LA FIGURA DEL KILLER COME AGENTE DELLA RIMOZIONE

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2 ottobre, 2012 - 12:35

"Ricordo come … in una buia stanza di un albergo
sconosciuto di una città americana
a me non familiare voltandomi su un fianco
nel dormiveglia avessi fatto la fantasia di poter
avere accanto il diavolo e di come avessi subito
preso sonno pensando … finalmente avrei qualcuno
con cui chiacchierare." (A. Ferro)

Volevo partire dall’analisi di due film relativamente recenti (2005 uno e 2008 l’altro) per verbalizzare alcune suggestioni che vengono dal genere a cui essi appartengono e in particolare dalla figura che fa da protagonista o spesso da co-protagonista, la figura cioè del KILLER.

I film sono THE MATADOR, direi una commedia e BANGKOK DANGEROUS dei Fratelli Pang di tono diverso più vicino al dramma o alla tragedia.

Questi due film appartengono a un filone che ha interessanti precedenti:

da THE KILLER di John Woo a COLLATERAL di Michael Mann a IN BRUGES di Martin McDonagh e che vede come capostipite del genere IL GIORNO DELLO SCIACALLO di Fred Zinneman e l’ancor più famoso IL SAMURAI di Melville (ma anche Leon, Ghost dog…).

In forma metafisica e con uno stile totalmente diverso, più di tipo "autoriale" e astratto che lo rende più accettabile anche se a parer mio un po’ artefatto, possiamo mettere nella lista anche FERRO 3 di Kim Ki Duk, dove il protagonista può essere visto come un killer potenziale, convertito alla "riparazione" (solo una volta la pallina da golf con cui ogni tanto gioca col suo ferro 3 appunto e che tiene legata con un fil di ferro gli "sfugge" e diventa un proiettile letale).

In una parentela non molto lontana, cugini diciamo, di questo filone del killer, c’è quello del SERIAL-KILLER con vari e svariati esempi eccellenti, dai più lontani JEKYLL E HYDE e MONSIER VERDOUX a MANHUNTER HANNIBAL e IL SILENZIO DEGLI INNOCENTI ….

Se il serial-killer agisce a partire da una "patologia", il killer agisce "a pagamento", un moderno "impiegato" o "libero professionista" con lavoro "seriale" che agisce "apparentemente" per puro compenso economico e quindi decisamente più integrato o integrabile nel contesto sociale.

Aggiungerei che in una diramazione forse più secondaria, possiamo trovare una parentela anche con il PISTOLERO, la figura del cow-boy solitario che arriva nel villaggio e viene assoldato per compiere "il lavoro sporco" che i bravi cittadini non sono in grado o non vogliono compiere di persona (Clint Eastwood è uno degli ultimi grandi "pittori" di questo personaggio).

Ma cosa può spingere ad identificarsi e a simpatizzare con un assassino, si potrebbe obbiettare …

Curtis Hanson, il regista di L. A. CONFIDENTIAL, in un commento a INTRIGO INTERNAZIONALE di Hitchcock diceva: "Se i film sono come i sogni, penso che i film di suspense siano quelli che sembrano di più sogni perché trattano di cose che ribollono sotto la superficie di tutti noi."

Inoltre, mi attraeva l’idea di approfondire questa figura perché, per dirla con Ferro, permette di individuare un personaggio interessante, nel "casting" delle figure oniriche, fantasmatiche e mitiche, che il cinema (ma anche la letteratura) ci mette a disposizione. Il personaggio del killer ci offre una serie di suggestioni interessanti perché riescono a dare "raffigurabilità" ad aspetti mentali ed emotivi, in modo creativo e stimolante, ci offre spunti di reverie e quindi migliora la strumentazione utile al difficile lavoro di de-concretizzazione della realtà in seduta.

Così, in generale, direi che la figura del killer può essere vista come rappresentazione di una struttura della mente o di una sua funzione, come cioè la parte "metaforizzata" e "miticizzata" (quindi arricchita dalle stratificazioni del tempo) di una forma di LAVORO DIFENSIVO, fatto per lo più attraverso la scissione e la proiezione, che tende, attraverso un’ organizzazione ossessiva, ad annullare o a gestire rigidamente gli aspetti emotivi.

Nello stesso tempo è una figura che mostra tutto il fascino e l’attrazione per questo tipo di lavoro difensivo (a cui tutti, con diverse intensità, ricorriamo), creando personaggi molto "forti", con un destino romantico in quanto destinati a ri-prendere, per lo più dolorosamente, contatto con gli aspetti emotivi rimossi. Capaci quindi di portarci ad un’empatia e ad un’identificazione, "colpevole" magari, che ci permette di COMMUOVERCI per la loro sorte e di "gioire" del loro "fallimento" inevitabile, ma per lo più eroico ed etico, nel momento in cui le parti, prima sacrificate ed emarginate, incominceranno (… o, spesso vedremo, ri-cominceranno) a risuonare nel loro mondo interno, modificando totalmente le loro vite.

In conseguenza a quanto detto un altro aspetto non da poco che questi film mostrano, riguarda sicuramente l’integrazione e la gestione delle parti aggressive, che incontreranno vari destini nelle trame diverse e creative dei film e che andranno per lo più nella direzione di un’introiezione che avrà vari gradi di integrazione.

Direi che si va dalla scissione netta di Jekyll e Hyde, ad un’intesa tra le parti, più amichevole e collaborativa, di The Matador, in una specie di percorso riflessivo, culturale e psicologico che, su questo tema, ci è stato offerto nel corso degli anni da vari registi attraverso molti film interessanti.

Credo che sia per tutti questi aspetti, inseriti in un genere per lo più avvincente di suspense e azione, che questi film piacciono (o per gli stessi motivi inquietano e vengono respinti), proprio perché cioè ci permettono questo tipo di identificazione "colpevole" con l’assassino che però da un punto di vista psicologico ci è familiare in quanto, in fin dei conti, mostra un’operazione che facciamo quotidianamente a livello intrapsichico e interpersonale con le nostre emozioni anche se non usiamo il fucile di precisione, ma semplicemente la Proiezione di proto- emozioni negative o anche positive (se pensiamo a Cupido e alle sue frecce o al "don Giovanni" seriale, specie di killer dei sentimenti e dei legami, che proietta il bisogno d’amore in tante "vittime" che lo provano al posto suo).

La figura del killer diventa quindi la figura di un "agente della rimozione", metafora del lavoro di "repressione" che facciamo sul nostro apparato emotivo per controllarlo e "proiettare fuori" (letteralmente come il proiettile dal fucile) gli aspetti emotivi scomodi, indigeribili o comunque non contenibili, emblema di un "lavoro sporco" che facciamo fare ad una parte di noi perché, come vedremo, nessuno è "totalmente killer", prima o poi le emozioni troveranno varchi o altri personaggi del cast che modificheranno la storia.

THE MATADOR

pol

Commedia stimolante dal punto di vista psicologico, mostra in modo creativo il rapporto "necessario", per certi versi traumatico, tra due parti scisse che necessitano l’una dell’altra e intrattengono un curioso e reciprocamente fecondo rapporto di conoscenza.

Un bonario marito e uomo d’affari reduce da un grave lutto e in crisi col lavoro, incontra uno strano, curioso personaggio che ben presto gli dirà di essere un Killer.

La trama è piacevole e ben scritta, divertente e drammatica come sono spesso le commedie amare.

Le vite dei due personaggi vengono dapprima mostrate separate, scisse appunto.

La vita matrimoniale di Danny è "eroicamente" tenuta insieme da una coppia reciprocamente affettuosa e premurosa, ma pesantemente minata dalla recente perdita del figlio a cui si aggiungono le frustrazioni che Danny riceve dal lavoro e che incrinano il suo senso di virilità.

Una scena molto divertente e significativa, illustra lo stato della coppia, che si tiene insieme in modo simbiotico per proteggersi dalla possibilità di essere travolta dalle pesanti emozioni che la minacciano, e quanto sta per accadere nell’animo di Danny. Mentre i due sono impegnati in un consolatorio amplesso sul tavolo della cucina prima che lui parta per il suo viaggio d’affari, fuori imperversa un gran temporale e all’improvviso un albero del giardino sfonda letteralmente la parete di casa finendo tra di loro in cucina.

Julian, il killer, un Pierce Brosnan davvero bravissimo, probabilmente provato dal lavoro ripetitivo e solitario, non riesce più a sostenere l’asetticità emotiva e l’isolamento sociale che il mestiere richiederebbe. E’ un personaggio piuttosto volgare in bilico tra una virilità esasperata e vissuta come "luogo comune" e una "femminilità" che corrisponde probabilmente all’affettività negata e che fa subito capolino già all’inizio del film nelle immagini grottesche che lo ritraggono impegnato a sottrarre alla compagna di letto uno smalto che si metterà sulle unghie dei piedi.

La volgarità che lo connota per gran parte del film, sembra dunque una forma esasperata di resistenza e negazione delle parti emotive e affettive.

L’incontro tra i due è esilarante e stralunato, due universi mentali all’apparenza lontanissimi che irresistibilmente e misteriosamente finiscono per attrarsi attraversando in poco tempo difese e barriere reciproche, vinti dalla curiosità e dalla solitudine profonda e disperata.

Anche qui la prima difesa sarà da parte di Julian un finto approccio sessuale che spaventa Danny, ma che subito camuffa in scherzo, poi il tentativo di coinvolgimento empatico di Danny che Julian stronca in modo totalmente fuori sintonia sbarazzandosi in un solo attimo di tutto l’apporto affettivo molto doloroso che Danny cerca di mettere in campo: "sai due anni fa ho perso un figlio: il bus della scuola ha avuto un incidente, si sono salvati tutti tranne mio figlio" e Julian: "due messicani entrano in un bar…" e racconta una barzelletta "sporca". Danny rimane esterrefatto e gli dice che è un mostro senza cuore. Incredibilmente Julian si scuserà e cercherà di riprendere il filo con questo vulnerabile uomo che probabilmente gli risulta stranamente simpatico, mentre Danny cede alle scuse anche lui attratto da questo strano, provocatorio e misterioso personaggio che sembra totalmente refrattario alle tragedie e al dolore della vita. Julian dirà al nuovo "amico" così "normale e prevedibile": "Come fai, dovrò imparare da te, io non vivo in nessun posto", così non può essere mai raggiunto dalle emozioni rimosse e proiettate, direbbe Ferro.

Nella progressione del film vediamo altri momenti significativi di questo "gioco delle parti" o meglio, rappresentazione di parti, corrispondenti ad aspetti emotivi scissi, che entrano in campo e mettono in scena un racconto che corrisponde ad una progressione del pensiero verso un’integrazione che permette di sognarsi in altrettanti aspetti emotivi che lentamente consentono un’espansione della conoscenza di sé (tra l’altro per tutto il film il killer appare e scompare come un fantasma come una figura evocata dalla mente di Danny che solo lui — e sua moglie- può vedere).

In una scena chiave del film, molto ben costruita e intrigante da un punto di vista psicologico, il Killer svela la sua vera identità e mostra a un Danny sbalordito i meccanismi di un omicidio su commissione. Assistiamo così al gioco del "come se" in cui il mite uomo d’affari gioca come un bambino in bilico tra vero e inventato con le parti aggressive e distruttive, ma nel contempo libere, che sembrano poter bypassare con facilità qualsiasi problema morale, emotivo e affettivo eliminandoli con un solo colpo ben assestato come il matador con il toro. Il killer infatti definisce la sua professione come "facilitatore di fatalità".

Un altro momento suggestivo sarà quando Julian capiterà, in un’altra notte di turbolenze atmosferiche, nella casa di Danny e sua moglie, meno minaccioso dell’albero caduto in cucina, incontrando anzi la curiosità di lei che gli chiederà "hai portato la pistola?". Julian è lì per chiedere aiuto a Danny "Sei il mio unico amico al mondo", è affascinato dalla coppia e dall’affettività che passa tra di loro "ho sempre vissuto scappando dalle mie emozioni", così come loro sono affascinati dalla sua "pistola", dalle sue capacità di killer.

Cosa ne faranno di questa conoscenza reciproca, che effetto avrà sulle loro vite, è l’altra parte dolce-amara del film.

Il un primo tempo, dopo le provocazioni e il gioco, c’è il tentativo di corruzione reciproca. Prima una e poi l’altra parte tentano di usare l’altro per fini opportunistici, una specie di uso reciproco senza trasformazione e quindi integrazione.

Ma la storia avrà un risvolto più positivo anche se non moralistico.

Alla fine una parte autenticamente protettiva in entrambi riuscirà a salvaguardare l’integrità delle loro esistenze e l’essenza del loro legame pur regalando ad entrambi un’identità distinta ma intrecciata affettivamente, che genererà una protezione reciproca, per quanto strana, dove ognuno protegge la parte autentica dell’altro.

Il Killer come contagiato da Danny avrà delle crisi di panico accompagnate da terribili allucinazioni che lo porteranno irrimediabilmente a contatto con le sue parti infantili fragili ed emotive e lo metteranno seriamente in difficoltà con il suo lavoro che evidentemente contrasta con la possibilità di contenere aspetti piccoli fragili e bisognosi (lo vediamo infatti impegnato a prendere la mira sul suo prossimo bersaglio, quando nel mirino non vede più l’altro, ma un sé stesso piccolo e inerme che lo implora di non sparare).

Danny, meno spaventato dalle parti aggressive, gli darà una mano permettendogli di sopravvivere a questa irruzione emotiva che minaccia la sua stessa esistenza, uscendone lui stesso fortificato, capace di contenere in modo diverso le frustrazioni, più consapevole anche delle parti aggressive che lo abitano e che ora sa di poter gestire in un modo non necessariamente distruttivo.

(Per continuare la riflessione sull’autenticità del falsario di Riefolo -vedi commento a Il falsario- potremo dire che questa comporta sia la capacità di essere aderente al campo relazionale, come anche la possibilità che parti opposte ed emotivamente scisse possano entrare in scena contemporaneamente ed essere salvaguardate per fare reciproca e feconda conoscenza).

Interessante in questo film è anche vedere il grado di integrazione che avverrà tra le parti scisse, che non corrisponde ad una coincidenza o all’eliminazione dell’una a favore dell’altra.

Un po’ come nella bellissima scena finale di L’uomo del treno (altro film che ha come coprotagonista non tanto un killer, ma comunque un rapinatore, un tipo non proprio raccomandabile) quando i due personaggi attraversano contemporaneamente la strada e il regista rallenta e sfuma il loro incontro, come in uno scambio fantasmatico di essenze, che passano da uno all’altro.

Anche in Matador il finale ci restituirà due personaggi molto cambiati due entità distinte che prenderanno due strade diverse, anche se potranno rimanere in contatto tra di loro.

"Non credo che l’analista debba farsi paladino dell’integrazione a tutti i costi, ma deve cogliere anche le eventuali richieste del paziente di differenziare (to cast) tra i suoi funzionamenti quelli in cui può riconoscersi e quelli in cui non può tollerare di riconoscersi ….. La differenziazione di funzionamenti ad un certo punto alleggerisce il paziente da parti per lui assolutamente intollerabili che devono andare ad abitare in mondi scissi delle potenzialità, mondi che non possono essere tutti mappati e regolarmente visitati. Alcuni mondi possibili dovranno rimanere pure potenzialità di cui il paziente rimarrà probabilmente per sempre inconsapevole". (Ferro)

Nel nostro caso, nel caso di The Matador, si arriverà ad un buon compromesso, dopo una turbolenta, ma affettuosa conoscenza reciproca, con un reciproco vantaggio, ci sarà una separazione con "scambio di indirizzi" : il Killer andrà, come ha sempre sognato, in Grecia e gli lascerà un depliant "in caso di bisogno …", Danny con la moglie sarà davanti alla tomba di suo figlio, a salutarlo da lontano, con gli aspetti depressivi naturalmente presenti, ma forse meno distruttivi e minacciosi.

BANGKOK DANGEROUS

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"Il mio lavoro mi porta in un sacco di posti, anche se ha i suoi svantaggi. Dormo solo, mangio solo, ormai mi sono abituato. Mi piacerebbe conoscere gente, ma è dura se vivi con le valige sempre pronte.

Vado dove mi dicono, faccio quello che mi dicono. Non posso lamentarmi il lavoro non manca e si guadagna bene, ma non è per tutti."

Sono le parole con cui comincia il film, ancora non sappiamo di quale lavoro si tratta. Noi vediamo le immagini di un uomo (Nicolas Cage) che si muove solitario in mezzo alla gente mentre svolge le normali "funzioni di sopravvivenza", consultando frequentemente l’orologio. E’ solo alla fine di questa lunga sequenza che lo vediamo per la prima volta montare un fucile di precisione: "Il mio nome è Joe e questo è quello che faccio".

"Mi hanno insegnato quattro regole:

  1. Non fare domande, non ci sono cose giuste o sbagliate.
  2. Al di fuori del tuo lavoro evita le relazioni. Non ti fidare di nessuno.
  3. Cancella ogni traccia, non ti fare notare, passa inosservato.
  4. Sappi quando è ora di smettere, non stare lì a pensarci. Prima che sia troppo tardi, prima di perdere il vantaggio, prima di diventare tu il bersaglio.

Sono le regole del suo mestiere, ma sono anche il suo modo per gestire una realtà che non sa vivere diversamente.

 

Sembra la descrizione del lavoro di un professionista, di un commesso viaggiatore o, pensando alla routine dei compiti da svolgere e agli orari fissi, di un bancario (tra l’altro ad un certo punto quando gli viene chiesto che lavoro fa, dirà proprio il bancario), ma potremmo pensare anche ad un medico, un lavoro che richiede "freddezza e distacco professionale" e un contatto quotidiano con i corpi e con la morte. Per altri versi quella che viene descritta è una figura con una posizione marginale, in un certo senso a contatto con il sacro (inteso come qualcosa di separato), lo vediamo nella scena iniziale quando, appostato in cima al campanile, il suo primo omicidio viene scandito dal suono delle campane (del resto quasi tutte le scene cruciali di In Bruges si svolgono intorno o dentro la Cattedrale). Una sorta di figura sacerdotale che non può vivere certi legami e certe emozioni. Questa posizione marginale però ci fa pensare anche all’artista e in un certo senso, lui è un’artista nel suo campo.

Un lavoro comunque fatto di regole e di RITUALI OSSESSIVI, ma protettivi rispetto al contatto con emozioni tanto forti, in grado appunto di tenere a bada il mondo emotivo. Un lavoro scandito dal tempo, dalla precisione di gesti e da regole ferree.

Un lavoro quotidiano a contatto con la sofferenza, la malattia e la morte, ma tenute lontane attraverso il cannocchiale del fucile di precisione (si potrebbe fare anche un’analogia con uno dei rischi nel nostro lavoro, anch’esso a contatto con la sofferenza).

Si uccidono parti buone e cattive, non c’è distinzione perché ci si aggrappa (to grasp) alle regole che richiedono di non pensare, di non distinguere (to cast).

Il film è un film d’azione, raccontato per lo più attraverso le immagini e ciò che accade, ma questo stile è molto adatto all’esplorazione onirica e metaforica, perchè lascia spazio alla possibilità di intra-vedere.

"La vita è MOVIMENTO. E’ nel movimento che ognuno di noi esprime la POTENZA del proprio essere e cerca di lasciare una traccia di sé attraverso i propri gesti"… questa frase di Michela Manzano si adatta molto bene allo svolgimento del film.

"Nessuno di noi è un semplice AGENTE RAZIONALE capace di scegliere e agire solo dopo aver calcolato in modo esatto i costi e i benefici delle proprie azioni …. Quando entriamo in relazione con gli altri lo facciamo sempre a partire dalla nostra interiorità affettiva" (sempre M. Manzano).

E in effetti nel momento in cui Joe entra in CONTATTO con Kong e con Pioggia è evidente che si tratta di parti di sé perdute o che aspettavano di essere trovate.

Il film comincia con un’esecuzione perfetta e professionale, ma già vengono annunciati i primi segni di stanchezza: all’aeroporto Joe vede un bambino che si è perso e che piange disperatamente, l’immagine è molto suggestiva perché vediamo il killer che chiude lentamente gli occhi come a cancellare qualcosa che non può vedere, quasi si trattasse di un’immagine che viene dalla sua mente. (Spesso in questi film la rottura della barriera difensiva viene veicolata da figure di bambini che rappresentano evidentemente parti originarie, emotive e bisogni affettivi lontani, non necessariamente nel tempo, quanto nell’ordinamento dei bisogni)

Da questo momento, questa macchina perfetta, come l’orologio che porta sempre al polso e che consulta al secondo per ogni operazione, si incrina e il sangue e le ferite cominceranno a segnare anche il suo corpo.

In un’altra immagine suggestiva lo vediamo tutto protetto dalla tuta da motociclista e dal casco integrale su cui si riflette il mondo circostante, che sta aspettando la sua prossima vittima. Compare una bambina che vende collane, i due si guardano un lungo momento prima che lui parta deciso a fare quello che deve fare. Più tardi, per evitare di travolgere quella stessa bambina, si procurerà una ferita alla spalla. Tale ferita, tale rottura dell’involucro che lo protegge, lo porterà ad uno dei due incontri significativi del suo personale casting.

E’ una ragazza sordo-muta (Pioggia è il significato del suo nome) che lavora nella Farmacia dove lui va a cercare cure per la sua ferita. La ragazza lo colpirà molto, forse perché incarna tutto il suo handicap comunicativo e relazionale, la sua parte autisticoide come direbbe Ferro, la parte che non sente e non ha parole per esprimere le emozioni, a cui lui si avvicinerà, con cui prenderà contatto e da cui si lascerà commuovere.

La loro sarà una relazione silenziosa, mostrata nel film da immagini molto belle e poetiche. La ragazza lo accompagnerà in un percorso di scoperta e contatto con aspetti "estetici", come li intendeva Meltzer, che riattiveranno il suo mondo emotivo e affettivo.

Ma le cose non sono semplici, la comunicazione tra queste due parti fragili e lontane, è molto precaria: è notte, hanno appena passato una felice serata insieme, la ragazza gli passa un biglietto "con te mi sento sempre felice", sta camminando un passo avanti a lui immersa in quello stato di sogno che deriva da quanto gli ha appena detto e dalla risposta che immagina verrà da lui. Arrivano due borseggiatori armati che tentano di derubare Joe, lui naturalmente reagisce con le capacità che ha a disposizione, li disarma e li uccide. Il tutto avviene come in un sogno, un sogno parallelo a quello che sta sognando lei, oppure l’incubo che sta dietro al suo sogno, le immagini sono sfocate e rallentate e l’azione si svolge nel silenzio, la situazione è sdoppiata anche per noi spettatori che vediamo quello che lei, girata di spalle, non può vedere, ma nello stesso tempo come lei, non sentiamo alcun rumore e siamo quindi per metà ancora nello stato idilliaco della loro unione e per un’altra metà consapevoli della scena violenta e drammatica che si sta svolgendo alle sue spalle. E’ evidente che una parte non vuole "sentire" e vedere gli aspetti aggressivi, mentre l’altra non può che farsene carico, fino al momento in cui uno schizzo di sangue cade sulla maglia bianca di lei che si tocca la spalla e si ritrova la mano insanguinata. A quel punto si gira e vede la scena già conclusa, i cadaveri a terra e lui con la pistola in mano e terrorizzata scappa via.

Sembra proprio che le parti tenere e fragili non possano convivere con le parti aggressive, neanche se al servizio di aspetti protettivi e difensivi.

L’altro personaggio fondamentale del "casting" è Kong (l’altra metà di King-Kong …?).

E’ una delle vittime scelte dal killer, il collaboratore casuale che Joe assolda per ogni operazione e che poi elimina per non lasciare tracce dietro di sé. Kong viene rappresentato tutto sommato come "un bambino" che contratta su tutto (a cominciare dal compenso per il suo lavoro, ma come se si trattasse di caramelle), che a volte è disobbediente (non rispetta gli orari ferrei che Joe gli mette) e che lo guarda come un padre di inarrivabile fascino e destrezza.

Tra i due nasce un rapporto inaspettato, il Killer non è più "totalmente killer" e ad un certo punto ci dirà "… perchè non l’ho ucciso? Perché quando lo guardavo negli occhi mi è sembrato di vedere me stesso … "

C’è una scena molto bella da un punto di vista evocativo in cui Joe si trova in una situazione di minaccia della sua incolumità, deve tagliare i ponti e andarsene, si avvicina col coltello a Kong che lo guarda stupito e smarrito negli occhi e allontana con il braccio l’arma che Joe tiene premuta sul suo collo. Il gesto irreversibile del killer, questa volta non si compie, si ferma su un contatto che è decisivo, un contatto di sguardi, di volti, diventa un gesto che ri-flette, torna indietro e si ripete, viene ripetuto tante volte, attacco e difesa, diventa un dialogo, una forma di studio, di conoscenza, di insegnamento. Da quel momento Kong sarà il suo allievo e il killer il suo Maestro che gli insegnerà a difendersi e a proteggersi.

Come dicevo il film è un film d’azione, molti contenuti passano per i gesti o "le gesta" che fanno la trama del film. Il Cinema è "immagine in movimento" ed è attraverso l’azione che noi facciamo un’esperienza emotiva del film, non c’è più la dicotomia pensiero-azione perché è proprio attraverso la nostra partecipazione allo svolgersi del film che noi viviamo emozioni e produciamo pensieri. I fratelli Pang sono stati molto bravi in questo lavoro e ci hanno offerto costantemente spunti per fare il nostro personale lavoro di de-costruzione rispetto al racconto e di ricostruzione onirica rispetto al contenuto emotivo del racconto stesso.

Nel finale del film sarà Kong e la sua ragazza che il killer salverà, una coppia possibile, un’integrazione possibile per salvare la quale rinuncerà alla sua vita.

(C’è un finale alternativo nel dvd che, devo dire, mi piaceva molto e che avrei, da un punto di vista emotivo, preferito come finale: nel momento in cui il killer è in trappola, non ha più vie d’uscita dopo che ha cercato di salvare Kong e la sua ragazza, sarà proprio il ragazzo, fortificato da quanto ha imparato da Joe e ormai legato a lui da un profondo legame, a salvarlo. Lo porta fuori dalla trappola in cui si trova e lo aiuta ad andarsene. L’ultima sequenza ci mostra il loro commosso saluto, Joe ha lasciato a Kong un’eredità mentre lui se ne va, in barca, da qualche parte con "l’eredità" che gli ha lasciato Kong).

Clint Eastwood in Invictus fa dire a Mandela, che parla con il capitano della squadra di rugby: come si fa a mantenere viva la forza di fare del proprio meglio nel compito che ci si è prefissi? Io, dice, cerco ispirazione nel lavoro di altri ….

Probabilmente abbiamo bisogno del lavoro di altri che, con altre forme ed altri strumenti, attraverso per lo più l’ispirazione artistica (direbbe sempre Meltzer), riescono a volte a condensare in immagini o in poesia quello che, da un punto di vista teorico, dovremmo spiegare in modo più lungo e più contorto.

Dice Ogden: "Rimango sempre più impressionato dal modo in cui le immagini e i racconti dei film sembrano avere a propria volta una parte del potere evocativo delle immagini e dei racconti dei sogni", è per questo che mi sono dilungata nel proporre questi film, perché se per Ogden il fulcro del lavoro dell’analista dovrebbe essere il PARLARE COME SOGNARE, nell’attesa che anche noi come Ferro riusciamo a fare dei racconti clinici, avvincenti sequenze di film o dei piccoli "gialli", possiamo intanto continuare ad attingere dai film, immagini per sviluppare questa capacità trasfigurativa e sognante.

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