Dobbiamo tutti un gallo ad Esculapio
Si possono dire molte cose su questa pandemia – su questa situazione eccezionale: una è che è forse la prima volta nella storia dell’Umanità che l’Uomo può combattere (sebbene forse non proprio ad armi pari) con il rischio di una catastrofe planetaria determinata da una malattia.
La prima volta in cui la Tecnica – la Medicina – può fare la differenza tra la Vita e la Morte non per un singolo uomo, ma per tutta l’Umanità.
La prima volta, o una delle prime volte, in cui l’Umanità nella sua totalità (o quasi) letteralmente “pende dalle labbra” della Medicina – invece che lamentarsene e oltraggiarla.
La prima volta (o una delle prime) in cui vengono pubblicamente messi a tacere i detrattori della Medicina, o comunque tutti coloro che fino a ieri hanno attribuito ai fallimenti della Medicina – e non alla Natura stessa – il destino di morte e di malattia che ci accomuna.
Insomma: una delle rare volte dai tempi di Esculapio in cui la Medicina può godere di una discreta reputazione.
La pandemia ridisegna i nostri corpi
Una delle cose che si possono dire è che la pandemia sta ridisegnando i nostri corpi. Sembrerà un po’ astratto, teorico, astruso di fronte ai giganteschi problemi che stiamo affrontando, ma proviamo lo stesso a ragionare da questa prospettiva. E cominciamo dall’inizio.
Cos’è un corpo?
È ciò che io sono.
Il mio corpo è al tempo stesso la garanzia del mio esserci – qui-e-ora; e il destino del mio non-esserci – un giorno che verrà.
È al tempo stesso il limite di ciò che io sono; e il tramite tra me e ciò che non sono – cioè tra me e gli altri.
Il mio corpo è, al tempo stesso, ciò su cui si fonda la mia identità personale; e l’oscuro ricettacolo di tutto ciò che in me c’è di impersonale: le mie pulsioni, le mie abitudini non scelte, le mie emozioni subite, cioè le mie passioni.
È ciò su cui posso contare in quanto mio e inalienabile (neanche la cattività può privarmi del mio corpo); e, al tempo stesso, ciò che mi minaccia più da vicino, dall’interno delle mie viscere.
È questo flusso di vita e di morte che sento nel mio interno; e, al tempo stesso, un discorso che dà forma a questo flusso che mi è imposto dall'esterno.
Il mio corpo è troppo e troppo poco. Per farla breve con questa lista che potrebbe continuare a lungo, è Natura – cioè vitalità caotica – ma anche Cultura e Linguaggio, cioè Tecnica.
Il rapporto fra Tecnica e corpo: la bio-politica
Ora, molti dicono con preoccupazione che, di questi tempi, la Tecnica sta prendendo possesso dei nostri corpi – e che noi lo permettiamo, anzi lo desideriamo, o almeno lasciamo che sia così. La chiamano “bio-politica”.
La “bio-politica” è il dispositivo che presiede a delegare la cura del corpo, che è Natura, alla Cultura, cioè alla Legge e alla Tecnica.
In breve: la quarantena è la forma attuale della bio-politica: rinunciamo volontariamente (o semi-volontariamente) alla proprietà del nostro corpo, e alla sua “naturalità”, in vista di un fine che riteniamo superiore – che si chiama sopravvivenza individuale, o qualche forma di interesse sociale, mediato dal rispetto delle regole, ecc.
Questo è quanto suggerisce la Tecnica: rinunciare alla spontaneità dei nostri corpi; e la Politica sembra far eco alla Tecnica. La Bio-medicina è la mente, la Politica il braccio.
Ma i detrattori della Politica e della Tecnica affermano che le cose stanno alla rovescia: è la Politica che usa la Tecnica per i propri fini, che non sono la Salute, bensì il Potere – che si fonda sulla limitazione delle libertà personali.
La bio-politica e la Psichiatria
Fin qui niente di nuovo per la Psichiatria che da sempre è invischiata in faccende come questa.
In primo luogo, perché in perenne attesa di un farmaco che risolva il problema della follia; ma (nell’attesa), in modo più o meno riluttante, accetta la logica della restrizione della libertà personale per evitare i danni maggiori attribuiti alla follia: la dissocialità, lo scandalo, la violenza.
La Psichiatria, nell’attesa di sconfiggere il morbo della follia, perpetua il proprio sodalizio perverso – o almeno controverso – con il Potere, cioè con l’ordine costituito.
Trovo stucchevole questa polemica, ma non insensata.
Penso che il modo in cui la Tecnica e la Politica operano e si affermano è, appunto, ridisegnando i nostri corpi.
Mi viene chiesto in che modo la Fenomenologia può contribuire a decifrare la situazione attuale. Uno dei modi è aiutare a comprendere il modo in cui la pandemia, e le relative bio-politiche, contribuiscono a ridisegnare i nostri corpi.
Il modo è presto detto: prescrivendo un certo tipo di pratica relativa ai nostri corpi che include (1) la distanza fra i corpi e (2) un certo tipo di cura del proprio corpo personale in quanto minacciato da un pericolo invisibile e mortale – che (sia detto per inciso) ci fa assomigliare sempre più alla figura psicopatologica dell’ossessivo da contaminazione.
Il corpo come chiasmo tra Natura e Tecnica
In questo particolare frangente, il nostro corpo si rivela per ciò che è realmente. Questo stato di emergenza, che isola i nostri corpi e vorrebbe sigillarli, non nasconde, ma anzi smaschera ciò che è il corpo: il chiasmo fra la Natura e la Tecnica.
Vale a dire: un ente sospeso fra la minaccia mortale che la Natura porta ai nostri corpi attraverso il virus; e la minaccia altrettanto sostanziale che la Tecnica porta imponendo la smaterializzazione dei nostri corpi.
La smaterializzazione del corpo
Cosa si deve intendere con “smaterializzazione” del corpo?
La smaterializzazione non è altro che il modo in cui stiamo imparando a disporre dei nostri corpi e degli altrui tramite la Tecnica; vale a dire tramite quei dispositivi che consentono di entrare in rapporto gli uni con gli altri a distanza di sicurezza.
La politica del distanziamento, che ci viene proposta come unico antidoto al contagio in attesa del farmaco ovvero dell'antidoto congegnato dalla Tecnica (cioè il vaccino), è il modo in cui la bio-politica contribuisce alla smaterializzazione dei nostri corpi.
Un corpo privato dalla possibilità di entrare in contatto con un altro corpo finisce con lo smaterializzarsi.
Un corpo che si sente minacciato dal contagio che proviene da un altro corpo desidera distanziarsi, quindi acconsente alla propria smaterializzazione.
Dalla società dell’immagine alla società digitale
Questa smaterializzazione giunge tutt'altro che come una novità.
Infatti, come è noto, è già in atto da tempo almeno dagli albori della cosiddetta “società dello spettacolo”: i corpi che si fanno immagine diventano superficie, e iniziano a perdere di consistenza, iniziano a smaterializzarsi, o assumono un’altra forma di materialità.
Fino ai tempi più recenti della società cosiddetta “digitale”, di cui possono essere presi ad emblema la medicina digitale e il selfie: smaterializzazione dei corpi accompagnata dalla smaterializzazione delle relazioni “in presenza”, dall’apoteosi dell’ossimoro della “connessione a distanza”.
La Tecnica come minaccia e come risorsa
Ora sarebbe fin troppo facile concludere che il coronavirus porterà a compimento una metamorfosi antropologica nefasta iniziata dai media e proseguita dalla digitalizzazione.
Infatti è proprio grazie ai media che al tempo della pandemia possiamo continuare ad entrare in relazione gli uni con gli altri.
Senza la smaterializzazione del corpo operata dalla società digitale oggi potremmo disporre di corpi materiali; ma inesorabilmente isolati gli uni dagli altri – a meno che non vogliamo correre il rischio di essere materialmente contagiati dal virus.
Non potremmo ad esempio continuare il nostro lavoro di cura tramite le psicoterapie on-line. O le nostre pratiche di lavoro, di istruzione e di incontri a distanza.
Il punto in fondo non è essere favorevoli o contrari alla Tecnica e alla smaterializzazione dei corpi che inesorabilmente essa comporta.
Il punto è, semmai, essere consapevoli delle conseguenze di questa smaterializzazione.
L'uomo protesico e il presunto disagio della civiltà
Invito tutti a condividere l’ironica cautela espressa da Freud nel Disagio della civiltà: come mai così tante persone assumono questo strano atteggiamento di ostilità nei confronti della civiltà a loro contemporanea? E potrei aggiungere: come mai altri invece la abbracciano per così dire a “corpo morto”?
Freud si dice sorpreso da tale contegno, perché in qualunque modo noi definiamo “civiltà” e “tecnica” è un fatto certo che esse rappresentino una difesa da tutti i pericoli dai quali cerchiamo di proteggerci; pericoli che promanano dallo strapotere delle forze della natura e dalla fragilità dei nostri corpi.
La Tecnica rappresenta una protesi irrinunciabile.
Ma è proprio a causa di questa irrinunciabilità che ci mette a disagio, come ci mette a disagio ogni altra cosa di cui non possiamo fare a meno.
Ma è proprio questo disagio che mette in moto altri dispositivi tecnici alla base di ulteriori trasformazioni, metamorfosi, sviluppi, e forse evoluzioni del corpo umano.
La Tecnica non è mera protesi
Ciò di cui dobbiamo essere consapevoli è che la Tecnica non è mera protesi del corpo, un'aggiunta che non modifica il corpo; bensì un artificio che trasforma il corpo: il modo del mio corpo di rapportarsi con il corpo altrui, e infine il modo in cui ci appare, ci rappresentiamo e facciamo uso del corpo altrui.
La smaterializzazione dei corpi imposta dalla pandemia, e dalle bio-politiche ad essa relative, sembra la prosecuzione del processo iniziato con la società dello spettacolo (il corpo si fa superficie, cioè immagine); e proseguita con la società digitale: il corpo sullo schermo non è più soltanto quello del personaggio, o della “vedette”.
Il corpo di ognuno può farsi immagine su uno schermo.
I nostri corpi non si limitano più a desiderare di essere come il corpo dei personaggi sullo schermo: possono essi stessi essere corpi su uno schermo, e questo è il loro desiderio.
Che serà serà
Se una cosa abbiamo imparato da questa esperienza di tempo sospeso è astenerci dal fare previsioni. Una cosa però sembra assai probabile, se non certa: alla crisi sanitaria sta subentrando una crisi economica; e alla crisi economica seguirà una crisi sociale, che alimenterà la crisi sanitaria – almeno sul versante della salute “mentale”.
Come interverrà su questa progressione catastrofica il vettore della smaterializzazione dei corpi?
In fondo, ci siamo ben adattati alla quarantena.
Forse la ragione è che la parabola della smaterializzazione del corpo ci aveva ben preparato.
Entrare in quarantena è stato relativamente facile per molti dei nostri corpi in stato di avanzata semi-dematerializzazione.
Sarà altrettanto facile uscirne? Sarà altrettanto facile ri-materializzarci quel tanto necessario per condividere uno spazio, per lasciar entrare un altro corpo nello spazio occupato dal nostro?
Sarà questa la “natura” che avrà il sopravvento: la pulsione a toccare ed essere toccati dal corpo altrui; ad entrare nel corpo dell’altro, e a lasciare che l’altro faccia lo stesso?
Oppure prevarrà la “seconda natura” che è la tecnica del corpo portata a compimento dal coronavirus, la sua pulsione distanziante, dematerializzante?
È proprio il caso di dire: chi vivrà vedrà.
Si possono dire molte cose su questa pandemia – su questa situazione eccezionale: una è che è forse la prima volta nella storia dell’Umanità che l’Uomo può combattere (sebbene forse non proprio ad armi pari) con il rischio di una catastrofe planetaria determinata da una malattia.
La prima volta in cui la Tecnica – la Medicina – può fare la differenza tra la Vita e la Morte non per un singolo uomo, ma per tutta l’Umanità.
La prima volta, o una delle prime volte, in cui l’Umanità nella sua totalità (o quasi) letteralmente “pende dalle labbra” della Medicina – invece che lamentarsene e oltraggiarla.
La prima volta (o una delle prime) in cui vengono pubblicamente messi a tacere i detrattori della Medicina, o comunque tutti coloro che fino a ieri hanno attribuito ai fallimenti della Medicina – e non alla Natura stessa – il destino di morte e di malattia che ci accomuna.
Insomma: una delle rare volte dai tempi di Esculapio in cui la Medicina può godere di una discreta reputazione.
La pandemia ridisegna i nostri corpi
Una delle cose che si possono dire è che la pandemia sta ridisegnando i nostri corpi. Sembrerà un po’ astratto, teorico, astruso di fronte ai giganteschi problemi che stiamo affrontando, ma proviamo lo stesso a ragionare da questa prospettiva. E cominciamo dall’inizio.
Cos’è un corpo?
È ciò che io sono.
Il mio corpo è al tempo stesso la garanzia del mio esserci – qui-e-ora; e il destino del mio non-esserci – un giorno che verrà.
È al tempo stesso il limite di ciò che io sono; e il tramite tra me e ciò che non sono – cioè tra me e gli altri.
Il mio corpo è, al tempo stesso, ciò su cui si fonda la mia identità personale; e l’oscuro ricettacolo di tutto ciò che in me c’è di impersonale: le mie pulsioni, le mie abitudini non scelte, le mie emozioni subite, cioè le mie passioni.
È ciò su cui posso contare in quanto mio e inalienabile (neanche la cattività può privarmi del mio corpo); e, al tempo stesso, ciò che mi minaccia più da vicino, dall’interno delle mie viscere.
È questo flusso di vita e di morte che sento nel mio interno; e, al tempo stesso, un discorso che dà forma a questo flusso che mi è imposto dall'esterno.
Il mio corpo è troppo e troppo poco. Per farla breve con questa lista che potrebbe continuare a lungo, è Natura – cioè vitalità caotica – ma anche Cultura e Linguaggio, cioè Tecnica.
Il rapporto fra Tecnica e corpo: la bio-politica
Ora, molti dicono con preoccupazione che, di questi tempi, la Tecnica sta prendendo possesso dei nostri corpi – e che noi lo permettiamo, anzi lo desideriamo, o almeno lasciamo che sia così. La chiamano “bio-politica”.
La “bio-politica” è il dispositivo che presiede a delegare la cura del corpo, che è Natura, alla Cultura, cioè alla Legge e alla Tecnica.
In breve: la quarantena è la forma attuale della bio-politica: rinunciamo volontariamente (o semi-volontariamente) alla proprietà del nostro corpo, e alla sua “naturalità”, in vista di un fine che riteniamo superiore – che si chiama sopravvivenza individuale, o qualche forma di interesse sociale, mediato dal rispetto delle regole, ecc.
Questo è quanto suggerisce la Tecnica: rinunciare alla spontaneità dei nostri corpi; e la Politica sembra far eco alla Tecnica. La Bio-medicina è la mente, la Politica il braccio.
Ma i detrattori della Politica e della Tecnica affermano che le cose stanno alla rovescia: è la Politica che usa la Tecnica per i propri fini, che non sono la Salute, bensì il Potere – che si fonda sulla limitazione delle libertà personali.
La bio-politica e la Psichiatria
Fin qui niente di nuovo per la Psichiatria che da sempre è invischiata in faccende come questa.
In primo luogo, perché in perenne attesa di un farmaco che risolva il problema della follia; ma (nell’attesa), in modo più o meno riluttante, accetta la logica della restrizione della libertà personale per evitare i danni maggiori attribuiti alla follia: la dissocialità, lo scandalo, la violenza.
La Psichiatria, nell’attesa di sconfiggere il morbo della follia, perpetua il proprio sodalizio perverso – o almeno controverso – con il Potere, cioè con l’ordine costituito.
Trovo stucchevole questa polemica, ma non insensata.
Penso che il modo in cui la Tecnica e la Politica operano e si affermano è, appunto, ridisegnando i nostri corpi.
Mi viene chiesto in che modo la Fenomenologia può contribuire a decifrare la situazione attuale. Uno dei modi è aiutare a comprendere il modo in cui la pandemia, e le relative bio-politiche, contribuiscono a ridisegnare i nostri corpi.
Il modo è presto detto: prescrivendo un certo tipo di pratica relativa ai nostri corpi che include (1) la distanza fra i corpi e (2) un certo tipo di cura del proprio corpo personale in quanto minacciato da un pericolo invisibile e mortale – che (sia detto per inciso) ci fa assomigliare sempre più alla figura psicopatologica dell’ossessivo da contaminazione.
Il corpo come chiasmo tra Natura e Tecnica
In questo particolare frangente, il nostro corpo si rivela per ciò che è realmente. Questo stato di emergenza, che isola i nostri corpi e vorrebbe sigillarli, non nasconde, ma anzi smaschera ciò che è il corpo: il chiasmo fra la Natura e la Tecnica.
Vale a dire: un ente sospeso fra la minaccia mortale che la Natura porta ai nostri corpi attraverso il virus; e la minaccia altrettanto sostanziale che la Tecnica porta imponendo la smaterializzazione dei nostri corpi.
La smaterializzazione del corpo
Cosa si deve intendere con “smaterializzazione” del corpo?
La smaterializzazione non è altro che il modo in cui stiamo imparando a disporre dei nostri corpi e degli altrui tramite la Tecnica; vale a dire tramite quei dispositivi che consentono di entrare in rapporto gli uni con gli altri a distanza di sicurezza.
La politica del distanziamento, che ci viene proposta come unico antidoto al contagio in attesa del farmaco ovvero dell'antidoto congegnato dalla Tecnica (cioè il vaccino), è il modo in cui la bio-politica contribuisce alla smaterializzazione dei nostri corpi.
Un corpo privato dalla possibilità di entrare in contatto con un altro corpo finisce con lo smaterializzarsi.
Un corpo che si sente minacciato dal contagio che proviene da un altro corpo desidera distanziarsi, quindi acconsente alla propria smaterializzazione.
Dalla società dell’immagine alla società digitale
Questa smaterializzazione giunge tutt'altro che come una novità.
Infatti, come è noto, è già in atto da tempo almeno dagli albori della cosiddetta “società dello spettacolo”: i corpi che si fanno immagine diventano superficie, e iniziano a perdere di consistenza, iniziano a smaterializzarsi, o assumono un’altra forma di materialità.
Fino ai tempi più recenti della società cosiddetta “digitale”, di cui possono essere presi ad emblema la medicina digitale e il selfie: smaterializzazione dei corpi accompagnata dalla smaterializzazione delle relazioni “in presenza”, dall’apoteosi dell’ossimoro della “connessione a distanza”.
La Tecnica come minaccia e come risorsa
Ora sarebbe fin troppo facile concludere che il coronavirus porterà a compimento una metamorfosi antropologica nefasta iniziata dai media e proseguita dalla digitalizzazione.
Infatti è proprio grazie ai media che al tempo della pandemia possiamo continuare ad entrare in relazione gli uni con gli altri.
Senza la smaterializzazione del corpo operata dalla società digitale oggi potremmo disporre di corpi materiali; ma inesorabilmente isolati gli uni dagli altri – a meno che non vogliamo correre il rischio di essere materialmente contagiati dal virus.
Non potremmo ad esempio continuare il nostro lavoro di cura tramite le psicoterapie on-line. O le nostre pratiche di lavoro, di istruzione e di incontri a distanza.
Il punto in fondo non è essere favorevoli o contrari alla Tecnica e alla smaterializzazione dei corpi che inesorabilmente essa comporta.
Il punto è, semmai, essere consapevoli delle conseguenze di questa smaterializzazione.
L'uomo protesico e il presunto disagio della civiltà
Invito tutti a condividere l’ironica cautela espressa da Freud nel Disagio della civiltà: come mai così tante persone assumono questo strano atteggiamento di ostilità nei confronti della civiltà a loro contemporanea? E potrei aggiungere: come mai altri invece la abbracciano per così dire a “corpo morto”?
Freud si dice sorpreso da tale contegno, perché in qualunque modo noi definiamo “civiltà” e “tecnica” è un fatto certo che esse rappresentino una difesa da tutti i pericoli dai quali cerchiamo di proteggerci; pericoli che promanano dallo strapotere delle forze della natura e dalla fragilità dei nostri corpi.
La Tecnica rappresenta una protesi irrinunciabile.
Ma è proprio a causa di questa irrinunciabilità che ci mette a disagio, come ci mette a disagio ogni altra cosa di cui non possiamo fare a meno.
Ma è proprio questo disagio che mette in moto altri dispositivi tecnici alla base di ulteriori trasformazioni, metamorfosi, sviluppi, e forse evoluzioni del corpo umano.
La Tecnica non è mera protesi
Ciò di cui dobbiamo essere consapevoli è che la Tecnica non è mera protesi del corpo, un'aggiunta che non modifica il corpo; bensì un artificio che trasforma il corpo: il modo del mio corpo di rapportarsi con il corpo altrui, e infine il modo in cui ci appare, ci rappresentiamo e facciamo uso del corpo altrui.
La smaterializzazione dei corpi imposta dalla pandemia, e dalle bio-politiche ad essa relative, sembra la prosecuzione del processo iniziato con la società dello spettacolo (il corpo si fa superficie, cioè immagine); e proseguita con la società digitale: il corpo sullo schermo non è più soltanto quello del personaggio, o della “vedette”.
Il corpo di ognuno può farsi immagine su uno schermo.
I nostri corpi non si limitano più a desiderare di essere come il corpo dei personaggi sullo schermo: possono essi stessi essere corpi su uno schermo, e questo è il loro desiderio.
Che serà serà
Se una cosa abbiamo imparato da questa esperienza di tempo sospeso è astenerci dal fare previsioni. Una cosa però sembra assai probabile, se non certa: alla crisi sanitaria sta subentrando una crisi economica; e alla crisi economica seguirà una crisi sociale, che alimenterà la crisi sanitaria – almeno sul versante della salute “mentale”.
Come interverrà su questa progressione catastrofica il vettore della smaterializzazione dei corpi?
In fondo, ci siamo ben adattati alla quarantena.
Forse la ragione è che la parabola della smaterializzazione del corpo ci aveva ben preparato.
Entrare in quarantena è stato relativamente facile per molti dei nostri corpi in stato di avanzata semi-dematerializzazione.
Sarà altrettanto facile uscirne? Sarà altrettanto facile ri-materializzarci quel tanto necessario per condividere uno spazio, per lasciar entrare un altro corpo nello spazio occupato dal nostro?
Sarà questa la “natura” che avrà il sopravvento: la pulsione a toccare ed essere toccati dal corpo altrui; ad entrare nel corpo dell’altro, e a lasciare che l’altro faccia lo stesso?
Oppure prevarrà la “seconda natura” che è la tecnica del corpo portata a compimento dal coronavirus, la sua pulsione distanziante, dematerializzante?
È proprio il caso di dire: chi vivrà vedrà.
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