C’è chi sostiene che ciò che è bello e vero in alcune culture, o epoche, o in alcuni individui non lo è in altri/e. Sostiene, quindi, che Bellezza e Verità non siano valori universali e che, perciò, non possa esserlo la grande Arte. Ciò si scontra con la realtà innegabile che chiunque sia dotato di sensibilità e intelligenza, indipendentemente dal contesto storico, geografico e culturale in cui vive, finisce per avvertire sentimenti di bellezza e di verità di fronte alle immagini, alle parole, ai suoni creati dai grandi Artisti. Naturalmente, se questi appartengono ad epoche o a culture lontane dalla nostra, occorrerà uno sforzo maggiore per intenderne il linguaggio, ma una volta fatto questo, il risultato è immancabile per chiunque abbia la volontà e la pazienza di arrivarci. Ciò avviene per un motivo molto semplice: gli Artisti, in ultima analisi, ci parlano degli innumerevoli aspetti di un percorso esistenziale comune a tutti gli esseri umani. Comune perché esso corrisponde al ciclo biologico di ciascuno: ognuno nasce, cresce, produce qualcosa e/o si riproduce, invecchia e muore lasciando qualcosa ai propri figli. Ad ogni tappa, una nuova acquisizione è preceduta da un’esperienza di separazione e di perdita, con i sentimenti di dolore e di nostalgia che essa comporta. Recuperare metaforicamente quanto è stato perduto, ripristinare un’esperienza di armonia con sé stessi e col mondo di fronte a tutto ciò che l’ha turbata: tutto questo rappresenta il compito dell’Artista di qualsiasi luogo e di qualsiasi tempo. Chi disconosce le realtà universali trattate dal Poeta, disconosce quel che è essenziale nella sua stessa natura umana, e finisce per giudicare “brutto” e “falso” ciò di cui rifiuta di comprendere la Bellezza e la Verità.
Come esempio di quanto detto sopra, metterò a confronto due poesie molto lontane fra loro nello spazio, nel tempo e nelle modalità espressive: la prima è una creazione degli inizi del ‘900, scritta in spagnolo da Antonio Machado; la seconda è una poesia dell’ottavo secolo D.C. di Wang Wei, scritta originariamente in cinese, tradotta in tedesco da Hans Bethge e meravigliosamente trasformata in musica da Gustav Mahler all’inizio del secolo scorso.
Vediamole:
Parabola Era un niño che sognaba
un caballo de cartòn.
Abriò los ojos el niño
y el caballito no viò.
Con un caballito blanco
El niño volviò a soñar;
y por la crin lo cogìa…
¡Ahora no te escaparàs!
Apenas lo hubo cogido,
el niño se despertò.
Tenìa el puño cerrado.
¡El caballito volò!
Quedose el niño muy serio
pensando que no es verdad
un caballit soñado.
Y ya no volviò a soñar.
Pero el niño se hizo mozo
y el mozo tuvo un amor,
y a su amada le decìa:
¿Tu eres de verdad o no?
Cuando el mozo se hizo viejo
pensaba: Todo es soñar,
el caballito soñado
y el caballo de verdad.
Y cuando vino la muerte,
El viejo a su corazòn
preguntava: ¿tu eres sueño?
¡Quién sabe si despertò!
(C’era un bimbo che sognava / un cavallo di cartone. / Aprì gli occhi il bambino / e più non vide il cavallino. / Quel cavallino bianco / il bimbo tornò a sognarlo; / e lo agguantava per la criniera… / Ora non mi sfuggirai! / Appena l’ebbe acchiappato / il bimbo si risvegliò. / Teneva il pugno serrato. / Il cavallino volò! / Rimase il bimbo molto serio / pensando che non è vero / un cavallino sognato. / E più non tornò a sognarlo. / Ma il bimbo si fece ragazzo / e il ragazzo ebbe un amore, / e all’amata egli diceva: / tu sei vera oppure no? / Quando il ragazzo diventò vecchio / pensava: tutto è sognare, / il cavallino sognato / e quello della realtà./ E quando venne la morte / il vecchio al proprio cuore / domandava: tu sei sogno? / chissà se poi si svegliò!)
Il linguaggio di questa poesia è molto semplice (compare nei corsi di spagnolo per gli autodidatti, come il sottoscritto); il modo in cui il Poeta si esprime è apparentemente ingenuo e infantile. Tuttavia questi versi trattano un problema esistenziale di grande profondità e importanza: il conflitto fra la constatazione del carattere precario della vita e di tutte le cose umane (evanescenti come sogni) e l’anelito inestinguibile a qualcosa d’immortale ed eterno. Il Poeta, sia pure ponendo in forma dubitativa la sua affermazione, lo risolve con la Fede: la morte non è che il risveglio dal sogno della precaria vita terrena, e ad essa subentra la vita eterna.
Del tutto simile è il tema di cui parlano i versi scritti più di mille anni prima e nell’altra parte del mondo: sono, come dicevo più sopra, quelli di un’antica poesia cinese tradotta in tedesco nel secolo scorso. Si tratta di “Der Abschied” (l’addio, la separazione) che fa parte del “Lied von der Erde” (il canto della Terra). Ne riporto, qui sotto, l’ultima parte in cui un uomo dà l’estremo addio all’amico:
Er stieg vom Pferd und reichte ihm den Trunk
des Abschieds da. Er fragte ihn, wohin
er führe und auch warum es müsste sein.
Er sprach, und seine Stimme war umflort: Du mein Freund,
mir war auf dieser Welt das Glück nicht hold!
Wohin ich geh‘? Ich geh‘, ich wandre in die Berge.
Ich suche Ruhe für mein einsam Herz.
Ich wandle nach der Heimat, meiner Stätte.
Ich werde niemals in die Ferne schweifen.
Still ist mein Herz und harret seiner Stunde!
Die liebe Erde allüberall
blüht auf im Lenz und grünt
aufs neu! Allüberall und ewig
blauen licht die Fernen!
Ewig… ewig… ewig…”
(Scese da cavallo, e gli offrì il bicchiere / dell’addio. L’altro gli domandò dove / egli andasse e perché dovesse farlo. / Egli parlò, e la sua voce era velata: “Amico mio, / in questo mondo non mi ha arriso la Fortuna! / Dove vado? Vado a vagare fra i monti. / Cerco pace al mio cuore solitario. / Vado via, torno in patria, nel mio posto. / Mai più mi aggirerò fra questi luoghi lontani. / Tace il mio cuore, e attende con ansia la sua ora! / La cara Terra dovunque / fiorisce in primavera e verdeggia / sempre di nuovo! Dovunque e eternamente / s’illuminano d’azzurro gli orizzonti lontani! / Eternamente… eternamente… eternamente…”)
Qui sentiamo la voce di un “cuore solitario” e disperato: le separazioni e le perdite della sua vita lo hanno segnato definitivamente. Anche qui, come nella poesia precedente, la perdita definitiva e totale, quella della vita, viene paradossalmente intesa come recupero di una dimensione immortale. Il termine “Abschied”, a mio sommesso avviso (anche per il tedesco sono un autodidatta) comunica, molto più dell’equivalente italiano, il carattere lacerante della separazione. Eppure il personaggio che parla in prima persona vive tale separazione estrema come definitivo ricongiungimento: il momento in cui cessa la sue esistenza individuale, limitata e terrena, segna il suo tornare a congiungersi con la Madre Terra, infinita ed eterna.
Se il valore della bellezza e dell’Arte ha un carattere universale, se le verità che ogni produzione artistica comunica riguardano problemi esistenziali comuni a tutti gli esseri umani, ciò costituisce un argomento in più per sostenere che la capacità di comprensione empatica non può conoscere ostacoli insuperabili, per quanto diversa possa essere la personalità, l’età e la cultura cui appartengono le persone che cerchiamo di capire. L’Arte ci offre parole, immagini, suoni, coi quali possiamo rendere rappresentabili e pensabili le realtà interiori che ci accomunano ai nostri simili; ce le rende comprensibili e comunicabili. Una conoscenza dell’Arte, perciò, è bene faccia parte del bagaglio culturale di ogni terapeuta. Si può, così, meglio comprendere quella dimensione soggettiva del malato che non può mai essere trascurata; e questo sia quando la mancata risoluzione dei problemi esistenziali rappresenta il nucleo centrale della sua patologia (come in molti disturbi mentali), sia quando egli deve affrontare il problema della separazione e della perdita che ogni malattia comporta. L’angoscia della perdita è vissuta come particolarmente intollerabile nel grave depresso. Le sue idee di suicidio riflettono, più o meno consapevolmente, la stessa concezione della morte espressa nei versi che abbiamo letto più sopra: la fine della vita è da lui intesa come liberazione da un'esistenza terrena in cui tutto ciò che si ama è destinato a sparire, come ricongiungimento definitivo a qualcosa d’infinito, d'eterno, d'immortale, che non abbandona mai. La differenza fondamentale è che l’aspirante suicida mira, con la morte, al recupero concreto di una condizione di perenne serenità e beatitudine, la cui esistenza è suggerita dalle oscure tracce mnestiche della vita intrauterina (morte come ritorno a prima che, con la nascita, iniziasse la vita); il Poeta, al contrario, ripristina quella stessa condizione in termini metaforici, nel regno dell’immaginazione; il saldo recupero di tale realtà interiore è poi capace di restituire vitalità alla nostra esistenza. È questo il massimo trionfo dell’Arte, la cui funzione è di sfidare tutto ciò che si oppone alla pienezza della vita, ripristinando quell’armonia interiore che l’esistenza di tutti i giorni tende a distruggere.
È d’obbligo, qui (anche a costo di ripetermi) sentire quel che ci dice Proust a proposito della musica che, come una “dea protettrice”, consolava il personaggio Swann per le sue pene d’amore; un amore continuamente minacciato dal rischio dell’abbandono e della perdita: “…Forse soltanto il nulla è il vero, e tutto il nostro sogno è inesistente; ma allora sentiamo che è necessario che queste frasi musicali, queste nozioni aventi esistenza solo in relazione con esso, non siano nulla. Noi periremo, ma avendo per ostaggi queste prigioniere divine che seguiranno il nostro destino. E la morte con loro ha qualcosa di meno amaro, di meno inglorioso, di meno probabile…”. Queste parole del grande Scrittore illustrano, meglio di tutte le altre, come il recupero del sentimento della Bellezza (per tutti gli esseri umani, per quanto diversi essi siano) possa rendere tollerabili tutte le separazioni e le perdite che la vita comporta, anche quelle estreme della morte; e la vita, in tutti i suoi aspetti positivi, può così continuare.
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