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IL GRUPPO AI TEMPI DEL COVID: “NOLI ME TANGERE”

17 Mag 20

A cura di gilbertodipetta

Rieux sapeva cosa pensava in quel minuto il vecchio uomo piangente,
e la pensava come lui, che un mondo senza amore era come un mondo morto
e che viene sempre un'ora in cui ci si stanca delle prigioni,
del lavoro e del coraggio,
per domandare il viso di una creatura e il cuore meravigliato dell'affetto. 
 
La peste aveva tolto a tutti la facoltà dell’amore e anche dell’amicizia;
l’amore infatti, richiede un po’ di futuro, e per noi non c’erano più che attimi.
 
La liberazione, avvicinandosi, aveva un volto in cui si mescolavano lacrime e risa.
Camus, La Peste, 1948
 

Michela è una donna alta, robusta, con modalità (apparenza, andatura, complessione fisica) decisamente mascoline. Ella vuole che la si appelli al femminile. Durante il gruppo Dasein-analitico è finita, per un gioco di inviti, nell’epicentro del campo, delimitato a cerchio largo da circa 15 detenute e 4 operatori. Davanti a lei, a tentare di incontrarla, si alternano, lentamente, una dopo l’altra,  le compagne di cella. Le sue compagne. Il giorno prima, durante il lavoro, Michela è esplosa in una crisi furibonda. Come una leonessa ferita ha fronteggiato guardie e compagne insieme. Non ce n’era per nessuno, spalle al muro, inavvicinabile. La sua rabbia e le sue urla scuotevano la prigione. Le sue compagne, adesso, sono tenere con lei, ma inutilmente; dopo essersi sedute di fronte a lei, si spostano, invitate da me, accanto a lei e attorno a lei. Di spalle, le fanno corona. Come a dire, almeno con il corpo, che sono comunque dalla parte sua. Al centro del gruppo si forma, cosi, un trifoglio di donne, le compagne sono i petali e Michela è lo stelo. La fragile spuma marina si è scontrata sulla scogliera, e Michela, col suo riso amaro, beffardo, quasi incongruo, ha trasformato la tenerezza delle compagne in altrettanta rabbia. Rabbia che chiama rabbia; rabbia, che trasfonde rabbia. E più rabbie, insieme, urlano verso l’agito. I toni delle voci si alzano. Una, ad un tratto, delusa, le ha detto in faccia che ieri l’avrebbe proprio macellata, osso dopo osso, una poltiglia di carne e di sangue. Il gruppo fa silenzio. Come il coro greco di tremila anni fa al cospetto del tragico. Le donne hanno gli stessi volti di allora, coperti dai veli, profili di marmo su uno sfondo di tenebra. Volti tagliati, segnati, ossuti, duri, tesi. Di chi ha tutto patito. E, cionondimeno, ancora tutto patisce. L’alibi, che da ieri Michela urla alle mura e alle grate, è che proprio nel mese di maggio perse suo figlio, il suo unico figlio e, dunque, nessuno può accostare questo dolore, che la sua indole trasforma in rabbia clastica. E’ stata immediatamente sospesa dal lavoro di carpenteria leggera, poichè inaffidabile nel maneggio di martelli e altri arnesi potenzialmente letali. A quel punto mi alzo. La situazione ci sta scivolando di mano. Lascio la mia posizione di membro concentrico del gruppo per situarmi, anche io, nell’epicentro del sisma. Rimangono ferme le colleghe psy a tenere la barra, qualunque cosa accada. Mi porto la sedia. Ora sono di fronte a lei. Ma a distanza. Abbiamo le mascherine che ci tolgono i due terzi del volto, ma siamo occhi negli occhi. Le chiedo, quasi sottotono, se posso farle una domanda. Il suo respiro è affannoso. Mi concede il permesso, con un cenno della testa. Si inclina, quasi a raccogliersi per caricarsi, aspettandosi il colpo. Michela è un animale ferito. Mi faccio coraggio, inspiro, come quando ho il bersaglio nella croce dell’ottica, ed inizio, lenta, in apnea, la trazione del grilletto, fermando il battito del cuore. Mi passa per la mente, come un lampo, l’incipit di “Lettera ad un bambino mai nato”: Stanotte ho saputo che c’eri: una goccia di vita scappata dal nulla. Me ne stavo con gli occhi spalancati nel buio e d’un tratto, in quel buio, s’è acceso un lampo di certezza: sì, c’eri. Esistevi. È stato come sentirsi colpire in petto da una fucilata”. “Qual è la tua colpa nella morte di tuo figlio?”. Ho azzardato. Ho sentito che tanta rabbia era diretta solo a se stessa. Per una colpa inemendabile. L’ho sentito quando si è addolcita solo davanti a Maria, che il figlio Mirko lo ha ucciso a forbiciate, con le sue mani. Allora ho intuito che anche le mani di Michela dovevano essere, nel suo immaginario, sporche di sangue. Adesso, dopo quello che le ho chiesto, ho paura della sua reazione. Ho dato corpo ad un fantasma, in maniera diretta. Michela, sotto il colpo, si accascia. Scoppia, colpita al cuore, in un pianto dirotto. Si aggomitola, per quanto è lunga, come ho visto fare alle giraffe assetate sulle pozze d’acqua nel deserto del Namib. Adesso il conglomerato di rabbia, come un ghiacciaio in estate, si scioglie nel fiume delle lacrime. Quel giorno era confusa, forse anche “fatta”, girovagava, tra un ospedale e l’altro della città, senza risolversi. Si ruppero ad un tratto le acque. Il bambino nacque morto. Trema. Michela trema come una foglia e piange.
 


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In quel momento sento i corpi di tutte risuonare della potenza dello “Stabat Mater”, la messa dei sette dolori della Madonna, l’anima di Pergolesi e dei suoi ultimi giorni tra queste antiche mura.“ Vide il suo dolce Figlio / che moriva, abbandonato da tutti, /mentre esalava lo spirito”. Vorrebbe prendere le mie mani, Michela. Ma non possiamo toccarci; però avanzo le gambe, a terra, verso di lei. Le porgo i piedi. Nonostante ella sia, tutta, dentro l’onda del pianto, si toglie, senza usare le mani, con gesto rapido dei talloni contro il suolo, le ballerine per rispetto, per non sporcare le mie con le sue scarpe. Pone delicatamente i suoi piedi nudi sulle punte dei miei scarponi, il cui cuoio è così spesso che non avverto la sua pressione. Nel pianto di questa donna, di questa mater dolorosa, la tensione angosciosa del gruppo, che stava per esplodere nell’azione muscolare, lentamente si scioglie. Il cerchio umano, tutto femminile,  intorno a lei, finalmente respira. I lineamenti dei volti sono invisibili, ma gli occhi  sono tutti bagnati di lacrime, lucidi, e irradiano luce dai volti. Io vengo da una notte di guardia in SPDC. Sono stanco. Avanti e dietro dal Pronto Soccorso. Ma non sento più stanchezza. Quando sollevo lo sguardo verso il cerchio del gruppo mi vedo circondato da donne che, cesellando il dolore, hanno raggiunto la perfezione della bellezza. Sono tutte vestite alla meglio, pettinate alla meno peggio, non hanno nulla per curare il proprio corpo, eppure hanno la solennità delle coreute della Grecia antica. Nei loro volti vedo le dee dei Cumani, e invece che in un vecchio monastero fatto a prigione siamo all’aperto, in uno dei piccoli templi, sulla vicina acropoli.  Non sento più neanche la domanda : “Che ci faccio qui? Io, unico uomo tra trante donne. E perché mi trovo al centro, adesso. Ho il sudore che mi imperla la fronte. Come un artificiere, ho forse deconnesso i fili di una bomba con il timer innescato? Ora respiro. Sento mille mani che mi sostengono. Il mio scudo è deposto. Mi prende l’onda della commozione come una fiamma di ritorno: neanche il mio bambino è mai nato. Neanche io accarezzerò mai i piedini del mio bambino, non perderò mai le dite tra i suoi riccioli. Sento, solo allora, tutto il dolore della perdita. Gli undici anni che sono seguiti a quella perdita, di cui Michela si fa colpa, sono stati tutti un tentativo di distruggere la sua vita tra droghe e carcere. Non sono solo, però, davanti a lei. Sento le colleghe psy molto vicine.  
Solo una ha dovuto alzarsi e si è  allontanata dal gruppo. Sento le donne, tutte, dentro il mio tentativo di aprire l’ascesso di quella colpa, di drenare la lava incandescente della rabbia; di ridare, a questa donna, la possibilità di sentirsi donna, fino in fondo, anche se non più madre. Alla sua bambina, alla bambina che lei è, al bambino che io sono, a noi due bambini, a noi tutti, bambini mai nati, o non ancora nati, o nati prematuri, la possibilità di rinascere.  Di nascere ancora. Un’altra volta ancora.

Questa che ho raccontato è solo una delle sequenze di questo anomalo gruppo, che stiamo con-ducendo nel Carcere femminile in epoca COVID.
Ma è veramente possibile, mi domando, vivere un’esperienza di gruppo mantenendo la “distanza interpersonale”, con le mascherine che coprono il volto e svisano la mimica facciale, senza mai entrare in contatto fisico, neanche per stringersi la mano, per salutarsi, all’inizio e alla fine?
E’ veramente possibile vivere un’esperienza di gruppo senza assembrarsi prima e dopo il gruppo?
Senza dare alle proprie emozioni, prima compresse e poi liberate, la via dello smaltimento cinetico?
E’ possibile vivere un’esperienza di gruppo senza che i corpi si dispongano nello spazio secondo le linee magnetiche che il campo o l’atmosfera determinano di volta in volta? Senza potersi poggiare una mano sulle spalle nei momenti più critici?
Queste erano le questioni che, improvvisamente, si erano affollate nella mia mente quando, all’alba del lockdown anti COVID, ai primi di marzo, sia la Direzione Sanitaria che la Direzione Penitenziaria della Casa Circondariale femminile di Pozzuoli, mi chiesero di dare continuità all’esperienza del gruppo con le detenute, adottando, tuttavia,  stringenti misure anticontagio.
Mi dissi, tra me e me, che era impossibile, e che il gruppo stesso e il suo clima ne sarebbero stati snaturati. Vidi, invece, nello sguardo di Arianna, la psicologa che era con me, brillare una possibilità. E fu allora decidemmo insieme di coglierla.  Sono quasi tre mesi, che, nel Carcere femminile di Pozzuoli, andiamo avanti così. Sostenuti dai sanitari e dalle agenti, portando avanti un’esperienza di psicoterapia che, diversamente da come vengono in genere considerate le attività psy, è stata ritenuta “necessaria”, “indifferibile”,  alla stregua quasi di un intervento chirurgico di emergenza. Certo, alle normali difficoltà di realizzare un’esperienza di gruppo in condizioni ordinarie, in un istituzione totale quale il carcere, se ne sono aggiunte altre.
Ma, vista la restrizione caduta sui colloqui individuali, visto il blocco degli incontri con le famiglie e la sospensione di altre attività sociali, ci sembrava che quella possibilità che ci veniva offerta non dovesse andare perduta.
Ci è stato concesso lo spazio del teatro, al piano terra del Carcere.
Una sala vetusta, grande, ovattata di tendoni pesanti di velluto e moquette verde consumata, con luci fioche e aria stagnante. Abbiamo così sgombrato lo spazio antistante il palcoscenico dalle prime file di sedie, di legno e di ferro, ed abbiamo disposto le seggiole di plastica verde con i braccioli, quelle da bar sport,  a più di un metro di distanza le une dalle altre.
Al centro abbiamo messo solo le due seggiole affrontate, e abolito le sedie posteriori “di sostegno”.
A guardarlo, il cerchio mi pareva veramente molto largo, come una camera d’aria sfiatata che perdesse di tenuta. Mi sentivo sconfortato. Ma mi ha colpito che alle signore non è sembrato tanto strano. Hanno cominciato a scendere alla spicciolata. Come sempre. Ci vuole sempre dalla mezzora ai tra quarti d’ora perché possiamo cominciare, nonostante gli annunci che Angela fa al megafono. E qualcuna continua ad arrivare nel corso del gruppo. O addirittura alla fine, come è accaduto in uno degli ultimi gruppi, quando Elena è arrivata prima che io potessi concludere, dopo il giro finale. L’abbiamo accolta, ci ha detto che stava lavorando, ma che era tormentata dall’idea che noi eravamo giù, in gruppo. Ho chiesto a lei di concludere il gruppo.
La discesa delle detenute alla spicciolata dipende dal fatto che coordinare il movimento tra i piani è sempre complicato, e dal fatto che ognuna di loro è coinvolta in molteplici attività, anche lavorative, che spesso si sovrappongono. Oppure il tempo del gruppo va a coincidere con le videochiamate alla famiglia.
Oppure, semplicemente, non è disponibile il bagno per prepararsi, visto che nelle stanze ci sono più persone, ognuna con le sue esigenze. Come operatori sono sempre stati presenti, oltre a me, almeno due psicologhe e una psichiatra. Eravamo abituati a salutarci all’inizio, con le signore, ed anche alla fine del gruppo, stringendoci la mano o anche scambiandoci bacetti sulle guance.
Dunque distanza.
La mia comunicazione iniziale, in questo periodo COVID, è stata  “Non potremo più toccarci, non potremo guardarci per l’interezza dei nostri volti, ma possiamo stare qui, insieme, condividere questo spazio per questo tempo, e provare a sentire che cosa ci accade, che cosa proviamo quando stiamo insieme, nello stesso spazio, l’uno al fianco dell’altro, l’uno di fronte all’altro, l’uno con l’altro. In questo momento in cui tutto è sospeso, questo è, forse, l’unico gruppo al mondo che ha avuto la licenza di continuare ad esistere. Come Orfeo, il più grande cantore dell’antichità, anche noi abbiamo commosso gli dei dell’oltretomba, abbiamo ottenuto il permesso di andarci a prendere la nostra Euridice, per riportarla dall’ombra verso la luce.
Ma come Orfeo non poteva girarsi per guardarla, così noi non possiamo toccarci”. Il gruppo ha luogo il giovedì mattina, e io sono sempre reduce da una notte in SPDC. Sono io che inizio, e racconto subito quello che ingombra il campo della mia coscienza dall’esperienza della notte. Un uomo che arriva portato dal 118 perché si è spezzata la corda con cui ha cercato di impiccarsi; oppure la ragazza che ha tentato il suicidio con gli acidi; oppure lo stato confusionale di chi è stato trovato vagando senza meta, o fisso, nudo sugli scogli a guardare il mare. Ma racconto anche della mia solitudine, della mia paura di rimanere contaminato. Di non poter più abbracciare mio padre. La miccia, a questo punto, parte, ognuna, dalla sua posizione, racconta quello che sente.
C’è chi non parla, passa. C’è chi inizia a singhiozzare. Sale la tensione e il dolore, ad un certo punto, si taglia. Vengono evocati affetti lacerati, strappati. Amori falliti, perduti, delusi. Recidive. Natali e Pasque senza la libertà. Violenza inferta e violenza patita. In altri tempi sarebbero partiti degli abbracci. Qualcuna si sarebbe alzata e si sarebbe diretta verso chi stava singhiozzando. L’avrebbe abbracciata in silenzio. Quell’abbraccio, quelle due figure strette nell’abbraccio, in quel momento, avrebbero curvato tutto lo spaziotempo. Sarebbe diventata quella scultura umana, per una frazione di esistenza, una modalità di esistere di tutti. Ci saremmo ritrovati tutti in quell’abbraccio contenitivo e consolatorio. Invece questo non è più possibile. Chi piange, adesso, piange da solo, anche se davanti agli altri, con il volto coperto dalla mascherina. Rimaniamo, anche sotto l’onda d’urto emotiva, invece, stranamente tutti immobili, in silenzio.
C’è una differenza tra piangere da soli, in una cella, e piangere davanti a tutti?
O piangere con tutti? Il giro continua.
Ognuna è convocata a dire una parola. C’è silenzio. Non ci si muove neanche sulle sedie. I corpi sono inerti, consegnati all’immobilità, al divieto di entrare in contatto. E pertanto cessano di muoversi. Sembra che le emozioni evaporino, non potendo smaltirsi per via cinetica, saturano l’aria. Alla fine del primo giro l’aria è pesante, un torbido di dolore, di rabbia. Non c’è quello che mi aspettavo, mentre fuori ci si contamina e si muore, credevo che qui, da dentro, blindati, al sicuro, si soffrisse di meno. Mentre fuori tutti stanno chiusi dentro, credevo che qui si fosse abituati ad essere chiusi dentro. Invece non è così. Scopro che provano tutte un dolore fortissimo per quanto sta accadendo fuori. Una paura che il  mondo finisca. Una paura, all’uscita, di non trovare più il mondo la fuori. Capisco quanto sia importante il mondo di fuori per il mondo di dentro. Quanto questo dentro sia possibile solo se legato al fuori. L’impossibilità di vedersi con i congiunti ha evidenziato l’indissolubilità di un legame. L’aria è scura, anche un po’ pesante.
Lo spazio è grande, ma ci avvolge. Le agenti non entrano, siamo soli, siamo in orbita e ci reggiamo solo con il nostro respiro. Quello che proviamo è prima grezzo, poi sottile, ha il tessuto morbido di una tela di ragno, intessuta a mo’ di uno scialle femminile, da mille fili di seta sottili, di mille colori.
 Ora che il nostro corpo fisico (Koerper) è bloccato, è di legno, è di cera, è di piombo, ho la netta percezione che il nostro corpo vissuto (Leib), il corpo che siamo, si distacchi, si dissoci, si  evagini ad un tratto dal corpo fisico, proprio come un’evanescenza, e si mescoli all’interno dello spazio gruppale, creando quella che Fuchs chiama la extended mind. Accade, così. qualcosa di paradossale: che noi, pur non potendo toccarci, di fatto ci tocchiamo. Ci tocchiamo senza toccarci. Ci tocchiamo tutti con tutti. Ci tocchiamo dentro la carne viva, dentro la nuda struttura della vita.  Solo gli occhi si tengono con gli occhi al di fuori della mascherina.  Che cosa vogliono dire gli sguardi. Abbiamo solo quelli. O forse no. Abbiamo quello che sentiamo, lo stato d’animo, il calore del corpo, il bollore, la tensione muscolare o il rilassamento. Delle cose accadono dentro di noi, dentro ognuno di noi, crampi, mani fredde, mani calde, pugni contratti, respiro che diventa affannoso. Però ci sentiamo un amalgama. Il fuori svanisce, eppure non siamo mai stati tanto legati al fuori. Immagino, ad un tratto, che in quell’abbraccio ci sia anche mio padre. Appena possibile.
Di dirgli : “Adesso lasciati abbracciare, papà, non mi respingere. Mettiamo tra parentesi il nostro essere uomini, il nostro dover essere sempre forti.” E così, da dentro, questa eclissi del mondo esterno si percepisce in maniera straordinariamente più vivida. Cerchiamo “dentro” di noi il “tra” di noi, e “dentro” il “tra” di noi  il fondamento. Avevo letto che, durante l’ultima Guerra, gli ufficiali inglesi nei campi di concentramento sopravvivevano aggrappandosi alla fantasia del melo piantato nel giardino della casa in Inghilterra.
Ora, che il mondo esterno ha chiuso, che tutto è sospeso, il tentativo che stiamo facendo è quello di trovare un fondamento dentro il legame tra di noi. Sovvertire la logica del carcere, homo homini lupus, o quella esterna del bellum omnium contra omnes.
L’altro non è più il nemico. Semmai il nemico peggiore di noi stessi siamo noi, se non ci “degradiamo” nell’altro. Ognuno di noi, come diceva Chatwin, porta dentro di sé l’idea che un giorno lo ucciderà. Quando ci alziamo, alla fine del gruppo, non è più il corpo cadavere, pesante, il nostro, ma è il corpo vivente che si alza. Il corpo che siamo, mescolandosi con la corporeità di tutti, è diventato corpo proprio, si è sentito, è stato sentito. Ed è tornato nel corpo “istituzionale”, vivificandolo. Si è compiuto il miracolo dell’incontro. Che forse durerà per qualche ora, per qualche giorno, fino al prossimo gruppo. Forse per sempre. E’ una zattera, dentro questa prigione, questo gruppo. Come Ulisse fu aiutato da Calipso nell’isola di Ogigia a costruire la sua zattera, così noi qui cerchiamo di “pareggiare” i tronchi. “Pareggiare” è il verbo esatto usato da Omero. E Husserl utilizza il termina Paarung, per definire questo accoppiamento intersoggettivo ed empatico che avviene sul piano del corpo che siamo. La corda con cui leghiamo i tronchi di questa zattera è la fibra che ricaviamo da questa raffineria dei dolore. E' il fondamento intersoggettivo della nostra umanità. Il chiasma di cui parla Merlau-Ponty. Qualcosa di più potente e vitale di tutte le psicologie. Qualcosa di fondamentale, che è situato prima dei nostri conflitti, con cui ripariamo le nostre parti mancanti, i nostri vuoti di essere,  Anche senza toccarci, nell’immobilità apparente dei nostri corpi, abbiamo sentito e sentiamo, ad ogni gruppo, tutta l’armonia espressa nel quadro di Matisse La Danse. Sentiamo i colori e la forza con i quali i ballerini  si tengono, e volteggiano. Diventiamo noi i ballerini di Matisse. Sentiamo e ci trasmettiamo, da un certo punto del gruppo in poi, dinamismo ed equilibrio. Non più le urla dell’impotenza e della rabbia, dei tagli sulla pelle e dei graffi sulla faccia, e degli sputi, ma affiatamento composto, non frenetico, perché “L’armonia nascosta vale più di quella che appare” (Eraclito). Un giorno mettermo questa zattera nel mare aperto del mondo. Salperemo verso la libertà. Forse, anche se solo da un gruppo di naufraghi sull’isola del tempo, anche nostra la sfida al COVID è vinta.

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