LO SPIRITO E L'OSSO
Scritti a futura memoria
La solitudine degli affetti instabili e il posto vuoto del desiderio
L'Annuario statistico italiano 2019 conta 25 milioni e 700 mila famiglie. Il dato dice che in Italia ci sono sempre più famiglie e che queste sono sempre più piccole. Cioè queste aumentano di numero ma hanno sempre meno componenti. Secondo l’Istat la causa di ciò è legata soprattutto alle famiglie unipersonali cresciute negli ultimi venti anni di oltre 10 punti: dal 21,5% nel 1997-98 al 33% nel 2017-2018 fino a diventare un terzo del totale. In relazione alla composizione familiare si assiste a un progressivo invecchiamento della popolazione che aumenta il numero dei single. Adesso si tende a restare in questa condizione e a vivere, quando possibile, più a lungo da soli prima di formare un nucleo famigliare.
Sintetizzando se aumentano le famiglie con un solo componente ciò è dovuto da una parte all'allungamento dei tempi di uscita da quella di orgine, per lo più per motivi di studio e di lavoro e quindi economici, dall'altra a una società più "dinamica" e flessibile. Così è del tutto normale che si possa decidere di vivere da single per poi formare una coppia e magari tornare ancora single, rimandando la decisione di creare una "nuova" famiglia. Molte di queste mini-famiglie sono poi composte da individui che, per diverse ragioni, vivono lontano dai luoghi d’origine e, quindi, dal gruppo parentale di sangue.
Questa l’analisi dell’Istat che fotografa la realtà contemporanea delle famiglie italiane. E il decreto che inaugura la Fase 2 della gestione sanitaria della pandemia da Covid-19 in Italia sembra non tenerne conto. Infatti il tanto discusso, e problematico, riferimento alla possibilità di incontrare i congiunti, con i dubbi che il termine ha scatenato e i successivi chiarimenti del Governo, mostra che alle sue spalle c’è un’idea di famiglia che non corrisponde a quella contemporanea. Secondo tali “precisazioni, conteute nelle «Domande frequenti sulle misure adottate dal Governo», «i “congiunti” cui fa riferimento il DPCM sono: i coniugi, i partner conviventi, i partner delle unioni civili, le persone che sono legate da uno stabile legame affettivo, nonché i parenti fino al sesto grado (come, per esempio, i figli dei cugini tra loro) e gli affini fino al quarto grado (come, per esempio, i cugini del coniuge)». Non vengono contemplati gli amici, né i conoscenti, cioè quella variegata umanità che per i single che vivono lontano da casa rappresenta l’orizzonte dell’esistenza. Così gli individui che vivono lontano dalla famiglia sono destinati a permanere nella condizione di isolamento già sancita dalla cosiddetta fase 1.
Tutto questo rischia di rendere problematici, e concreti, gli effetti psicologici di quarantena e isolamento sui soggetti che non hanno affetti stabili. D’altra parte, e per quanto il problema sia stato finora perlopiù evitato, tali effetti in termini di ansia, stress ed evitamento sono concreti, come ha mostrato “The Lancet”. Eppure, non negando tali difficoltà, è possibile guardare alla solitudine anche come una condizione con delle potenzialità. In fin dei conti è tipico della specie sapiens – e forse di tutti gli esseri viventi – cercare di fare delle situazioni difficili, soprattutto se non evitabili, qualcosa da cui trarre dell’utile. E la condizione di solitudine può anche essere l’occasione per scorprire e fare i conti con l’opacità e la mancanza che al fondo abitano ogni soggetto.
Lo ha detto bene lo psichiatra Eugenio Borgna, in un suo splendido libro, La solitudine dell’anima (Feltrinelli 2010), in cui opera una distinzione tra l’isolamento, distorsione patologica che se si traduce in forma di vita, in rifiuto del contatto con l’altro, rischia di inaridire mortalmente l’esistenza, e la solitudine, intesa come “spazio” per il contatto con se stessi, con la vacuità che ci costituisce e, dunque, con il posto vuoto abitato dal desiderio. E qui entra in gioco la psicoanalisi che, già con Freud, ha chiarito che “Il desiderio non è una cosa semplice” e “sapere quello che si vuole” è il più grande dei misteri. Infatti, a differenza di quanto solitamente creduto, il desiderio non coincide con la possibilità di volere un oggetto piuttosto che un altro, riguarda piuttosto ciò che al fondo di ogni domanda resta opaco e non può essere saturato attraverso le merci. Come spiegare ciò? Ricordandoci con Lacan che il desiderio è segnato da una mancanza. E ciò vuol dire che al fondo di tutto ciò che raggiungiamo per saturare questa faglia, che è al tempo stesso la condizione del rilancio significante che consente l’esistenza, c’è un’assenza di sapere. La conoscenza di quello che desideriamo ci è preclusa, è dunque mancante anche a noi stessi. Non sappiamo nulla del nostro desiderio e per questo la sua irruzione nell’esistenza ha sempre un carattere perturbante (Das Unheimliche).
Il desiderio dunque espropria sempre il soggetto della sua volontà, e si vede benissimo nelle logiche della vita amorosa, in cui ciò che unisce due soggetti appartiene sempre al campo del mistero, a ciò che non può essere programmato. In questo senso il desiderio è quanto di più prossimo al soggetto, ma anche ciò che gli resta sempre precluso. E di cui, nella misura in cui disarticola le sue certezze, non vuole saperne nulla.
Esemplificativo, a tal proposito, è l’ultimo racconto scritto da Kafka nel 1923: La tana, in cui viene descritta una situazione che presenta alcune possibili analogie con la reclusione resa necessaria della pandemia. Nel racconto il personaggio, per ripararsi dal mondo esterno pieno di pericoli, si scava una tana estremamente ingegnosa nel suo impianto, piena di cunicoli che dovrebbero difenderlo dall’esterno, confortevole e ricca di ogni bene materiale. In questa fortezza, che in qualche modo garantisce la sicurezza della vita quotidiana, e a cui si è abituato, a un certo punto irrompe un fischio misterioso di cui il protagonista non capisce l’origine. Il fischio cresce via via di intensità. Ecco possiamo immaginare l’irruzione del fischio come qualcosa dell’ordine del desiderio. Qualcosa che irrompe espropriando il soggetto delle certezze della vita quotidiana e lo costringe a chiedersi finalmente chi è e cosa vuole veramente. A fare i conti con la propria mancanza.