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Hereafter di Clint Eastwood

2 Ott 12

Di Margherita-Fratantonio

"Grazie allo sguardo del regista, è un racconto sulla morte dal quale si esce pieni di vita"
(Curzio Maltese, 'La Repubblica', 8 gennaio 2011)

Andiamo al cinema perché ci piacciono le narrazioni e quando sono ben raccontate ci torniamo. Che le storie curano, infatti, non lo dice soltanto Hillman; lo si avverte intuitivamente e intuitivamente si continua a cercarne, perché si depositano nell’ inconscio (vogliamo dire nell’anima?) e hanno un potere terapeutico tutto loro; lì lavorano, come quei sogni che sembrano dimenticati e fanno sempre e comunque il loro dovere.

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La consapevolezza invece ne coltiva solo alcune, le fa sue, le coccola, le colleziona, così come ne rifiuta altre, ostinatamente, ignorando le ragioni profonde della chiusura, dell’incomprensione. L’ultimo film di Clint Eastwood è stato proprio definito "un gioiello incompreso" nel commento appassionato di Andrea Scanzi suLa Stampa; siamo d’accordo con lui e anche con Paolo Mereghetti, che considera pazzi gli Americani per non aver apprezzato "la delicatezza e la serena saggezza del film". "Non sono qualità molto americane e sicuramente non vanno molto di moda". Neanche in Italia, si direbbe, a giudicare da alcune critiche feroci apparse in rete.

Disturba soprattutto sentir contrabbandare Hereafter per una deriva senile del regista, perché sembra si voglia rafforzare così l’idea che il tabù della morte, nella nostra società occidentale, americana e italiana, sia l’ultimo tabù che, lui davvero, non vuole proprio saperne di morire.

Sentiamo cosa ha da dirci Frank Ostaseski, che con la morte invece ha tanta dimestichezza: "Per ciascuno di noi c’è un angolo molto scuro nella mente. E lì, proprio in quell’angolo, c’è una voce che dice: un giorno morirò. Il modo in cui diamo ascolto o respingiamo questa voce determina come vivremo le nostre vite".

I tre personaggi del film di Clint Eastwood si sono trovati loro malgrado a dover ascoltare quella voce: Marie Lelay è una giornalista francese baciata dal successo, ed ora miracolosamente sopravvissuta ad una morte violenta; Marcus, un ragazzino inglese undicenne rimasto desolatamente solo dopo l’incidente del fratello gemello, Jason; George Lonegal, un uomo americano che ha il dono di comunicare con l’aldilà, e che da un po’ di tempo sta faticosamente tentando una vita più normale.

Parigi, Londra, San Francisco. Diverse le parti del mondo, diverse le età, le storie, gli approcci con la morte. E dopo i racconti alternati delle vicende personali, intensissime, di Marie, Marcus e George il loro inevitabile incontro sarà l’unico modo per integrare le differenze e attenuare la solitudine.

Marie, dopo che la voce le ha parlato chiaramente, non può più tornare alla sua vita patinata di prima; lascia il lavoro per scrivere un libro su Mitterand, da tempo rimandato, ma altre pagine le prenderanno la mano e i pensieri: un saggio sulle esperienze di confine tra la vita e la morte, che ripercorra l’esperienza vissuta di recente e che, nello stesso tempo, la confermi.

Marcus non sa trovare appigli all’abbandono, reso ancora più insostenibile dalla madre tossicodipendente che non può tenerlo con sé (struggenti i tentativi dei due gemelli, prima della morte di Jason, per depistare i servizi sociali che vorrebbero allontanarli da lei). Ora viene affidato ad una famiglia che non riesce a lenire il vuoto e la mancanza di senso delle sue giornate, perché, "quando muore qualcuno che amiamo", dice Ostaseski la voce sopita dentro di noi, "ci urla; ci fa sapere che la nostra vita non sarà più la stessa, ma che è stata alterata per sempre."

E per sempre non si riesce a lasciare i nostri cari. La pagina più bella sulla tenace dipendenza da loro l’ha scritta Luigi Pirandello (lui, così razionale!) a proposito della madre; non è l’assenza a farlo piangere, ma la perdita di quella parte del sé che non vuole morire insieme a lei:

"Io piango perché tu, Mamma, tu non puoi più dare a me una realtà! Tu sei e sarai per sempre la Mamma mia; ma io? Io, figlio, fui e non sono più, non sarò più…"

Bellissima la risposta immaginata della madre: ""Guarda le cose anche con gli occhi di quelli che non le vedono più! Ne avrai un rammarico, figlio, che te le renderà più sacre e più belle".

Forse è proprio l’incapacità di trasformare le assenze esterne in presenze intime, in dolci nostalgie della vita che rimane, a non separarci fino in fondo dai nostri lutti e a far sì che, nel film, George sia disperatamente cercato da chi vuole ancora un ultimo contatto con i propri affetti: con la moglie la figlia il padre il fratello. Ma anche vivere in maniera sbilanciata verso una dimensione di morte, non è vita. E giustamente George fuggirà dal suo dono e dal fratello che vuole utilizzarlo per far soldi.

Intorno a Marie, George e Marcus, poi, tante altre persone "normali", che non vogliono ascoltare la voce dentro di loro (e nemmeno le testimonianze di chi non può più ignorarla), tutte le persone che ne hanno paura, come il compagno di Marie, sempre più imbarazzato di fronte al cambiamento della sua donna e alla sua ricerca di profondità. "La morte è la questione centrale delle nostre vite; eppure a mala pena pronunciamo la parola." (Frank Ostaseski).

Un panorama, quello di Clint Eastwood, sulle diverse modalità di pensare la morte, dal timore all’attrazione estrema, e su come il giusto distacco, o la giusta vicinanza, si riflettono nella nostra quotidianità.

Si può ancora pensare che Hereafter sia un delirio dell’ età avanzata di Clint? E’ solo che invecchiando, inevitabilmente, la voce si fa sentire più spesso ed è normale che sia una persona verso la fine della vita ad interrogarsi sulla fine della vita, o no?

A qualcuno l’immagine pacata dell’aldilà è parsa troppo melensa, consolatorio il finale. Ma il fatto stesso di soffermarsi sul tema, forse, è di per sé rasserenante: "La riflessione sulla morte ci rende più gentili gli uni con gli altri"; lo dice ancora lui, Ostaseski, ma ce lo conferma Elisabeth Kubler-Ross: "Se tutti noi facessimo il massimo sforzo per contemplare la nostra morte personale, forse ci sarebbe meno potenza distruttiva intorno a noi!"

Altra critica mossa al film riguarda la struttura ingenua della narrazione. Non potrebbe volerci dire quanto la prevedibilità sia in fondo imprevedibile? Oppure, perché no, quante volte le situazioni imprevedibili siano, inaspettatamente, prevedibilissime?

Equilibrio non perfetto in questo film (e quando mai gli equilibri lo sono!) tra saggezza e genuinità, tra la sapienza a cui Clint Eastwood ci ha ormai viziati e una maniera innocente di vedere le cose.

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