IL SOGGETTO COLLETTIVO
Il collettivo non è altro che il soggetto dell’individuale
di Antonello Sciacchitano

Il dado è tratto

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24 giugno, 2020 - 07:47
di Antonello Sciacchitano

Ovvero l’elogio dell’approssimazione

Il pensiero pensa. Pensare è la facoltà del pensiero di passare da un pensiero all’altro con una certa approssimazione (se l’approssimazione è scarsa c’è la fuga di idee maniacale). Pensare significa passare da un pensiero teorico (immaginario) a uno empirico (reale) o viceversa, correggendo il pensiero precedente e acquisendo nuovo sapere. In questo senso la fissazione del delirio monoideico o della metafisica ontologica non è pensiero. Essendo congetturale e variando dal meno al più verosimile, quello scientifico è invece autentico pensiero. Il calcolo delle probabilità, che tratta la loro variabilità casuale, aiuta a pensare i fenomeni: un ausilio che gli antichi non ebbero. Come vedremo la buona approssimazione, in nome della buona topologia, gioca un ruolo essenziale nel processo di pensiero scientifico, che sa migliorare le proprie approssimazioni, rendendole sempre meno false. La buona scienza non è verità assoluta; è buona approssimazione a fenomeni variabili, non necessariamente esattezza.

Concependola come controparte della res extensa, è facile dare dellares cogitansun modello in estensione, per esempio probabilistico. Il mio tentativo non è una novità. L’approccio moderno alla semantica è estensionale, nel senso che è insiemistico. La verità dell’enunciazione sull’elemento xè l’appartenenza di a un certo insieme X, mentre la falsità è la non appartenenza. La verità di è singolare, distinta dalla verità collettiva concernente tuttigli elementixdi X.[1] La semantica in estensione considera come modello dell’elemento l’insieme cui appartiene; per esempio, l’insieme dei numeri pari è un modello del numero 2, ovviamente non l’unico. Sembra una banalità, ma la teoria dei modelli, come la teoria degli insiemi, contiene teoremi profondi.

L’approccio probabilistico alla semantica è poco diverso dall’insiemistico, potendo il calcolo delle probabilità concepirsi come logica (un reticolo) a infiniti valori di verità. De Finetti la chiamava “logica dell’incerto”.Sia il rettangolo di lati B. I punti di sono gli eventi elementari; ogni evento è rappresentato da una coppia ordinata di due valori: l’ascissa di e l’ordinata di B. Distribuendo delle probabilità su R, come si spalma del burro sul pane, si costruisce uno spazio campionario, da cui selezionare campioni e dove si possono immaginare (“pensare”) passeggiate casuali o processi di diffusione, dovuti alla transizione di un elemento materiale da un punto di al punto contiguo, da un pensiero all’altro. Già i peripatetici sapevano che nel pensiero opera una topologia… pedestre, cioè il sapere di come il soggetto si muove nello spazio mentale.

Curiosamente, forse per un residuo d’inibizione aristotelica, Cartesio non si dedicò al calcolo delle probabilità, benché la nozione di spazio campionario, inteso come prodotto cartesiano (nel caso a due dimensioni il rettangolo R, prodotto dei suoi lati B), sia essenziale a tale calcolo. Nel 1612 Galilei, per fortuna più spregiudicato di Cartesio rispetto ad Aristotele, applicò il concetto di prodotto cartesiano a un caso tridimensionale (cubico), legato al gioco d’azzardo. In Sopra la scoperta dei dadi, Galilei trattò un’inezia, irrilevante in pratica, ma concettualmente importante, perché tipica del modo scientifico di trattare eventi variabili. Si chiese e spiegò perché con tre dadi è più facile fare 10 che 9. L’arte di trattare la variabilità in via probabilistica fu giustificata 42 anni dopo nel carteggio tra Pascal e Fermat del 1654, ma rimase sconosciuta persino a Freud, che non ebbe Galilei in biblioteca.

Nel caso trattato da Galilei lo spazio campionario è un cubo: lì variano i fenomeni elementari, le scoperte dei dadi. Ogni evento elementare è un punto del cubo, rappresentato dalla tripla ordinata di tre coordinate intere, comprese tra 1 e 6: la prima coordinata (l’ascissa) è la scoperta del primo dado, diciamo rosso; la seconda (l’ordinata) è la scoperta del secondo dado, giallo; la terza (l’altezza) è la scoperta del terzo dado (blu). A ogni punto è associata una probabilità, nel caso 1 su 216 per tutti gli eventi, quante sono le scoperte dei dadi (6x6x6). Galilei le chiama “triplicità”: sono le somme a 10 o a 9 di tre addendi compresi tra 1 e 6; il loro numero è 6 per il 10 e 6 per il 9; in ordine lessicografico sono rispettivamente: 136, 145, 226, 235, 244, 334, e 126, 135, 144, 225, 234, 333. Perché, allora, con tre dadi è più facile fare 10 che 9? Perché, contando le permutazioni (gli anagrammi) di ogni “triplicità”, le scoperte del 10 sono 6+6+3+6+3+3 = 27; mentre quelle del 9 sono 6+6+3+3+6+1 = 25, su 216 eventi equiprobabili. La differenza la fa l’evento elementare 333, che si realizza in un solo modo: tutti e tre i dadi uguali. Perciò, avendo più eventi elementari a suo favore, il 10 è seppur di poco più frequente del 9. Questa è una delle “necessarie dimostrazioni”, che insieme alle “sensate esperienze” formano la nuova scienza galileiana.[2] Analogamente si dimostra che l’11 è più vantaggioso del 12; pur avendo lo stesso numero di “triplicità” (6), sono più numerosi gli eventi elementari a favore dell’11 (27) che del 12 (25).[3]

Gli antichi, che pure giocavano a dadi, non notarono la piccola differenza di frequenza tra 9 e 10 con tre dadi (pari a 2 casi su 216), non perché fossero cattivi osservatori, ma perché non ne immaginarono l’esistenza; “viziati” da Aristotele, non sapevano trattare eventi variabili come le “scoperte” dei dadi. La casualità (randomness) per loro non esisteva e quindi non era misurabile; le scoperte dei dadi erano prodotte dalla dea Fortuna, che favoriva ora un giocatore ora l’altro. L’antropomorfismo – supporre un piccolo uomo dentro l’uomo o dentro le cose – è il nemico numero uno della scienza, perché non consente il calcolo; dà finte certezze immediate, ovviamente preferite alle ponderate incertezze delle scienze.

A eccezione dei geometri, gli antichi non erano portati all’epistemologia; pensavano in termini ontologici, senza considerare la variabilità. Erano fissati all’essere che è e al non essere che non è; non ammettevano opzioni intermedie, non previste dal principio logico del terzo escluso. Non ci sapevano fare con le congetture, pensieri potenzialmente falsi che pure sono la forza motrice di altri pensieri.[4] Perciò non pensarono di misurare empiricamente la differenza tra le due frequenze, per esempio, lanciando 216 volte tre dadi. Avessero fatto questa “sensata esperienza”, con buona probabilità (pari all’86,6%) avrebbero costatato empiricamente la differenza di frequenza attorno allo 0,9% tra le “scoperte” del 9 e del 10. La scienza empirica non esiste in sé; non è autonoma; occorre la teoria astratta che ne orienti le osservazioni (lo dissero già Duhem e Bachelard) e valuti in termini statistici, cioè epistemici, la bontà dell’approssimazione tra valori attesi e osservati. Non conoscendo la topologia dei limiti né il calcolo delle probabilità, gli antichi non sapevano approssimare, cioè pensare scientificamente; i loro epigoni, gli attuali umanisti, perpetuano la stessa volontà d’ignoranza, alimentando la resistenza alla scienza galileiana. L’umanesimo eredita l’ottusità delle curie romana e luterana nei confronti di Galilei e Copernico.

L’eccezione fu il genio di Archimede che, raddoppiando cinque volte i lati del triangolo, approssimò πfino alla terza cifra decimale, 3,141, calcolandolo su un poligono di 96 lati: una buona approssimazione nei secoli, degna della futura scienza galileiana. Aggiungete altri due decimali e potrete con buona probabilità arrivare sulla Luna a 384.400 km di distanza media dalla Terra.

A proposito di approssimazione e di π, faccio notare che la legge galileiana dell’isocronismo del pendolo, che fa giocare πT = 2π(l/g)1/2, è approssimata; vale solo per piccole oscillazioni. La legge esatta di Huyghens (1656) non aggiunge in sostanza nulla all’intuizione dinamica di Galilei dell’infinito. Infatti, l’approssimazione di Galilei mostra l’essenza del fenomeno: il moto pendolare è teoricamente infinito, essendo simmetrico tra andata e ritorno; è scritto nella formula: T, il periodo di oscillazione, non dipende dal tempo t; si ripete all’infinito uguale a sé stesso.[5]

Pendolo e ripetizione, cosa direbbe Freud in prima approssimazione? Ne disse qualcosa a proposito del gioco del rocchetto: il Fort/da di suo nipotino. Nella lezione XVII sul senso dei sintomi parla del ticchettio del pendolo che favorisce il sonno. Freud sa dell’esperimento di Foucault sull’invarianza del piano di oscillazione del pendolo.[6] Se ne può derivare una metapsicologia più scientifica e meno aristotelica di quella intavolata da Freud?



[1] Per una trattazione esaustiva della semantica insiemistica, limitatamente alla logica del primo ordine, cioè senza quantificazione dei predicati, v. C.C. Chang e H.J. Keisler, Model Theory (III ed. 1989), Dover, New York 1990.
[2] G. Galilei, “A Madama Cristina di Lorena Granduchessa di Toscana”(1615), in Galileo Galilei Opere, a c. F. Flora, Ricciardi, Milano-Napoli 1953, p. 1019.
[3] Il 10 e l’11 sono gli eventi più frequenti nel lancio di tre dadi; la media è 10,5.
[4] In termini freudiani una congettura è una pulsione; è una spinta epistemica, operante più a livello collettivo che individuale; ha la meta di raggiungere un valore di verità: vero o falso.
[5] Sui rapporti tra infinito e simmetria uscirà un mio saggio nel n. 387 di “aut aut” di dicembre 2020. La formula di Galilei cattura la simmetria nel segno ± inerente alla radice quadrata.
[6] S. Freud “Die Zukunft einer Illusion” (1927, L’avvenire di un’illusione) in Sigmund Freud gesammelte Werkevol. XIV, p. 348. Freud citò il pendolo di Foucault come prova della sfericità della Terra e non della sua rotazione diurna. Si direbbe che la fisica non fu il suo forte. Si aggiunga che Freud non fu aggiornato sulla scienza del suo tempo. Non registrò la riedizione degli articoli di Mendel sulla segregazione dei caratteri genetici, ai tempi in cui scriveva i Tre saggi sulla teoria sessuale. Genio ma ignorante. Freud non fu un caso isolato.

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