They just fade away
Alla vigilia del 25 aprile, nella sua casa silenziosa e assolata, dalle pareti fasciate di libri, sulla collina del Vomero, in una Napoli quarantenata, deserta e spettrale, l’insigne filosofo Aldo Masullo, infine, ci ha lasciati. Era nato nel 1923, proprio come Bruno Callieri, con il quale, spesso, l’ho sentito scommettere su chi dei due avesse superato l’altro in longevità, con il rammarico che il vincitore, rimanendo senza il vinto, non avrebbe mai goduto della vittoria. Aldo Masullo era venuto al mondo proprio ad aprile, il 12, ed è andato via il 24, in qualche modo portato sulla terra, e poi portato via dalla terra, proprio da quel vento di aprile, della cui bellezza dice il poeta Ezra Pound: “Parlo della bellezza. Non ci si mette a discutere su un vento d'aprile. Quando lo s'incontra ci si sente rianimati. Ci si sente rianimati quando si incontra in Platone un pensiero che corre veloce, o un bel profilo in una statua.“ Questa era l’impressione che tutti avevamo, quando incontravamo e ascoltavamo Aldo Masullo. A mano a mano che il suo dire si strutturava, lo stato d’animo di chi lo ascoltava mutava; mentre egli sviluppava (sentiva e pensava) il suo discorso (pulsante come un cuore, mai letto, sempre a braccio), si smuoveva e si accendeva, tra gli astanti, il fuoco di uno speciale mood o di una vitale Stimmung. Finalmente, alcuni capi concettuali perduti si collegavano tra di loro. La vita ricominciava a fluire.
Per la morte di Bruno Callieri, sul numero 23 della nostra rivista “Comprendre”, interamente dedicato a Callieri, Masullo, su mio invito, aveva scritto un saggio meraviglioso, a cui rimando, dal titolo “I paradossi dell’incontro e l’esercizio psicopatologico in Bruno Callieri.” Sempre aperta era la sua casa al dialogo. Gli avevo inviato, circa dieci anni fa, prima il giovane Laerte Vetrugno, da Chieti, ad intervistarlo, in occasione della sua tesi di Laurea Magistrale in Psicologia, poi esitata in un articolo dal titolo “Fenomenologia del patico e gruppoanalisi dell’esserci”, con la supervisione mia e di Stanghellini, pubblicato sul numero 24 di “Comprendre” poi, più recentemente, nel 2017, gli avevo inviato un altro giovane psicologo, Antonio Fraudatario, per un’intervista: “Consigli “patici” di un filosofo ai giovani psicologi”, pubblicata sul numero 27-30 di “Comprendre”. “Di fronte a me c’è un secolo -scriveva Fraudatario- un uomo cronologicamente quasi secolare. Paticamente un uomo non solo custode del Tempio della vita e della saggezza, ma un ponte solido gettato tra le epoche, da quella classica ellenica, fino ad arrivare alla nostra precaria e travagliata postmodernità. Il professore fa portare un buon caffè, consumato il quale ci mettiamo comodi e iniziamo a dare forma all’intervista”. Masullo era nato ad Avellino, poi la sua famiglia si era trasferita a Torino, e poi a Nola aveva trascorso la sua giovinezza.
Tra i suoi amori c’era il grande Giordano Bruno, il filosofo anarchico e ribelle, suo conterraneo.
Da giovane, Masullo era stato testimone diretto del primo eccidio nazista al Sud dopo l’8 settembre 1943 : la fucilazione di un drappello di militari italiani del 12mo reggimento di artiglieria, di stanza a Nola, che aveva resistito eroicamente alla divisione corazzata “Goering”, che si andava attestando per fronteggiare lo sbarco alleato a Salerno. In quell’occasione il giovane tenente Enrico Forziati, brillante avvocato, si offrì al plotone di esecuzione al posto di un soldato che aveva famiglia. Come accaduto per altri pensatori, la cui vita è stata attraversata dalla tragedia, per la teoresi di Masullo il dolore dell’esistenza, la sua precarietà e la prossimità alla morte hanno rappresentato sempre un nodo inaggirabile, un grumo incomunicabile e, soprattutto, irrisolvibile.
Tra i suoi molti libri “Struttura soggetto prassi” (Libreria scientifica editrice, 1962), “Il senso del fondamento” (Libreria scientifica editrice, 1967), “Fichte: l'intersoggettività e l'originario” (Guida editori, 1986), “Filosofie del soggetto e diritto del senso” (Marietti, 1990), “Il tempo e la grazia. Per un'etica attiva della salvezza” (Donzelli, 1995), “Paticità e indifferenza" (Il Nuovo Melangolo, 2003), “La libertà e le occasioni” (Jaca Book, 2011). Il soggiorno di studio a Friburgo del 1957-58 aveva consentito a Masullo di approfondire lo studio della Fenomenologia e di conoscere il pensiero del neuropsichiatra e filosofo tedesco Viktor von Weizsaecker, che morì ad Heidelberg proprio nel 1957, il quale, ispirandosi a Freud e a Scheler, nella galassia di quella “filosofia della vita” (Lebensphilosophie) che vide protagonisti non pochi psichiatri, aveva sdoganato, nel linguaggio filosofico e scientifico, il concetto di “patico”, introdotto negli anni trenta da Erwin Straus, destinato a giocare un ruolo cruciale nel pensiero di Masullo. A Friburgo Masullo aveva frequentato i circoli husserliani capeggiati dall'allievo di Husserl, Eugen Fink e, tornato in Italia, aveva tradotto e commentato alcuni testi di Husserl (Logica, psicologia, filosofia. Un'introduzione alla fenomenologia, Napoli, Il Tripode, 1961). Masullo, dunque, elaborando gli stimoli dell'antropologia medica di Weizsäcker, ha fatto molto proprio il concetto di “patico” (che qui cercherò di esporre a grandi linee, soprattutto per le sue potenti ricadute in ambito psicopatologico-clinico e psicoterapeutico), collegandolo alla temporalità, e rinvenendo, proprio nel costrutto paticità-temporalità, un fondamento di senso per quell’essere frammentato nel mondo che è l’uomo con gli altri. Gli ancora poco consueti, in ambito Psy, termini “patico” e “paticità” hanno un riferimento etimologico nella radice greca path (da cui “pathos”), da cui deriva l'uso semantico di nomi come “patimento” e “passione”. Ma, nella tragedia greca, il pathos segna anche il momento in cui il vivente, subendo l’attacco della vita, tocca eroicamente il nulla. Sebbene i termini di “emozione”, “sentimenti”, “affettività” non siano estranei al campo d'idee raccolte sotto i segni del greco paschein e pathos e del latino sentire (e sensus), essi non sono sovrapponibili. Il “patico” è la condizione di possibilità decisiva per cui si dànno quelle dimensioni empiricamente descrivibili come emozioni, affetti e sentimenti umani, fortemente intrisi di corporeità vissuta, ma anche di dismisura, di eccesso, di mondo e che irrompono nell’esistenza attraverso l’istante repentino del tempo. Per una via tortuosa che va da Dilthey ad Heidegger, da Straus a von Weizsäcker, da Merleau-Ponty ad Henry, Masullo giunge a concepire che il “sentire patico” sia non un altro modo di conoscere, bensì l'essenza del conoscere autentico, quello più proprio e irriducibile, segnato dall’ emergenza, latente ed irruttiva, degli accadimenti mondani e vitali. Weizsäcker aveva già avvertito che la nozione di “patico” non è affatto solo psicologica, bensì essa esprime la situazione del vivente, la sua propria maniera d'esistere. E che essa non indica l'essere (l’ontico) ma, piuttosto, il soffrire [das Leiden], cioè il sobbalzo del vivente nella lacerazione e nella crisi. Alla modalità del patico [Pathisch] si riconducono, infatti, esperienze drammatiche, come attesa e sorpresa, pericolo e minaccia, arbitrio e libertà, decisione e limitazione. E’ tutto il mondo che muta di segno se percepito attraverso il patire.
Esempi icastici possono essere dati proprio dal mutamento repentino e angoscioso di senso nel mondo dello schizofrenico, o dallo stato di intossicazione da droghe, dall’abisso della disperazione melanconica, dall’essere-al-di-la-di-sé del maniacale, dall’estasi, dall’ebbrezza, da una perdita subita di colpo: queste sono le “crisi” psicopatologiche e le apocalissi vitali in cui noi clinici ci imbattiamo quotidianamente. Da qui l’importanza del costrutto della paticità per una psichiatria antropologica, pensante e sensibile al dramma umano, ovvero non solo schiacciata (perduta) su di una dimensione molecolare/nosografica. Masullo comprese subito che Weizsäcker era andato delineando così le basi per un' antropologia patica, in cui “l'uomo dall'inizio in poi si presenta come insufficiente, incompiuto, bisognoso di completamento, drogato di cambiamento, indeterminato, difettoso o impotente, in ogni caso dunque non come essere eterno ma temporale; non come uno o qualcosa che "c'è", ma come uno o qualcosa che "diviene", che anzi vuole, ha facoltà, può, deve o è costretto a divenire" (Weizsäcker). Non solo non vi sono piacere o dolore, ma neppure ragionamento o azione, immaginazione o ricordo, che siano tali, umani, se non recano, sia pure nascosti, ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe del vivere, lo sbalordimento con cui si manifesta il sé e l'angoscia dell'esser toccati da eventi, senza perché. Ogni accadere tocca a me, proprio a me, o tocca a te, proprio a te, senza che io o tu sappiamo perché; così come non so questo me donde venga, né dove vada; anzi, neppure perché proprio a me questo me sia toccato. “Con 1' accadermi, la mia coscienza di me ancora una volta cade fuori del suo attuale con-sistere, e, proprio in ciò, appunto, paradossalmente, io e-sisto”. (Masullo). Nell'esperienza quotidiana, la contingenza si annuncia con la precarietà delle cose, la cui mutevolezza ne mostra insicuro l'essere. Ma, allorquando l'insicurezza dell'essere stesso, che io sono, si svela nella sua nuda attualità, repentinamente, allora, l'emozione della contingenza invade la coscienza. Il mio mondo, e la mia stessa persona come parte di esso, s'inabissano. Nel quadro di questa 'illusione ottica' mentale lo scrittore Milan Kundera può sostenere che questa vertigine patica (vertigine della libertà, secondo Kierkegaard), che “insidia dal profondo tutta l'esistenza”, è il “terrore di essere corpo, di esistere sotto forma di corpo”. Cosa c'è, in definitiva, di più contingente, meramente fattuale, del proprio corpo, che viene vissuto come un accadere subito dal sé, quasi che il sé non fosse prima del corpo, ma ne fosse invece l'umbratile proiezione? Cosa c'è nel mio sé (nel me), di più contingente del corpo, dalla cui contingenza dipende quell' 'io', nel cui nome poi il corpo vien detto 'mio'? “L'accadere è sorte. Il “destino”, o un suo qualsiasi sinonimo, ne sono la rappresentazione mitica”. (Masullo). 'Accadere' è, a rigore, mutamento repentino: “istantaneo e inspiegabile”, ovvero traumatico e casuale. Nel vissuto del tempo e del sé, l'emozione di sorpresa nel 'sentire' come contingente l'accadere e l'emozione di angoscia nel 'sentire' come precario il sé si tengono strettamente. “Senza il dolore che l'infallibile arciere del tempo infligge, non emergerebbe il sé come il vivente bersaglio di questa offesa. Ma, se il sé non emergesse, o il sé non fosse precario, il colpo del tempo cadrebbe nel vuoto o riuscirebbe frustrato. La vita stessa si duplica (si complica nel “vivere il proprio vivere”, così come letteralmente significa il tedesco er-leben), e vivendo prova l'emozione di sé” (Masullo). L'indifferenza dell'essere esplode così nella differenza dell'e-sistere: che ogni volta, come s'è detto, è il repentino venir colpiti come da folgore: spavento e vertigine. E' questa l'umanità originaria dell'emozione, la falda profonda di ogni emozione propriamente umana. L'autocentramento suppone, oltre alla folgorante emozione del tempo, la bruciante inquietudine di un incontro con l 'altro' (il sia pur tacitamente interpellantemi), a me familiare oppure estraneo, seducente oppure minaccioso, comunque enigmatico nella reciprocità di speculari rimandi, simpatetici o antipatetici, nel cui gioco ognuno dei due termini sopradeterminandosi enfatizza sé come 'io' e l'altro come 'tu'. La paticità esprime, allora, la costitutiva difettività dell'e-sistenza vissuta. “Come fenomenalità di tutti i fenomeni, la paticità sfuma dall'una all'altra di tre tonalità emotive: la pena del “sé lacerato” (dalla violenza del tempo), il timore del “sé assoggettato” (al capriccio del caso), la vergogna del “sé esposto” (allo sguardo dell'altro). Tutto si ripete, nulla dura. Si dànno infinite repliche, ma nessuna continuità. Il vissuto di tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi, nella sofferenza per l'identità perduta e l'abitualità sconvolta, nel tremore del destino, nello spavento del fondamento crollato, ma intero fiammeggia nell'inquietante sfida dell'inizialità, nel muoversi verso il nulla, il vuoto del futuro, a partire dal nulla, il vuoto del passato. Vuoto il non-ancora, svuotato il non-più, il nulla è dinanzi come dietro” (Masullo). Nell'esplodere della drammaticità dell'e-sistenza, l'oscuro avvertimento che l'identità della coscienza di sé dura soltanto attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi, scatena la “proto-emozione”, l'”arci-vissuto”. I lessici delle lingue europee antiche e moderne consentono di distinguere, a questo punto, come sottolinea Masullo, la dimensione orizzontale dell'esperienza propriamente detta (έμpεiρία, experientia, Erfahrung) la quale ha un carattere prevalentemente cognitivo, rispetto alla dimensione verticale dell'esperienza meno propriamente detta (πάθος, affectio, Erlebnis), cioè il vissuto, il quale ha invece un carattere affettivo anziché cognitivo. Da una parte abbiamo il giudizio su ciò che abbiamo provato, dall'altra abbiamo il provare come avvertimento immediato dell'accadermi di qualcosa, spesso, come in psicopatologia, di una perdita. L'avvertimento della perdita, il senso del cambiamento, in una parola il tempo, accende l'allucinazione del sé, scatena il desiderio di permanenza.
La perdita, dunque, è un momento necessario nella vita di un essere, l'umano, che non semplicemente cambia, ma si rinnova e costruisce intenzionalmente il proprio futuro. Proprio agendo su questa leva “archimedea”, apparentemente fuori dal mondo, il terapeuta può tentare, insieme al paziente, il sollevamento del mondo. L’area proprio-corporea del patico si interseca, in maniera ricca e complessa, con il concetto di carne di Calvi, con quello di informe di Stanghellini, con tutta l’area della prerifessività del se corporeo es-carnato esplorata da Parnas e da Fuchs, con l’approfondimento che Federico Leoni ha fatto del concetto di Maldiney della trans-passibilità. Il gruppo Dasein-analitico, che da anni cerco di implementare in vari contesti clinici e didattici, è tutto centrato sull’ improvvisazione patica, e sulla trasformatività del dolore condiviso quale fondo della vita, e deve molto, nella sua semantica e nella sua grammatica, alla teoresi di Aldo Masullo, oltre che all’antropologia clinica di Bruno Callieri. Di questo io, e molti pazienti del tutto ignari, non gli saremo mai grati abbastanza. Di questo, e di altro abbiamo spesso con Masullo e Callieri discusso a Roma, a via dei Serpenti, presso il Centro di ricerche fenomenologiche diretto dalla prof. Angela Ales Bello; a Padova, con la prof. Maria Armezzani; e poi a Napoli, all’Istituto per gli studi Filosofici. “Dolorosamente ora non potrò più discuterne con Bruno”. Con queste parole Aldo Masullo chiudeva, proprio a Palazzo Serra di Cassano, il suo addio a Bruno Callieri. E così chiudo io, adesso, questo “addio” ad Aldo Masullo, che dedico agli psichiatri e agli psicologi che vogliano, attraverso la clinica e la cura, provare ad interrogare la vita. “Wer herausbekommen ist, der kümmert sich nicht weiter um die Leite” (chi è giunto alla cima, non si preoccupa più del pendio). Con questa frase di Fichte (1804, La dottrina della scienza), Masullo amava spesso chiudere i suoi discorsi. Adesso sei tu, Professore, che hai saltato l’ultimo scalino. Con te se ne è andato, forse, l’ultimo di quei nobili intellettuali e visionari, donne e uomini che, nel 1799, liquidando i Borbone, e proclamando la Res Publica, portarono Napoli all’altezza di Parigi, donando tutti il sangue e la vita, di fronte al popolo ingrato, sulle forche di Piazza Mercato. A differenza di ciò che abbiamo fatto con Antonio D’Errico, con Sergio Piro, con Fulvio Marone, con Gerardo Marotta noi tuoi allievi e amici, con l’intera città, non abbiamo potuto stringerci intorno a te per l’ultima volta. Paradossalmente quest’assenza di rito, avendoci negato l’elaborazione condivisa della tua morte, in un certo e strano senso, ha consegnato, dentro ognuno di noi, la tua figura umana all’immortalità.
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