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DALL’ISTERIA AL CORONAWITZ

4 Apr 20

Di MARIO-SASSO
Marzo sta levando l’àncora, dopo aver trafugato indegnamente parte della nostra apparente libertà di spostarci in giro. I giornali, i notiziari, i social tuonano intorno alla imbarazzante e implacabile tragedia offerta all’homo sapiens dal nanoscopico virus che ha giocato e che, per caso, ha vinto più di qualche round. È sabato mattina e io ho appena concluso il mio not-turno di guardia nel reparto di psichiatria presso cui presto servizio come medico in formazione specialistica. Fuori il sole è un accattivante e terso sorriso ma si rientra a casa: imperversa la stagione del coronavirus.
 
Dell’homo scientificus ovvero sulle origini della psicoanalisi
Nel 1885 Freud, in seguito alla sua esperienza di neurofisiopatologo formatosi secondo l’insegnamento della scuola tedesca, che riconosceva in Meynert il suo esemplare esponente e che propugnava il paradigma secondo cui ciò che è clinico va ricondotto ad un danno organico, tese i remi verso l’isola di Charcot approdando all’Ospedale della Salpêtrière. Dalla posizione fisiologico-esplicativa cui era votata la medicina tedesca, Freud scorse con salvifica lungimiranza la lettura clinico-descrittiva del maestro francese, il quale tendeva a presentarsi come un visuel, uno che vede: una meticolosa e imparziale osservazione che andasse oltre il limite del pregiudizio, oltre il limite del già noto, costituiva la matrice del suo metodo. Si stabiliva il primum movens metodologico per la nascita dei testi freudiani, consacrando una tradizione clinica che si ritrova esemplificata da Lacan (1956) nel Seminario su La lettera rubata che fa da ouverture agli Scritti del 1966, nel pieno della tradizione strutturalista francese. Charcot, apprezzando la clinica proteiforme dell’isteria, aveva introdotto il concetto di lesione cerebrale dinamica, dando a Freud (1891) la possibilità di concepire L’interpretazione delle afasie, testo escluso dal corpus delle Opere,  in cui il paradigma secondo il quale dovesse sussistere una corrispondenza biunivoca tra i punti della superficie corporea e il cervello era rigettato via Stilling (Napolitano, 2012): attraverso un processo di condensazione molte fibre afferenti dalla periferia proiettano caudo-cranialmente verso un’unica stazione che funge, pertanto, da rappresentante dei loci sensibili periferici. Dunque la realtà non è data direttamente ma risulta rappresentata. L’oggetto, ob iectum, ciò che si pone avanti, cioè ciò che è percepito, va perduto e ‘ritrovato’ nella misura in cui assume il carattere di rappresentazione: è quel che Lacan intende con l’espressione ‘il significante uccide la Cosa’. Allo stesso tempo però il significante che cancella la Cosa per rappresentarla psichicamente è un oggetto nuovo, un oggetto di discorso, che permetterà di pensare e di dire, istituendo un registro, quello simbolico, che intrappolerà l’essere naturale dell’uomo. Nasceva una nuova epistemologia, sebbene il giovane padre della psicoanalisi, figlio del fisicalismo fechneriano (è pur vero che Freud è figlio anche del realismo indiretto di Du Bois- Reymond), fosse giunto a collocare inizialmente la sua creatura tra le scienze naturali, con cui essa condivide il metodo ipotetico-sperimentale.
È il 1 dicembre 2019: il Lancet indica questa data come quella in cui si sono manifestati in un 55enne dell’Hubei i primi sintomi del contagio da parte del virus che solo a metà dicembre è stato poi riconosciuto essere un coronavirus di ‘nuova generazione’, il cui serbatoio è rappresentato dai chirotteri e che, per il fenomeno conosciuto come spillover, evidentemente per mezzo di una modifica della proteina di accesso alle cellule, è giunto ad infettare l’uomo. Poco di certo, finora.
Di seguito proverò ad elaborare un allineamento tra il campo del linguaggio e una visione antinaturalistica della biologia per giungere ad un parallelismo tra i fenomeni genetici dello spillover e del Witz, per poi arrivare a convocare la dimensione del perturbante freudiano.  
Risulta necessario introdurre il toro, una figura topologica presentata da Lacan (1953) in Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, nel cui spazio chiuso viene iscritto il linguaggio, ‘in quanto la sua esteriorità periferica e la sua esteriorità centrale costituiscono una sola regione’.
 

Lo spazio centrale, vuoto, intorno al quale si struttura la figura topologica, è rappresentato dall’oggetto perduto di freudiana memoria, quello non più offerto alla percezione ma elaborato dal sistema delle Vorstellungen, delle rappresentazioni, che tenta di coglierlo laddove esso manca, per condensazione e dunque per associazioni di significanti. Infatti, l’oggetto naturale, il reale- per così dire- non può che essere indicato dal linguaggio, che col suo sistema di rappresentazioni mai giunge a coglierlo direttamente in quanto tale. L’oggetto può essere rincorso, può essere formalizzato, ma mai acciuffato, perché è sempre dal significante, dalla geometria del toro, che si passa e ciò comporta di per sé una mediazione che, se si preferisce, è prima di tutto di natura anatomica, come visto sopra in riferimento al testo neurologico del giovane Freud: la proiezione che dalla periferia giunge alla corteccia è soggetta ad associazioni, a decussazioni, a proiezioni. L’esteriorità interna che però la dimensione significante possiede – come ben esemplificato dall’immagine del toro- allude, a mio avviso, all’aspetto sensibile, percettivo, prossimo alla Cosa (il vuoto centrale) rappresentato dall’articolazione periferica della parola stessa per mezzo degli organi fonatori, che residua al processo di passaggio dal mezzo motorio al mezzo linguistico- un passaggio proprio dell’evoluzione ‘al risparmio’ – come strumento per esprimere le emozioni. In principio era il gesto- cioè la motilità-  sostituito poi dal ‘gesto verbale’ (Leroy-Gourhan, 1964; Corballis, 2002).
Lacan (1953), nella formulazione della sua clinica, si serve dell’insegnamento della linguistica strutturale- come prima accennato- che ha come capostipite Saussure (1922). Si tratta di un anti-sostanzialismo (Miller, 1985).
“Tutto ciò che precede si risolve nel dire che nella lingua non ci sono che differenze. Di più: una differenza suppone in generale dei termini positivi tra i quali essa si stabilisce; ma nella lingua non vi sono che differenze, senza termini positivi” (Saussure, 1922).
Così leggiamo nel Corso di linguistica generale di Ferdinand de Saussure (1922). Secondo tale costrutto, via Miller (1985), giungiamo a considerare che non esiste consistenza, sostanza cioè, in ciò che è linguaggio, ma solo differenze tra termini, il cui numero minimo è due. Dato che gli elementi non sono positivi, le loro proprietà essenziali riguardano il posto che essi occupano nella rete delle relazioni.
Propongo dunque di considerare nella stessa direzione la concezione biologica di Sonigo e Kupiec (2000), che leggono la teoria darwiniana dell’evoluzione come scevra di un sostanzialismo ma in diretta continuità col nominalismo che era stato di Guglielmo d’Ockham, considerando non ‘cosa sono le specie, ma cosa fanno’ (Laurent, 2004). La specie, pertanto, come il significante per la linguistica strutturale, è letta da tale visione nella sua evoluzione, nella progressione, nel moto, più che nella staticità che sarebbe offerta da una proprietà deterministica specifica. Viene altresì elisa dagli autori la nozione di linguaggio come ridotto ad un meccanismo codice-messaggio, così come viene abrogata la concezione che vorrebbe la netta equazione tra codice genetico ed essenza del vivente. Non esiste perciò un genoma assoluto, che rinvenuto nell’individuo della specie lo determini in modo esaustivo e definitivo, bensì esiste un’epigenetica. Precisa a tal proposito Eric Laurent (2004) che ‘la contingenza di una posizione topologica e la selezione per mezzo della ricezione potrebbero essere più importanti per l’attivazione di un gene che la loro significazione determinata da un cosiddetto programma’. Mi pare un’interessante lettura antinaturalistica che correla con la concezione lacaniana per cui ci sarebbe del simbolico nel reale. Per dirla breve: pezzi di reale possono, per il tramite del linguaggio, produrre molteplici ed equivoche letture a seconda del posizionamento della cornice di lettura stessa. È quanto accade anche per i fenomeni genetici: sostituzioni di basi azotate, avvii a livelli differenti della trascrizione, silenziamenti, ecc. È d’uopo ora riprendere il commento che Lacan (1957-1958), nel suo V seminario, articola rispetto al Witz freudiano, il motto di spirito. Questo sarebbe un significante nuovo che sfugge al codice, un nuovo che in una famiglia di significanti già esistenti è in grado di produrre senso, cioè in definitiva di avere effetti nel reale (Laurent, 2004). Una battuta produce una risonanza nell’interlocutore quando è dotata di senso, di un senso nuovo: non fa ridere ciò che è già sentito. Risulta necessario, però, che esista l’Altro a cui il motto di spirito venga rivolto. E questo Altro dev’essere tutto fuorché astratto (Lacan, 1957-1958). Pensiamoci: un motto di spirito che si serva di un linguaggio ingegneristico sarebbe a malapena compreso da un gruppo di psichiatri, così come del resto è molto semplice che dei lacaniani fraintendano dei Witz freudiani! Nella direzione antinaturalistica tracciata prima- in cui pure un codice genetico è soggetto allo statuto del linguaggio- mi pare interessante leggere il fenomeno dello spillover– che ha del resto prodotto un effetto domino sostanziale e dereistico a livello mondiale- come assai affine alla burocrazia del Witz.
Forse è il momento delle citazioni a sproposito: ‘una risata vi seppellirà!’.
Credo che l’esclamazione di Bakunin renda in modo più incisivo e netto la corrispondenza che intendo sottolineare. Sars-CoV2 è un virus a RNA, il cui genoma è breve e meno stabile di quello dei virus a DNA, e così più soggetto a mutazioni. Non si sa molto della mutazione specifica che ha permesso il salto di specie ma conosciamo abbastanza delle mutazioni in generale da poterci prefigurare l’assonanza strutturale tra queste e il meccanismo genetico dei motti di spirito, nella fattispecie di quelli prodotti per mezzo della ‘condensazione più lieve modificazione’ (Freud, 1905). Si ricordi l’esempio citato da Freud (1905):
“‘Ho viaggiato tête-à-bête con lui.’ Nulla di più facile che ridurre questo motto. Non può essere che così: “Ho viaggiato tête-à-tête con il signor X., e il signor X. è una stupida bestia. […] Il motto si produce solo quando la “stupida bestia” viene lasciata cadere e, in cambio, in una delle due tête la ‘t’ viene sostituita con la ‘b’.” (Freud, 1905)
Allo stesso modo può prodursi una mutazione genetica nel genoma virale. Perché questo fenomeno accidentale si realizzi è necessario che una cellula eucariotica accolga il codice virale all’interno del genoma a DNA. Al virus è necessario un serbatoio altro, all’interno del quale possa pertanto maggiorarsi il libbraggio del suo arco d’azione, così come al motto di spirito urge essere riconosciuto da un altro per essere efficace.
La categoria del nuovo, cui giungiamo per accomunare da un’ottica linguistica il Witz e lo spillover, ci pone di fronte alla possibilità che tale novità possa scivolare verso la semantica del perturbante, di ciò che evoca angoscia e terrore, di ciò che è dell’ordine dello spaventoso.
Nel 1919 Freud scrive quanto segue:
“La parola tedesca unheimlich [perturbante] è evidentemente l’antitesi di heimlich [confortevole, tranquillo, da Heim, casa], heimisch [patrio, nativo], e quindi familiare, abituale, ed è ovvio dedurre che se qualcosa suscita spavento è proprio perché non è noto e familiare. Naturalmente, però, non tutto ciò che è nuovo e inconsueto è spaventoso, la relazione non è reversibile; si può dire soltanto che ciò che è nuovo diventa facilmente spaventoso e perturbante; alcune cose nuove sono spaventose, ma certo non tutte. Bisogna aggiungere qualcosa al nuovo e all’inconsueto perché diventi perturbante.”
Rileggendo Il mago sabbiolino dei Notturni di Hoffmann, Freud (1919) si cimenta in una esplorazione etimologica del termine tedesco che sta per perturbante: Unheimlich. Heimlich, il suo contrario, reca con sé il significato di familiare ma anche- nota ancora Freud- di nascosto, celato, segreto. Dunque il perturbante è ciò che non è familiare ma anche ciò che non è più nascosto, di fatto non più rimosso. Il perturbante, perciò, è l’eco di ciò che fa il suo ritorno dal rimosso: familiare perché appartenuto alla vita psichica infantile, orripilante perché non ammesso alla coscienza, al regno della vita adulta.
Avendo sopra ‘snaturato’ l’essenza del virus, per stabilire il suo funzionamento e il suo salto di specie come fenomeni di linguaggio, proverei ora a trasporre la sua condizione in quella topologica del toro, dettando la sua planimetria in termini significanti, dunque prendendolo a oggetto dotato di una esteriorità periferica e di una esteriorità centrale: il virus, infatti, colonizza le cellule dell’organismo che lo ospita, presenziandosi come una ‘extimitè’, una carogna esterna nel cuore più profondo dell’individuo.
Il sentimento che coinvolge la popolazione in quarantena ha il carattere- è evidente- del perturbante freudiano: le persone sono spaventate, impaurite, inorridite perfino; sperimentano una profonda estraneità rispetto alle proprie esistenze. Suppongo, tornando al testo freudiano del 1919, in cui il perturbante è letto come effetto affettivo dello svelamento di ciò che è rimosso, che il virus preso nella trama dei significanti- in quanto estraneo dall’interno- possa essere collocato in una dimensione analoga a ciò che fa il suo ritorno dalla rimozione. È l’oggetto nuovo, che nella sua dinamica interno-esterno si colloca in una dimensione familiare, perché è un nuovo che riappare dall’interno: è il rimosso che si manifesta dalla penombra della rimozione. Per rimosso s’intenda propriamente la sessualità infantile che va archiviata per consentire l’accesso alla sessualità adulta. Nella stessa direzione Freud (1919) affronta pure la tematica del Doppio, del sosia, del gemello nascosto in soffitta, l’altro speculare che fa da tenuta a un’immagine corporea non strutturata. L’infezione, nella misura in cui riporta l’Io del soggetto infetto o del soggetto che teme di esserlo in una raffigurazione in cui non è tracciato nettamente un confine tra ciò che è fuori e ciò che è dentro- perché il virus è un estraneo nel nucleo interiore del corpo- induce la vita a sprofondare nelle angosce primarie di quell’epoca in cui non esisteva un corpo distinto dal corpo della madre, in cui non si era confezionato l’Io come para eccitazione (Freud, 1895), come pelle che chiudesse l’interno dai colpi della realtà esterna e dell’altro. È come se l’adulto, che ora è invaso dal virus che proviene dall’altro, si ritrovasse a sperimentare un ritorno al passato arcaico in cui non aveva una statura narcisistica sufficiente alla sua indipendenza.
Ci sarebbe da interrogarsi, infine, circa la questione epistemologica che è posta in cogente risalto dalla possibilità di rilettura in chiave linguistica perfino dei fenomeni biologici. La scienza è prima di tutto un apparato simbolico che tenta di bordare la realtà, di acciuffarla come si diceva sopra a proposito del linguaggio: tenta, cioè, di coprire il vuoto scavato dall’assenza dell’oggetto. Si riveda, ancora, la geometria del toro. Prendendo in prestito la nozione di delirio generalizzato proposta da Miller (1989), cioè la nozione di delirio in quanto formazione di linguaggio montata su un vuoto, su un’assenza, in questo senso rappresentata dall’innovazione procurata al mondo umano dallo spillover stesso, va considerato che il discorso scientifico è evidentemente fallimentare nel tentativo di prontezza che la pubblicità che dà di se stesso l’homo scientificus propone: manca una cura, manca un vaccino, manca un’epidemiologia, manca una programmazione degli interventi. Il meccanismo si è inceppato- per quanto sia consapevole delle enormi ingerenze degli atti politici ed economici in questo senso- a testimonianza del fatto che nella sua opera di ricostruzione, come nelle fasi iniziali di una produzione delirante non del tutto strutturatasi, la scienza arranca e inciampa di fronte a ciò che avverte come nuovo e reale, nel senso di estraneo all’ordine simbolico di cui la realtà è sempre preda.

 
BIBLIOGRAFIA
Corballis M.C. (2002). Dalla mano alla bocca. Le origini del linguaggio, Cortina, Milano, 2008.
Laurent E. (2004). L’origine dell’Altro e l’oggetto post-traumatico, in: Lost in cognition. Psicoanalisi e scienze cognitive, Quodlibet, Macerata, 2006.
Freud S. (1891). L’interpretazione delle afasie, a cura di Napolitano F, Quodlibet, Macerata, 2010.
Freud S. (1895). Progetto di una psicologia, O.S.F., vol. 2, Boringhieri, Torino.
Freud S. (1905). Il motto di spirito e la sua relazione con l’inconscio, O.S.F., vol. 5, Boringhieri, Torino.
Freud S. (1919). Il perturbante, O.S.F., vol. 6, Boringhieri, Torino.
Kupiec J-J., Sonigo P., Ni Dieu ni gène, Seuil, Paris, 2000.
Lacan J. (1953). Funzione e campo della parola e del linguaggio in psicoanalisi, in Scritti, Einaudi, Torino, 1974.

Lacan J. (1956). Il seminario su “La lettera rubata”, in: Scritti, Einaudi, Torino, 1974.

Lacan J. (1957-1958). Il seminario. Libro V. Le formazioni dell’inconscio. Testo stabilito da Jacques-Alain Miller. Nuova edizione italiana a cura di Antonio Di Ciaccia, Einaudi, Torino 2010.

Miller J.-A. (1989). La psicosi nel testo di Lacan, in: I paradigmi del godimento, Astrolabio, Roma, 2001.
Miller J.-A. (1985). S’truc dure, in: I Paradigmi del Godimento, a cura di Antonio Di Ciaccia, Astrolabio, Roma, 2010.

Napolitano F. (2012). Sull’origine del concetto freudiano di Repräsentanz, in: Il linguaggio delle afasie, a cura di F. Scalzone e G. Zontini, Liguori Editore, Napoli, 2013.
Saussure F. de (1922). Corso di linguistica generale, Laterza, Roma-Bari, 1965.
 
 
 

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