grandi responsabilità, il confronto con la sofferenza e la morte in un contesto molto difficile e contraddittorio che non esita a passare dall’idealizzazione (eroi) all’attacco diretto o in sede giudiziaria.
Con la psicologia clinica e la Società Italiana Psicologica delle Emergenze si è anche organizzato il supporto alle famiglie nella consapevolezza che superata l’emergenza, specie per il lutto si debba fare riferimento alle dinamiche culturali e religiose delle nostre comunità, oggi quasi pietrificate di fronte ad una morte solitaria, asettica e tecnologica. Tuttavia il bisogno di interventi psicologici e psichiatrici si evidenzia anche per i dimessi (rischio di Dist. Post traumatici) e potrebbe essere un’occasione per definire le la tipologia di interventi nelle cure primarie.  Questo anche per affrontare le sofferenze legate all’isolamento, alla paura, che può divenire angoscia e talora evitamento fobico o timori più gravi con rischi anche di tipo autolesivo.
Conclusioni
Siamo nel mezzo della pandemia e non è possibile concludere se non continuando a seguire a vista la sua evoluzione. Ora è troppo presto ma emerge con forza la necessità di riattivare in sicurezza i percorsi di cura, individuali e per piccoli gruppi. Per questo occorrono i dispositivi la cui carenza è ancora molto grave.
Insieme a questo si farà più forte il, già presente, tema delle povertà, delle ingiustizia e della crisi sociale che s’intrecceranno inevitabilmente tra di loro, assumendo forme nuove e non sempre prevedibili. C’è bisogno dei valori della 180: diritti, speranza, fiducia, competenze ed etica.
Non è questo il momento di approfondite analisi. Oggi non è rilevante sapere chi ha tagliato posti di letto, sbagliato la programmazione dei medici, ma persino quella degli acquisti. Forse si è andati fuori strada quando, sotto la spinta di “dotti maestri”, si è teorizzato e praticato l’assenza del magazzino, il costo degli stoccaggi perché tutto doveva andare on line, l’accorpamento dei servizi, l’aziendalismo spinto come se la sanità fosse una normale “factory”? O quando la programmazione aziendale lineare e rigida, tutta razionale ha espulso l’incertezza, l’errore, l’emergenza, eccettuata quella statisticamente prevedibile, in altre parole l’umano. La programmazione lineare che esclude l'inatteso, l'incertezza crea un’istituzione tanto perfetta quanto inesistente. Quindi è dalla complessità, dai valori umani, etici, professionali che possiamo ripensare diritti e salute anche quella mentale, nell’intero arco di vita della persona nella comunità, ridando così centralità e futuro ai servizi.
 
Maria Bianco , direttore della UOC di Pieve di Soligo , che fa parte del DSM della provincia di Treviso mi manda una mail :  
Caro  Gerardo,
Provo anche io a dare un contributo al collage di riflessioni che stai raccogliendo, ringraziandoti dell’opportunità per gli operatori della Salute Mentale di confrontarsi e sentirsi meno soli (ma questo non metterlo nel diario, se pensi che il contributo possa essere utilizzabile).
 
Anche nel mio Servizio come negli altri dei quali leggo nel “Diario”, nelle ultime settimane le energie di tutto il personale sono state soprattutto impiegate per fronteggiare l’emergenza Covid19, seguendo e adattando alla nostra realtà le indicazioni regionali e aziendali, inevitabilmente rapide e talvolta contraddittorie.
L’attività e le abitudini di SPDC sono state modificate in funzione della necessità di proteggere gli utenti e gli operatori e stiamo di volta in volta   collaborando con gli altri reparti di area medica nella gestione del ricovero di utenti con comorbilità organica, per i quali in questo periodo ogni protocollo non sarebbe abbastanza specifico.
L’organizzazione delle strutture residenziali anche è stata adeguata sulla base di criteri e indicazioni improntati alla sicurezza e stiamo valutando la possibilità di attivazione di un nucleo dedicato ad eventuali situazioni che necessitino di isolamento, non potendo prevedere la durata e gli strascichi dell’epidemia.
L’assistenza territoriale è stata temporaneamente ridotta, sempre giustamente per ottemperare alle norme di contenimento dell’epidemia, nella tutela di pazienti e operatori e cercando di garantire, oltre alla dovuta risposta nelle situazioni di urgenza, la continuità delle cure alle persone con disturbi psicotici, disturbi affettivi e disturbi gravi della personalità..
Certamente la sicurezza sarà una priorità per i nostri Servizi per un tempo indefinito e dovremo  dedicarci alla prevenzione, alla gestione del rischio clinico, trovandoci a fare i conti come tutte le altre Unità Operative con la carenza di dispositivi di protezione individuale e con le procedure di sorveglianza sanitaria.
Poiché inevitabilmente le misure di protezione corrispondono ad oggi e corrisponderanno anche in seguito ad una limitazione  dei contatti con il Servizio da parte dell’utenza,  la prima questione che mi pongo è come assicurare l’accessibilità alle cure ai nostri utenti. Di certo la difficoltà a chiedere aiuto e ad ottenere le  cure precocemente saranno peggiorate da questa situazione e uno dei nostri sforzi da subito non potrà che essere trovare e mantenere forme di accessibilità complementari alla prossimità e al contatto diretto, non più garantibili a tutta l’utenza.
La seconda questione che sento di condividere è come prendersi cura  delle equipe di lavoro, come mantenerle vitali, in questo periodo in cui sono attraversate da emozioni negative e necessariamente e opportunamente soprattutto aggiornate sui rischi che tutti corriamo, su come proteggersi e come limitare le attività di sempre.
Pe fortuna è scontato che una delle risorse a nostra disposizione per iniziare ad approntare una qualche risposta ad entrambe le questioni  possa essere l’utilizzo della tecnologia. Per lungimiranza della Direzione  del nostro DSM degli anni passati, le sedi del mio Servizio sono già dotate di  postazioni per la videoconferenza. Abbiamo inoltre avuto la possibilità a livello dipartimentale di sperimentarci nella telepsichiatria per il trattamento della depressione e i contatti con i Medici di Medicina Generale.  Da questa esperienza sicuramente si può prendere spunto nella pianificazione di ulteriori modalità di collaborazione con i servizi territoriali, per garantire e mantenere l’accessibilità dell’utenza e nell’organizzazione dell’attività di servizio.
Come primo tentativo operativo,  stiamo cercando di sviluppare un progetto di cura per le situazioni di disagio psichico, correlate all’emergenza Covid, mediante uno percorso dedicato, in collaborazione con lo sportello di ascolto già esistente presso il Comune di Conegliano.
Stiamo inoltre recuperando la regolarità nelle nostre riunioni di servizio, in videoconferenza, aumentando anziché ridurre,  i contatti indispensabili tra noi operatori del Servizio  per la condivisione e gestione delle emozioni che attraversano le équipe, nonché per  le discussioni dei casi clinici e la stesura dei progetti terapeutici per ogni utente.
Stiamo  cercando infine di riprogrammare a distanza per i mesi a venire, anche in videoconferenza,  la formazione già pianificata per il gruppo di lavoro.
Sono piccoli passi, tentativi di essere propositivi , mantenendo i punti di riferimento e i valori alla base dell’operato dei nostri Servizi.
 
 

 

[1]“ Coronavirus, studio su Nembro: «Il numero vero di morti è almeno 4 volte quello ufficiale” Il divario con i dati storici. «Molti decessi non vengono classificati come Covid-19 perché non si fanno i tamponi alle persone decedute»
di Claudio Cancelli, Luca Foresti, Corriere della Sera, 26 marzo 2020. https://www.corriere.it/politica/20_marzo_25/numero-vero-morti-covid-19-almeno-4-volte-quello-ufficiale-eebbe3ae-6eb8-11ea-925b-a0c3cdbe1130.shtml
[2] “Coronavirus. Medici di famiglia ‘inermi’ senza piani terapeutici e scollegati dall’ospedale. Scotti (Fimmg): “Cosa andiamo a fare dai pazienti? Per vederli morire e infettarci anche noi?” Giovanni Rodriquez  QS 25 marzo 2020 http://www.quotidianosanita.it/studi-e-analisi/articolo.php?articolo_id=83073&fr=n

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