Qualsiasi giorno, in qualunque servizio di salute mentale pubblico. Tante, forse troppe persone in attesa, in cerca di risposte. Ogni mattina, ad ogni incontro, mi chiedo cosa possa fare per chi ho davanti, con gli strumenti a disposizione. Quale può essere il metodo a fondamento di una clinica delle malattie mentali? Da una parte, c’è una larga fetta di psichiatri, e di operatori in generale, che considerano la psichiatria come presidio di somministrazione farmacologica. Una sorta di guardia medica della psiche. Hai un problema o magari sei agitato? Niente paura, basta trovare quel farmaco che fa al caso tuo. Anzi, abbiamo a disposizione una terapia sartoriale, proprio adatta a te. In realtà, questo modello, dominante negli ultimi decenni, ha favorito – come oramai ampiamente dimostrato – una cronicizzazione delle patologie psichiatriche. È come se il disagio psichico fosse stato assimilato ad una sorta di artrite cronica, con cui devi imparare a convivere e per cui devi aumentare i dosaggi farmacologici o cambiare molecola se il dolore aumenta. O ad una sorta di ipertensione emotiva, da stabilizzare e tenere sotto controllo e da curare in ospedale in caso in caso di peggioramento o di complicanze. Ma in quel qualsiasi giorno, in quel qualunque servizio pubblico, questo modello appare ben poco convincente. Cosa fare quindi?
Da un’altra parte, c’è chi considera il disagio psichico come una sorta di disfunzione sociale, ossia di diversità ideativa e comportamentale, da cui ne consegue l’incapacità ad integrarsi in una comunità, e quindi di avere un lavoro e una famiglia, di essere parte attiva di un sistema sociale ben funzionante e predefinito. L’obiettivo sarebbe quello del funzionamento sociale – termine il cui significato continua a sfuggirmi. Il punto è che l’obiettivo, se ben fosse designato quale benessere soggettivo nei contesti della vita, sarebbe di assoluta rilevanza. Ma, più frequentemente, è frainteso come ventaglio di servizi da offrire all’ “utente”. E infatti non si parla di “paziente – come se non ci fosse una sofferenza a chiedere il nostro aiuto – ma di utente, la cui radice etimologicamente rimanda all’ “utilizzo”, o meglio “a chi utilizza un servizio”. E quindi questo modello psichiatrico tende a confondersi con un’agenzia di servizi: il funzionamento sociale è da recuperare tramite un insieme di servizi che vengono offerti all'utente. In pratica, il servizio diventa una protesi e rischia di legittimare la disabilità psichica. Non stiamo ancora parlando di clinica.
Ma andiamo à rebours, controcorrente, come talvolta ci piace fare. Ripartiamo quindi dalla nostra domanda – cosa fare quando abbiamo di fronte chi chiede il nostro aiuto? – e andiamo non verso ciò che, nella maggior parte dei casi, è la pratica quotidiana, ma verso ciò che noi pensiamo possa essere la clinica della sofferenza psichica. Un punto da cui partire, forse banale, ma spesso dimenticato, potrebbe essere questo: come è costituito quello spazio in cui incontriamo il paziente? Non stiamo, ovviamente, domandoci se ci sono o meno condizionatori (anche se ce ne sarebbe tanto bisogno!) o se la stampante funziona. Ma ci stiamo chiedendo come è fatta quella esperienza dell’incontro con il paziente. Si potrebbe rispondere che il campo dell’esperienza si costituisce su quella struttura che alcuni hanno definito oggetto-soggetto-relazione. L’oggetto, in questi termini, è ciò o colui verso cui l’esperienza si direziona. Il soggetto è chi esperisce, vivendola, questa esperienza. La relazione è la struttura di questa direzionalità. Questa struttura oggetto-soggetto-relazione, piuttosto che come base pulsionale della vita, più propriamente pensiamo di definirla come intenzionalità, ossia come fondamento dell'esistenza, a partire dal quale la forma del vivere si definisce. E il luogo in cui – pensiamo – tale fondamento ha la possibilità di svelarsi e riapparire è quello dell'intimità dell'incontro terapeutico. E questa intimità, come ci ricorda Aldo Masullo in una delle sue ultime riflessioni, rimanda non tanto ad un modalità individuale e segreta, ma ad una dimensione dell'inter-esistere, dell'essere rivolto agli altri, quella condizione duale per cui si afferma "l'essere in coppia, in una relazione di perfetta reciprocità che, appunto, per essere perfetta non può che essere fra due". Così Masullo nel suo articolo. Capiamo bene, quindi, da un lato, che non è una gamma di servizi né un prontuario farmaceutico a poter essere a fondamento della clinica psichiatrica, ma che può esserlo l'evento dell'incontro. D'altro lato, comprendiamo come l'altro soggetto dell'incontro, l'altro partecipante di questa intimità, siamo noi. Ma siamo veramente partecipi a quelle "visite" psichiatriche? Siamo veramente partecipi delle nostre vite? O, come abbiamo ricordato altrove, siamo spettri clinici che il paziente non può mai realmente toccare? Sembra infatti che sono in realtà i pazienti a fare visita a noi, nelle nostre stanze, da cui in pratica non ci muoviamo più. L'intimità è apertura, sono corpi che tendono l'uno verso l'altro, vite che si avvicinano.
Ma perché è importante questa intimità per la clinica psichiatrica? Il fatto è che l'incontro terapeutico diviene il luogo in cui l'intimità può svelarsi, come struttura dell'esistenza di quella persona. In altri termini, il campo dell'esistenza, da cui la nuda struttura della vita (G. Di Petta) può affermarsi come sensata in un contesto storico, non può che darsi, in ciò che consideriamo come psicopatologico, come esperienza di sofferenza. E questa modalità del soffrire – o, per meglio dire, del patire: la paticità come radice dell'intimità (A. Masullo) – acquisisce un senso personale, che può cristallizzarsi in forme definite, ma che racchiude, come singolare perla, il senso della sofferenza di quella intimità unica al mondo. Ecco perchè – e questa ci sembra la sfida decisiva nella nostra epoca, invasa dai dispositivi tecnologici e falcidiata dalla virulenza del contagio – questa clinica si afferma proprio nel momento in cui l'essere umano è ancora – più profondamente? – in crisi. La psichiatria territoriale, infatti, ci pone dinanzi ad un vasto agglomerato urbano in cui la sofferenza si fa pulsante ed esige – questo sì un diritto – una cura. Ma quindi, a questo domandare ben poco possono rispondere tanto la psichiatria organicista-farmacologica quanto quella dei servizi. E' come se, rispetto, ad esempio, ad un romanzo come "L'idiota" di Dostoevskij, la situazione si fosse capovolta. L'idiota, come già Dostoevskij aveva intuito, non è più lo scemo del villaggio, il diverso o il buffone scespiriano, quello che dice la verità in un mondo di cortigiani e funzionari. L'idiota, quello che, ovvero, si costruisce un mondo proprio ed apparentemente sicuro, diverso da quello degli altri, è ciascuno dei personaggi del romanzo. Per problemi economici, per delusioni amorose, per vanità derise, ognuno dei protagonisti potrebbe ben ritrovarsi oggi in un servizio territoriale qualsiasi. La clinica si è infatti diffusa, venendo ad occuparsi di una moltitudine di esistenze che chiedono di stare meglio. Però, è a partire da questo paesaggio di esistenze sfiorite che le crisi possono emergere. Penso agli episodi di mania, alle evoluzioni schizofreniche, alle crisi melanconiche, all’abuso di sostanze, alle esplosioni di rabbia e violenza. Pertanto, lì dove possibile, ci sembra che il compito debba essere quella di una riattualizzazione dell’intimità dell’esistenza, a partire proprio dall’incontro con il terapeuta. Da un lato, infatti, in tal modo, possono comprendersi quei modi su cui l’esistenza si è incartata e quelle motivazioni che hanno prosciugato le possibilità alternative ad un sentire sofferente, provando così ad evitare l'esplosione o la riaccensione critica. Dall’altro, a partire da questo incontro, possono porsi le basi per una riaffermazione della libertà che sottende ogni possibilità di vita. Il problema, come già detto sopra, è che nello spazio terapeutico ci siamo anche noi – e non solo psichiatri e psicologi, ma anche infermieri ed operatori. Inevitabilmente, l’esperienza dell’incontro ci coinvolge nella nostra intimità e ci chiama a pensare, ossia a farci sentire il senso che emerge dal nostro far esperienza del vivere.
Anche se qui non si è parlato di psicopatologia territoriale – avremmo, ad esempio, potuto parlare dell’invasione del reale e della evanescenza del soggetto nelle fasi schizofreniche precoci, o della traumaticità della crisi stessa, che i pazienti invariabilmente portano con loro – ma abbiamo provato a parlare di metodo, di cosa fare nella salute mentale pubblica, ed in particolare di quella territoriale. Forse lo abbiamo fatto un po’ come il principe Myskin, l’idiota protagonista del romanzo di Dostoevskij, il cui compito è quello di aprire un varco “nel modo di vedere ordinario”. E questo varco, come ci ricorda Hermann Hesse nella sua splendida postfazione al romanzo, ci conduce non solo verso quella dimensione di sofferenza, così vibrante nelle condizione psicopatologiche. Ma anche ad una condizione “celestiale”, che è quella della serenità dell’esistenza. Paradossalmente, è nei momenti più drammatici che l’uomo può raggiungere questa serenità: prima di essere fucilato o subito prima di una crisi epilettica (esperienze che Dostoevskij ha vissuto in prima persona). E quindi in quei momenti di crisi, di disperazione – forse nascosti – può ritrovarsi quell intima serenità che è alla base della cura. Forse, la crisi è l'unico, disperato momento che si ha per vivere la serenità. E noi, nelle crepe delle loro e delle nostre esistenze, dobbiamo aprire quel varco, da cui la luce della serenità può irradiare.
0 commenti