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Gli enigmi , le scatole cinesi e i giochi di Joël Dicker; qualche appunto su essere e apparire

5 Lug 20

A cura di gerfavaretto

Joël Dicker è un giovane ( del 1985) e  prestante scrittore svizzero , di Ginevra , che ha un grandissimo successo letterario  tutto maturato nel giro di questi ultimi 10 anni.
I suoi romanzi sono, pur se voluminosi , di agevolissima lettura intessuti di vicende scenografiche , dal suo più famoso “La verità sul caso Harry Quebert “  ( 2012) è stato tratto uno sceneggiato televisivo che lo ha reso noto anche oltre i  confini dei lettori di narrativa.
Joël Dicker , nel suo lavoro,  è un fenomeno: sa scrivere , racconta storie avvincenti e intessute di dialoghi tambureggianti; dentro le centinaia di pagine che compongono i suoi romanzi si percorrono con crescente curiosità misteri e rivelazioni , delitti e scomparse. In più, molto spesso, nelle sue storie Dicker sa portare il punto di vista del narrante dentro al suo testo ;  gioca con la propria narrazione per indurre il lettore ad avere ampie panoramiche dentro il suo lavoro di scrittore. E il suo lavoro di scrittore lo porta, praticamente sempre , a insinuarsi, anche in modo autobiografico ,  nei temi della famiglia , della solitudine , della passione amorosa collocando dentro questi ambiti la necessità del raccontare.
Se dovessi immaginarmi  un irrispettoso (perché lo è di sicuro )   paragone,  Dicker esaspera così tanto questo espediente letterario della ricomposizione dei tempi , dei luoghi e dei punti di vista che non si può non pensare , come contrappunto , a taluni romanzi  ottocenteschi  capaci di cogliere, in modo  efficacissimo, i moti dell’anima e la questione dell’essere ; dell’essere nel mondo, come  vorrei dire se questa espressione  non risultasse una citazione inappropriata e pregna di riferimenti rispetto ai quali è , in fondo,  incolpevole.



L’irrispettoso accostamento a Dostoevskij, e alla sua realistica cronaca dello stato dell’anima dei Demoni o di Delitto e castigo  e delle dinamiche familiare dei Fratelli Karamazov mi viene spontaneo . Questo confronto, ne sono consapevole, ha la stessa inadeguatezza che potrebbe avere confrontare il pensiero di Freud  o di Jaspers , per esempio , con quello ( quando c’è ) di molti professionisti che affollano il web (You tube in particolare)  e che si affannano a spiegare cosa sia il narcisismo, o come si possa prevalere nei conflitti .
Sia ben chiaro questo secondo paragone è impietoso, mescola la luce con la terra , e non può che dissolversi in un garbato sarcasmo . Il paragone, nel  caso Dicker però,  è un po’meno inadeguato, per tanti e validi motivi.
Il primo è che Dicker è uno scrittore intelligente, brillante e professionale. Un cittadino del mondo che può ambientare le sue storie durante la seconda guerra mondiale ( Gli ultimi giorni dei  nostri padri),   nelle province americane del nord , fra l’ élite intellettuale della borghesia newyorkese, in un mondo il cui il successo è il peso che risulta dalla  misura sociale , oppure , come nel caso del suo ultimo romanzo  “L’enigma della camera 622” , tornare a Ginevra , sua città natale , per raccontarne la  dimensione europea.
Il secondo è che più che di un confronto si tratta  di un accostamento per evidenza di contrasti. Una sovrapposizione che misura quanto è accaduto in circa un secolo (qualcosa di più) all’osservazione dell’interiore e alla identità personale e al ruolo dei padri e dei figli. Non voglio parlare qui di Dostoevski; lo fa benissimo il mio amico Paolo Peloso cui rimando per chi volesse riprendere spunti e suggestioni.
Facciamo che quei temi, il rapporto padre figlio, la famiglia, le passioni amorose  abbiano a che fare con l’intima natura del divenire di ogni individuo .
Nella narrazione di Dicker questa dinamica è congruente ma, rappresentata come dentro a un fumetto finisce con l’essere postulata come assente . Se si potesse attribuirgli una posizione  filosofica si potrebbe dire che assume uno sguardo Eracliteo , pregno del paradosso di essere fermo sul gioco costante della sottrarsi di ogni cosa attraverso la sua trasformazione. Finisce con l’essere così implicato nei fatti che sembra quasi evitante ogni forma di riflessione. Si potrebbe dire, continuando con espressioni inappropriate, privo di autocoscienza.  
 Il fatto è che pur presentandosi con riferimenti autobiografici documentati, non c’è nessuna verità possibile in un testo che si presenta come commemorazione di una persona scomparsa, cui evidentemente l’autore attribuiva un ruolo di rilevo, ruolo che viene convalidato da ripetute citazioni della storia personale di Dicker ,  in cui si narrano   momenti della vita dello scrittore che hanno tutte le caratteristiche di una credibile autenticità .
Dentro questo lutto, commovente , della scomparsa di una figura paterna si innesca, attraverso il gioco dell’indagine e della scoperta di documenti e testimonianze, un catalogo di possibili figure nella relazione tra padre e  figlio e di conseguenti vicende di eredità , non solo materiali ma anche morali e pedagogiche. Eredità e tradizioni lasciate dai padri ai  figli  contraddistinte da apparizioni e sparizioni  che lasciano, irrevocabilmente,  aperta  la domanda se lo stesso costrutto dell’ essere figlio , o padre o la natura di questo legame non sia che  un artificio letterario e non una esperienza  della vita. Data a ciascuno nella misura e nella forma in cui è data.
Nell’enigma della stanza 622 (anche la scelta del numero trova poi la sua spiegazione alla fine)  non è discutibile il delicato intreccio fra le diverse figure del padre: il padre scomparso , il padre deluso , il padre senza figli , quindi putativo , il padre assente o ignaro , oppure del figlio declinato esattamente secondo le categorie appena elencate. Questo elenco, infatti, resta condizionato dal fatto che non riesce e non può disfarsi di qualcosa di vero. Così come non possono sottrarsi all’autentico alcuni artifici  letterari  che fanno sì che, per svolgere quei ruoli, i diversi protagonisti devono adottare, nonostante la loro osservanza , come personaggi, alle necessità del “thriller”
Joël Dicker cade vittima della necessità di scrivere un finale, di concludere una trama con una affermazione che sistema le cose la loro posto . Un posto in cui le cose appaiono giuste e gradevoli , se non per il sacrificio dei padri.  Ma per arrivare a quel posto ogni figura, ogni descrizione , compresa la sua , ha la necessità di assicurarsi che il lettore creda alla autenticità di ciò che si racconta. Ha bisogno di pensare che si parli davvero di un’esperienza interiore. Dell’essere nel mondo di qualcuno appunto.
Ma purtroppo non è così . Ogni colpo di scena , costruito abilmente contribuisce a smontare ogni pensiero possibile che non sia il resoconto di un fatto, come in un fumetto , appunto o in uno sceneggiato. Chiuso il libro non trattengo questi pensieri. I padri , i figli , le madri, che sullo sfondo permettono  storie che non hanno un finale e non dovrebbero averlo. Stanno, sì, nel divenire, ma, forse , ancora oggi ,  i fratelli Karamazov, anche loro alle prese con un delitto , anzi  il delitto per definizione ,  parricidio ,   sanno commuoverci molto  di più.

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