Joker. O la clinica della violenza
20 maggio, 2020 - 06:08
di: Raffaele Vanacore
Anno: 2019
Regista: Todd Phillips
Un uomo è seduto su di uno sgabello in un camerino, lurido, abbandonato anche se non solo. La radio annuncia uno stato d’emergenza, sanitario, sociale, politico. Ma, potremmo aggiungere, psicologico, personale, individuale. Gotham City è infestata dai ratti, dal tifo, dal possibile crollo economico. Arthur Fleck, allo stesso tempo, è un clown, ma, come ci rendiamo subito conto, è uno di quelli che non fa ridere. E cosa c’è di più tragico di un pagliaccio che, anzi, fa ridere soltanto per la sua stessa persona, per quello che è dietro la maschera? Siamo subito in una realtà ben diversa da quella, ad esempio, della Vienna asburgica, dell’Europa di inizio secolo scorso, di Ulrich, l’uomo senza qualità. Se, infatti, nel romanzo di Robert Musil, un’epoca storica è caratterizzata come indolente, come incapace di mettere in atto le proprie qualità, Gotham City è definita, sin dalla scena del pestaggio di Arthur da parte di ragazzini, come una città dominata dalla rabbia, dall’odio, dalla violenza.
Insomma, non si tratta più di un’età della vaghezza, dell’indefinito, del possibile non attuato, ma di uno scenario di tensione esplosiva, di rancore aggressivo, di bastonate ben assestate. Arthur Fleck, in sostanza, è molto diverso da Ulrich. E la sua epoca da quella dell’Austria dei primi decenni del ‘900. E per questo, forse, come il romanzo di Musil è stato importante nel caratterizzare quei tempi ed i personaggi che li abitavano, così la genesi del Joker utili spunti ci può offrire sulla realtà in cui, oggi, viviamo.
Arthur, allo stesso modo, è un clown ben diverso da Hans, il protagonista delle “Opinioni di un clown”, il capolavoro di Heinrich Böll. Hans è infatti un personaggio tragico, destinato all’introspezione ed allo svelamento delle ipocrisie di una società borghese come quella tedesca del secondo dopoguerra. L'abisso in cui Hans sprofonda nelle poche ore in cui è ambientato il romanzo è quello del naufragio nella commiserazione di chi, infine, non può far altro che lanciargli pochi spiccioli. Ma le opinioni di un clown sono quelle espresse dai tipici rappresentanti di una società ipocrita, pronta a passare dal nazismo alla liberal-democrazia, dal fascismo all'atlantismo. Hans, insomma, è un clown triste, la cui tragica esperienza rimanda ai dipinti del periodo blu di Picasso. Circensi estraniati ed emarginati, senza posto nel beffardo fariseismo di chi riesce sempre a farcela.
Arthur Fleck, invece, ride in maniera incontrollata. La sua esperienza sembra frammentata, ricostruita in maniera incongrua come i dipinti cubisti di Picasso. Ci sono vertigini di dolore pronte ad essere colmate da una violenza rabbiosa. Queste moderne scomposizioni sono pronte, però, ad essere condivise. Arthur, come pifferaio magico e tremendo, non starà lì a raccogliere monetine, ma sarà il front runner di una corte di giullari pronti alla violenza ed alla sopraffazione.
Ma andiamo con ordine. Arthur, a colloquio con un’assistente sociale, ci dice, o forse ci colpisce domandosi: “sono io o sono tutti gli altri che stanno impazzendo?”. Insomma, siamo subito calati nello sfondo in cui le sue azioni prendono forma. Per così dire, “c’è molta tensione”. Arthur assume, per il suo disturbo mentale, ben sette farmaci differenti. Ma è sostanzialmente abbandonato a se stesso. La speranza di diventare un comico gli dà però ancora fiducia, nonostante un malessere intollerabile. E qui veniamo subito ad punto decisivo: cosa fare quando, come terapeuti, siamo di fronte a chi ci dice “non voglio stare così male”? Quando questo è uno stare male diretto, immediato, svelato, non ancora cristallizzato, non definito in forme psicopatologiche, se non quella della vita stessa di Arthur? Fin qui abbiamo ancora pochi elementi per la nostra indagine. C’è questo clown, incapace di far ridere, che sta molto male, alle soglie della follia. Nel frattempo, la città è assediata da “super-ratti”, l’economia è al collasso, la tensione sociale alle stelle. Quello stato d’emergenza, tanto sociale per Gotham City quanto psicologico per Arthur, sta divenendo incontrollabile. Il cratere sta per scoppiare.
Ecco che però un amico gli dà una pistola, offrendo, in maniera inconsapevole, ad Arthur l'occasione di attuare certe possibilità. E questa non tarda ad arrivare: ancora una volta deriso da tre ragazzi dell’alta società, non esita, ancora truccato da pagliaccio, a sparar loro, uccidendoli. Il vulcano è esploso: Arthur non prova alcun rimorso, la città inizia a ribellarsi alle élites, i cittadini protestano violentemente indossando maschere da clown. E la metamorfosi di Arthur Fleck nel Joker inizia a compiersi. È una metamorfosi in una follia devastante, atroce, distruttiva. Ma, ecco, ci sembra, interpretare questa metamorfosi come schizofrenica non coglie la struttura dell’esistenza di Arthur. Non vi è una incapacità ad affermare una soggettività né una deriva delirante, ma una lucida consapevolezza di chi si è destinati ad essere, pur nella natura in sostanza criminale. Ed infatti il film ci racconta della storia di Arthur: è stato in realtà adottato, ha subito abusi fisici fino ad essere legato ad un termosifone, la sua era descritta dai giornali del tempo come “la casa del terrore”. È come se la speranza di diventare un comico avesse prevalso sulla sua parte traumatizzata, in parte dissociata, violentemente abusata. E questo è completamente diverso da una possibile evoluzione schizofrenica, ma più vicino a quelle esperienze che emergono da un tessuto relazionale di traumi, violenza, abbandono. La vita di Arthur è dolore totale, sofferenza fisica e psichica, così interiorizzata da non ricordare finanche la genesi di quel dolore. Insomma, quello che vogliamo dire è che il film è un utile esempio per pensare fuori dagli ormai classici schemi diagnostici, per riconsiderare quelle soggettive esperienze di dolore che scarso posto trovano nei manuali nosografici. Cosa fare quando abbiamo di fronte una sofferenza del vivere, un’incapacità di stare bene? Incatenarle in diagnosi secondo criteri? E in quale diagnosi andrebbe il criterio “dolore del vivere”? Il punto è che, pur nell’eccesso scenico, il film ci offre importanti spunti su alcune evoluzioni psicopatologiche: parallelamente alla crisi sociale ed economica, possono procedere delle crisi personali, che si aggravano ed esplodono secondo modelli ben poco chiariti dai sistemi diagnostici classici. Le esperienze di trauma, abbandono, violenza, incapacità di “stare bene”, possono esitare in forme plastiche, proteiformi, sfaccettate di malattia mentale, soprattutto quando lo sfondo sociale in cui si esprimono è esso stesso dominato dalla rabbia, dalla violenza e dal trauma. Un esempio attuale è quello del COVID-19. L’esperienza traumatica della pandemia sembra favorire, in termini psicopatologici, proprio queste forme di tensione emotiva esplosiva (spesso però provata ad attenuare con l’uso di sostanze), di sintomi dissociativi (dalla realtà e da sé), di intense distorsioni percettive (specie visive). Per questo, dunque, la pandemia ci offre un’importante occasione per ripensare le modalità secondo cui pretendiamo di incasellare i pazienti. E ce la offre perché è essa stessa, ci sembra, l’apogeo di modificazioni sociali e relazionali già in atto. Le enormi difficoltà economiche e lavorative, l’inaridimento dei contatti fisici, la paura insita in noi in quanto attori in una società del rischio. Fin quando un’esistenza riesce ad affermarsi, le possibilità trasformative in senso psicopatologico non sono attuate. Ma lì dove tale esistenza è minacciata, messa concretamente in pericolo, in particolare quello di una esistenza invisibile peggiore della morte, il dolore e la sofferenza possono farsi psicopatologici. Ma non è un’evoluzione schizofrenica, non c’è una rottura di quella dimensione costitutiva della soggettività, rottura che classicamente esita nel delirio e nelle allucinazioni uditive. È, piuttosto, una soggettività che può affermarsi come dissociata, emotivamente instabile, potenzialmente violenta. E infatti per Arthur l’omicidio dei ragazzi è liberatorio: lo troviamo a danzare, a sorridere della morte inferta.
Arthur viene poi a scoprire che la madre non è la vera madre e l’ha adottato da piccolo. E, ricordandosi ora delle violenze e degli abusi subiti, la uccide soffocandola. Joker è entrato in scena. Le violenze continuano, tanto in città quanto nella vita di Arthur, che infine uccide Murray (interpretato da Robert de Niro), il conduttore che lo aveva deriso ed invitato in TV per prenderlo ancora in giro. La città è in fiamme. Il terrore è instaurato.
Ma cosa fare, dunque, di fronte a questo dolore terrifico? Quando, come clinici, siamo di fronte non ad una Guernica collettiva ma ai volti scomposti di Picasso? Quando l’esperienza altrui ci si offre come dolorosamente fratturata? Quando non sappiamo, noi che non abbiamo tecniche di cucitura né test sierologici per la sofferenza umana, come ricomporre queste esperienze di dolore? Come detto, in molti casi oggi non abbiamo di fronte l’indolenza di inizio secolo o la malinconia del secondo dopoguerra, ma la violenza dell’instabilità, la tensione della precarietà, l’insofferenza verso la vita. Il rischio – o meglio, ciò che sembra unicamente rimanerci – è di farci noi stessi clown, “giocolieri delle passioni degli altri", come splendidamente ha scritto Gilbero Di Petta in un suo articolo (“Noi, psichiatri del Novecento: gli ultimi clown”). Lo psichiatra del Novecento è quello che entra in scena, in un Pronto Soccorso, in un reparto, ma forse in un qualsiasi incontro con un paziente, inscenando un bluff metodologico. Siamo portatori di una messinscena spacciata per rigore diagnostico-terapeutico. Ma per Di Petta, che riprende nel suo articolo il “Ritratto dell’artista da saltimbanco” di Starobinski, questo artificio, questo giocarsi il tutto per tutto con quel poco di materiale scenico che abbiamo a disposizione, può costituire l’ultimo baluardo di spontaneità di una vita destinata al dolore, o di una clinica, quale quella psichiatrica, in buona parte alla deriva verso l'inconsistenza. Questa insensatezza da saltimbanco, questo residuo di emarginazione civile, può divenire, paradossalmente, “la premessa per il passaggio al senso”. Proprio come quei clown che, purtuttavia, nella profonda melanconia riuscivano comunque a far divertire.
Ma Arthur Fleck, come abbiamo visto, è un clown di altro tipo. Il suo repertorio non è fatto di malinconia, spontaneità, divertimento, ma di rabbia, terrore, violenza. E per questo, il Joker di Todd Phillips è indicativo di un profondo mutamento sociale e psicologico. La sete di sangue del Joker non si alimenta della chiusura nel delirio, ma si apre alla condivisione del saccheggio e della brutalità. L’instabilità sociale e psicologica, per tornare a quello stato d’emergenza da cui eravamo partiti, sembra ormai diffondersi, non essere più prerogativa degli emarginati. E questi quadri psicopatologici entrano generalmente in scena in maniera violenta e brutale, con aggressioni, omicidi, tentativi suicidari, overdose di nuove sostanze, bullismo reale e virtuale. E ci sono, da un lato, SPDC che sembrano succursali delle caserme di polizia; dall'altro i nostalgici dei manicomi. In una spirale che, paradossalmente, porta la psichiatria a considerare, ancora una volta, il malato mentale come il pericoloso, l'agitato, l’aggressivo. Il punto è che se non ci sforziamo di comprendere queste nuove, violente, forme di disagio e dolore, non ci sarà più nulla, la nuova emarginazione sarà istituzionalizzata. E questa volta in maniera ben visibile.
Insomma, sostituendo alla analisi delle esistenze da cui emergono queste forme di sofferenza e di dolore, l'incasellamento in categorie nosografiche – il disturbo post-traumatico da stress, il burn out, l’aumento dell’ansia e della depressione – come sembra stia prontamente avvenendo nella scalpitante ricerca psichiatrica, ci faremo ancora una volta guardiani dell'ordine pubblico, gestori dello scandalo sociale, ufficiali della buoncostume. Al contrario, l'incontro con queste vite in frantumi, con questi personaggi alla deriva, è il primo passo verso la comprensione di queste esperienze ardenti di sofferenza e verso la possibilità di una cura. Dobbiamo scegliere che psichiatria vogliamo per i prossimi anni.
Insomma, non si tratta più di un’età della vaghezza, dell’indefinito, del possibile non attuato, ma di uno scenario di tensione esplosiva, di rancore aggressivo, di bastonate ben assestate. Arthur Fleck, in sostanza, è molto diverso da Ulrich. E la sua epoca da quella dell’Austria dei primi decenni del ‘900. E per questo, forse, come il romanzo di Musil è stato importante nel caratterizzare quei tempi ed i personaggi che li abitavano, così la genesi del Joker utili spunti ci può offrire sulla realtà in cui, oggi, viviamo.
Arthur, allo stesso modo, è un clown ben diverso da Hans, il protagonista delle “Opinioni di un clown”, il capolavoro di Heinrich Böll. Hans è infatti un personaggio tragico, destinato all’introspezione ed allo svelamento delle ipocrisie di una società borghese come quella tedesca del secondo dopoguerra. L'abisso in cui Hans sprofonda nelle poche ore in cui è ambientato il romanzo è quello del naufragio nella commiserazione di chi, infine, non può far altro che lanciargli pochi spiccioli. Ma le opinioni di un clown sono quelle espresse dai tipici rappresentanti di una società ipocrita, pronta a passare dal nazismo alla liberal-democrazia, dal fascismo all'atlantismo. Hans, insomma, è un clown triste, la cui tragica esperienza rimanda ai dipinti del periodo blu di Picasso. Circensi estraniati ed emarginati, senza posto nel beffardo fariseismo di chi riesce sempre a farcela.
Arthur Fleck, invece, ride in maniera incontrollata. La sua esperienza sembra frammentata, ricostruita in maniera incongrua come i dipinti cubisti di Picasso. Ci sono vertigini di dolore pronte ad essere colmate da una violenza rabbiosa. Queste moderne scomposizioni sono pronte, però, ad essere condivise. Arthur, come pifferaio magico e tremendo, non starà lì a raccogliere monetine, ma sarà il front runner di una corte di giullari pronti alla violenza ed alla sopraffazione.
Ma andiamo con ordine. Arthur, a colloquio con un’assistente sociale, ci dice, o forse ci colpisce domandosi: “sono io o sono tutti gli altri che stanno impazzendo?”. Insomma, siamo subito calati nello sfondo in cui le sue azioni prendono forma. Per così dire, “c’è molta tensione”. Arthur assume, per il suo disturbo mentale, ben sette farmaci differenti. Ma è sostanzialmente abbandonato a se stesso. La speranza di diventare un comico gli dà però ancora fiducia, nonostante un malessere intollerabile. E qui veniamo subito ad punto decisivo: cosa fare quando, come terapeuti, siamo di fronte a chi ci dice “non voglio stare così male”? Quando questo è uno stare male diretto, immediato, svelato, non ancora cristallizzato, non definito in forme psicopatologiche, se non quella della vita stessa di Arthur? Fin qui abbiamo ancora pochi elementi per la nostra indagine. C’è questo clown, incapace di far ridere, che sta molto male, alle soglie della follia. Nel frattempo, la città è assediata da “super-ratti”, l’economia è al collasso, la tensione sociale alle stelle. Quello stato d’emergenza, tanto sociale per Gotham City quanto psicologico per Arthur, sta divenendo incontrollabile. Il cratere sta per scoppiare.
Ecco che però un amico gli dà una pistola, offrendo, in maniera inconsapevole, ad Arthur l'occasione di attuare certe possibilità. E questa non tarda ad arrivare: ancora una volta deriso da tre ragazzi dell’alta società, non esita, ancora truccato da pagliaccio, a sparar loro, uccidendoli. Il vulcano è esploso: Arthur non prova alcun rimorso, la città inizia a ribellarsi alle élites, i cittadini protestano violentemente indossando maschere da clown. E la metamorfosi di Arthur Fleck nel Joker inizia a compiersi. È una metamorfosi in una follia devastante, atroce, distruttiva. Ma, ecco, ci sembra, interpretare questa metamorfosi come schizofrenica non coglie la struttura dell’esistenza di Arthur. Non vi è una incapacità ad affermare una soggettività né una deriva delirante, ma una lucida consapevolezza di chi si è destinati ad essere, pur nella natura in sostanza criminale. Ed infatti il film ci racconta della storia di Arthur: è stato in realtà adottato, ha subito abusi fisici fino ad essere legato ad un termosifone, la sua era descritta dai giornali del tempo come “la casa del terrore”. È come se la speranza di diventare un comico avesse prevalso sulla sua parte traumatizzata, in parte dissociata, violentemente abusata. E questo è completamente diverso da una possibile evoluzione schizofrenica, ma più vicino a quelle esperienze che emergono da un tessuto relazionale di traumi, violenza, abbandono. La vita di Arthur è dolore totale, sofferenza fisica e psichica, così interiorizzata da non ricordare finanche la genesi di quel dolore. Insomma, quello che vogliamo dire è che il film è un utile esempio per pensare fuori dagli ormai classici schemi diagnostici, per riconsiderare quelle soggettive esperienze di dolore che scarso posto trovano nei manuali nosografici. Cosa fare quando abbiamo di fronte una sofferenza del vivere, un’incapacità di stare bene? Incatenarle in diagnosi secondo criteri? E in quale diagnosi andrebbe il criterio “dolore del vivere”? Il punto è che, pur nell’eccesso scenico, il film ci offre importanti spunti su alcune evoluzioni psicopatologiche: parallelamente alla crisi sociale ed economica, possono procedere delle crisi personali, che si aggravano ed esplodono secondo modelli ben poco chiariti dai sistemi diagnostici classici. Le esperienze di trauma, abbandono, violenza, incapacità di “stare bene”, possono esitare in forme plastiche, proteiformi, sfaccettate di malattia mentale, soprattutto quando lo sfondo sociale in cui si esprimono è esso stesso dominato dalla rabbia, dalla violenza e dal trauma. Un esempio attuale è quello del COVID-19. L’esperienza traumatica della pandemia sembra favorire, in termini psicopatologici, proprio queste forme di tensione emotiva esplosiva (spesso però provata ad attenuare con l’uso di sostanze), di sintomi dissociativi (dalla realtà e da sé), di intense distorsioni percettive (specie visive). Per questo, dunque, la pandemia ci offre un’importante occasione per ripensare le modalità secondo cui pretendiamo di incasellare i pazienti. E ce la offre perché è essa stessa, ci sembra, l’apogeo di modificazioni sociali e relazionali già in atto. Le enormi difficoltà economiche e lavorative, l’inaridimento dei contatti fisici, la paura insita in noi in quanto attori in una società del rischio. Fin quando un’esistenza riesce ad affermarsi, le possibilità trasformative in senso psicopatologico non sono attuate. Ma lì dove tale esistenza è minacciata, messa concretamente in pericolo, in particolare quello di una esistenza invisibile peggiore della morte, il dolore e la sofferenza possono farsi psicopatologici. Ma non è un’evoluzione schizofrenica, non c’è una rottura di quella dimensione costitutiva della soggettività, rottura che classicamente esita nel delirio e nelle allucinazioni uditive. È, piuttosto, una soggettività che può affermarsi come dissociata, emotivamente instabile, potenzialmente violenta. E infatti per Arthur l’omicidio dei ragazzi è liberatorio: lo troviamo a danzare, a sorridere della morte inferta.
Arthur viene poi a scoprire che la madre non è la vera madre e l’ha adottato da piccolo. E, ricordandosi ora delle violenze e degli abusi subiti, la uccide soffocandola. Joker è entrato in scena. Le violenze continuano, tanto in città quanto nella vita di Arthur, che infine uccide Murray (interpretato da Robert de Niro), il conduttore che lo aveva deriso ed invitato in TV per prenderlo ancora in giro. La città è in fiamme. Il terrore è instaurato.
Ma cosa fare, dunque, di fronte a questo dolore terrifico? Quando, come clinici, siamo di fronte non ad una Guernica collettiva ma ai volti scomposti di Picasso? Quando l’esperienza altrui ci si offre come dolorosamente fratturata? Quando non sappiamo, noi che non abbiamo tecniche di cucitura né test sierologici per la sofferenza umana, come ricomporre queste esperienze di dolore? Come detto, in molti casi oggi non abbiamo di fronte l’indolenza di inizio secolo o la malinconia del secondo dopoguerra, ma la violenza dell’instabilità, la tensione della precarietà, l’insofferenza verso la vita. Il rischio – o meglio, ciò che sembra unicamente rimanerci – è di farci noi stessi clown, “giocolieri delle passioni degli altri", come splendidamente ha scritto Gilbero Di Petta in un suo articolo (“Noi, psichiatri del Novecento: gli ultimi clown”). Lo psichiatra del Novecento è quello che entra in scena, in un Pronto Soccorso, in un reparto, ma forse in un qualsiasi incontro con un paziente, inscenando un bluff metodologico. Siamo portatori di una messinscena spacciata per rigore diagnostico-terapeutico. Ma per Di Petta, che riprende nel suo articolo il “Ritratto dell’artista da saltimbanco” di Starobinski, questo artificio, questo giocarsi il tutto per tutto con quel poco di materiale scenico che abbiamo a disposizione, può costituire l’ultimo baluardo di spontaneità di una vita destinata al dolore, o di una clinica, quale quella psichiatrica, in buona parte alla deriva verso l'inconsistenza. Questa insensatezza da saltimbanco, questo residuo di emarginazione civile, può divenire, paradossalmente, “la premessa per il passaggio al senso”. Proprio come quei clown che, purtuttavia, nella profonda melanconia riuscivano comunque a far divertire.
Ma Arthur Fleck, come abbiamo visto, è un clown di altro tipo. Il suo repertorio non è fatto di malinconia, spontaneità, divertimento, ma di rabbia, terrore, violenza. E per questo, il Joker di Todd Phillips è indicativo di un profondo mutamento sociale e psicologico. La sete di sangue del Joker non si alimenta della chiusura nel delirio, ma si apre alla condivisione del saccheggio e della brutalità. L’instabilità sociale e psicologica, per tornare a quello stato d’emergenza da cui eravamo partiti, sembra ormai diffondersi, non essere più prerogativa degli emarginati. E questi quadri psicopatologici entrano generalmente in scena in maniera violenta e brutale, con aggressioni, omicidi, tentativi suicidari, overdose di nuove sostanze, bullismo reale e virtuale. E ci sono, da un lato, SPDC che sembrano succursali delle caserme di polizia; dall'altro i nostalgici dei manicomi. In una spirale che, paradossalmente, porta la psichiatria a considerare, ancora una volta, il malato mentale come il pericoloso, l'agitato, l’aggressivo. Il punto è che se non ci sforziamo di comprendere queste nuove, violente, forme di disagio e dolore, non ci sarà più nulla, la nuova emarginazione sarà istituzionalizzata. E questa volta in maniera ben visibile.
Insomma, sostituendo alla analisi delle esistenze da cui emergono queste forme di sofferenza e di dolore, l'incasellamento in categorie nosografiche – il disturbo post-traumatico da stress, il burn out, l’aumento dell’ansia e della depressione – come sembra stia prontamente avvenendo nella scalpitante ricerca psichiatrica, ci faremo ancora una volta guardiani dell'ordine pubblico, gestori dello scandalo sociale, ufficiali della buoncostume. Al contrario, l'incontro con queste vite in frantumi, con questi personaggi alla deriva, è il primo passo verso la comprensione di queste esperienze ardenti di sofferenza e verso la possibilità di una cura. Dobbiamo scegliere che psichiatria vogliamo per i prossimi anni.