Le pandemie che stiamo faticosamente attraversando sono almeno due e diverse: una è la peste ontologica da Sars-Cov 2, l’altra è la peste epistemica di tutti coloro che si sono improvvisati virologi e si sentono in diritto di dire la loro idiozia sul virus e dintorni, nel senso greco di opinione dell’uomo ignorante e inesperto che presume di essere esperto. Qual è più pestifera? Certo la seconda, che non si contrasta con mascherine e regole di distanziamento sociale. Troviamo virologi dappertutto; sono ormai come il prezzemolo sul web e in TV.
55 anni fa mi laureai in medicina con una tesi in immunologia sull’effetto adiuvante delle endotossine batteriche, un’interazione allora poco nota tra immunità innata e acquisita, oggi ritenuta d’importanza fondamentale per combattere il virus. Allo stato, come i virologi autentici, non mi sento in grado di proporre un’idea precisa e definitiva sull’attuale pandemia Covid 19. Sulla pandemia epistemica, invece, mi sono fatto un’idea chiara e distinta, grazie alla mia pratica psicanalitica. Per la verità è un’idea che si riferisce a una pandemia più diffusa e d’insorgenza più antica del Covid 19. In epidemiologia si parlerebbe di endemia. In psicanalisi si parla di resistenza alla scienza galileiana. Mi spiego.
A differenza delle varie endemie biologiche, di quella epistemica posso stabilire esattamente la data di insorgenza: il 22 giugno 1633, giorno in cui Galileo Galilei fu condannato all’esilio. Per quale colpa? Per aver pensato. La stessa colpa di Giordano Bruno, finito sul rogo a Campo dei Fiori 33 anni prima (17 febbraio 1600). Tra i due passava una sottile ma radicale differenza. Il pensiero di Bruno era eretico; pensava verità alternative alle ufficiali; il rogo fu la conseguenza. Galilei non fu eretico; non pensò verità alternative. Anche nei confronti dell’eliocentrismo copernicano rimase su posizioni congetturali, addirittura trovando false conferme nelle maree.[1] Si limitò a pensare “sensate esperienze e dimostrazioni necessarie”,[2] privilegiando – questo fu il tratto sconvolgente per i benpensanti di allora e di oggi – gli esperimenti mentali rispetto a quelli empirici. Potenzialmente il pensiero di Galilei era più sovversivo di quello di Bruno, perché, pur senza proporre verità nuove, le esperienze e le dimostrazioni scientifiche possono smontare verità stabilite e imposte dal potere in modo ideologico. Ma gli inquisitori – ignoranti – non si accorsero del pericolo e con Galilei furono più magnanimi che con Bruno, commutando il rogo in esilio.
L’ignoranza degli inquisitori romani non era un fatto né nuovo né specifico della loro religione. Ma si dimostrò un fatto interculturale estremamente contagioso. Durava da quasi due millenni. L’ignoranza che si propagava si chiamava verità, per esempio quella delle Sacre Scritture. In realtà a questa forma d’ignoranza non importa di quale verità si tratti – religiosa, filosofica o scientifica – purché sia vera o spacciata per tale.[3] Oggi ognuno si racconta la verità come meglio crede, pur che nonsia il modo scientifico moderno, ovviamente ritenuto più pericoloso che vero vero. Il modo del padrone si chiama idealismo[4] ed è sempre più gettonato dal popolo che vuole essere ingannato da favole ben acquisite.[5]Il pericolo della nuova scienza galileiana è di mettere a repentaglio il primato idealistico della verità. Infatti, tratta congetture né vere né false, ma pericolose per l’ordine costituito, come il principio di inerzia, secondo cui in assenza di forze un mobile continua (all’infinito!) il proprio moto a velocità costante in linea retta. Persino Galilei esitò a formulare tale principio, se Cartesio non gli avesse dato man forte e Newton non l’avesse riconosciuto come assioma indimostrabile della nuova fisica non aristotelica (non antropomorfa).
Il concetto d’inerzia era delicato per la mentalità filosofica classica e tuttora lo è per quella umanistica; non è come bere un bicchier d’acqua accettare un principio che fa giocare l’infinito e sospende il principio di ragion sufficiente, postulando moti infiniti senza causa. In proposito noto un fatto singolare. Si sa che gli Elementi di Euclide hanno raggiunto una diffusione non minore delle Sacre Scritture. Perché mai, data l’universale fobia per la matematica? La ragione è che, fino alla comparsa delle geometrie non euclidee nel XIX secolo, per opera di una coorte di matematici del calibro di Gauss, Bolyai, Lobacevskij, Riemann, gli Elementi di Euclide erano considerati il santuario della “vera” verità scientifica, una parallela Sacra Scrittura. Una fallacia di comodo. I tredici libri degli Stoichéia dipendono da cinque postulati (28 precisò Hilbert nel 1899), che non si sa se siano veri o falsi.[6] Tanto che tutta la geometria euclidea risulta di conseguenza né vera né falsa. Con l’insidiosa eventuale conseguenza che, se fosse falsa, tutto il patrimonio geometrico decadrebbe in quanto impensabile, in base al consolidato principio idealistico che il falso non si può pensare.[7] Perciò gli euclidei si accanirono invano per secoli a dimostrare il quinto postulato della parallela. Produssero involontariamente la nascita delle geometrie non euclidee: sferiche (a curvatura positiva, senza parallele) e iperboliche (a curvatura negativa, con più parallele), essendo l’euclidea parabolica o piatta, con una sola parallela.
La faccio breve. I nostri onnipresenti virologi prezzemolari sono roba vecchia; sono gli avatar degli antichi geometri euclidei. Non ammettono il dubbio cartesiano, dovuto alla verisimiglianza, che potrebbe essere falsa; pretendono di dire la verità certa sul virus, costi quel che costi a livello di intelligenza. Arrivano a dire, invocando la Costituzione Italiana, che la pandemia è un complotto del potere per sottomettere la popolazione al proprio controllo, non rispettando il diritto costituzionale alla libertà: una fallacia paranoica, che si regge sul nostro incoercibile bisogno filosofico di verità, risalente ai filosofi greci. Non a caso tra quei supposti virologi figurano filosofi famosi, che evidentemente non hanno il culto dell’intelligenza. Tutto va bene pur di contraddire la povera scienza galileliana, che stentatamente avanza nel riconoscere il nuovo virus e nel preparare i corrispondenti antidoti. Non mi sento di condannarli; è loro diritto dire idiozie; dico solo che sono pensatori (?) ontologici e non epistemici, poco amici delle sensate esperienze e delle necessarie dimostrazioni.
Circolano battute che faccio mie e con cui concludo questo breve post, perché le sento appropriate al mio discorso: in virus veritas o in virus virtus. Le traduco così: “verità” è l’altro nome, quello più comune, del virus Sars-CoV 2. Allora, in nome della verità, siamo diventati tutti virologi virtuali per diritto all’ignoranza. Si può giustamente dire che siamo di fronte a un’isteria di massa, se è vero quel che dice lo psicanalista e cioè che la verità sia la passione dominante dell’isteria mentre la nostra è solo la comune passionaccia ontologica per l’ignoranza.
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