«Tutti nasciamo matti,
alcuni lo restano per tutta la vita».
(Samuel Beckett).
Riassunto
A partire da tutto quello che si può leggere su Ernesto de Martino, ancora oggi autore apprezzato e frequentatissimo, anche e soprattutto, fuori del suo paese [01], chi scrive – che è medico neurologo e psichiatra, tra l’altro – cerca di far luce su tre aspetti dell’antropologo napoletano: il suo corpo in età adolescenziale con relativi dati anamnestici, il suo giudizio sulla malattia mentale, e soprattutto cosa ha veramente cercato per tutta la vita e perchè. L’autore del presente studio, si è lungamente interrogato sul corpo anatomico (il koerper) dove hanno preso forma e dimorato i suoi pensieri, le sue passioni, gli amori, le curiosità, gl’interessi … e perchè mai avesse così tanto rifiutato la pazzia, l’infermità mentale al punto da collocarla fuori dalla storia umana, pur studiandola fino ad esserne ossessionato.
Nei momenti i riposo e di meditazione leggo de Martino con grande attenzione. Viene subito dopo la poesia, il teatro la musica e la letteratura. Non sono sempre letture silenti, ma vocali. A metà strada tra una “prima lettura” di teatro o di prosa radiofonica col regista a illustrare il tema della rappresentazione, i personaggi, il clima, e una ricerca nella biblioteca di casa mia, in bilico sulla scala, col libro appena tolto dallo scaffale. Perchè de Martino? Per svariati e differenti motivi. Alcuni non chiari neppure a me. È un autore complesso, sterminato, eclettico. Talvolta difficile, su argomenti ritenuti perfino banali (se non inutili), almeno in apparenza, come il magismo, il tarantolismo. il cordoglio delle prefiche del Mezzogiorno. Eppure, un autore che si è interrogato su temi scarni, universali, eterni fondamentali: la nascita, la vita, la salute, la malattia, la morte. Il senso del nostro passaggio terreno, il significato essenziale della nostra presenza … com’era all’inizio, perchè. L’ontogenesi, la filogenesi, come è nato il nostro mondo, il sole, la luna le galassie… Una quantità di domande che de Martino non ha fatto neppure in tempo a completare come avrebbe voluto nella sua breve vita durata cinquantasette anni, cinque mesi e otto giorni.
Iniziai a leggerlo fin da quando mi misi a studiare il mutamento di contesto culturale nelle persone migranti [02]. Da quando mia figlia Chiara – dopo aver frequentato il primo anno della Facoltà di Medicina e Chirurgia – cambiò per quella di Lettere e Filosofia. Quel corso di studi distrutto da Luigi Berlinguer, un miope uomo di storiografia giuridica, seppur di famiglia comitale di Sardegna. Un fallimentare trepiùdue di lettere riformate, in cui la sommatoria funzionale delle parti è rimasta inferiore, e comunque peggiore delle parti prese singolarmente. Il sistema non risultò mai più nè quattro, né cinque. Chiara, la seconda dei miei cinque figli, si era ben presto accorta, che era l’essere umano a interessarla, nella sua interezza, secondo il principio olistico, non tanto il suo corpo fisico o parti di esso per singole funzioni o apparati. Si laureò in demo-etno-antropologia alla scuola romana di studi storico-religiosi di Raffaele Pettazzoni, e fu lei per prima a parlarmi di Ernesto de Martino. Quando poi Bruno Callieri mi raccontò – stupito e lusingato – che il famoso professore napoletano era venuto a cercarlo personalmente, per farsi spiegare come avesse individuato quei sette malati della “Neuro”, descritti ne Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo [03] il mio interesse divenne totale.
1 – Il “materiale umano”.
Sostanzialmente – in piena guerra fredda, con le angosce intellettuali al diapason e la generale rimozione del fungo atomico per poter campare – Bruno Callieri ha descritto clinicamente, da par suo, sette giovani pazienti schizofrenici ricoverati all’accettazione della “Neuro” di Roma, «un campo dei miracoli, una piscina di Lourdes» secondo una folgorante definizione di Lorenzo Calvi [04]. Si trattava di tre donne e quattro uomini (cattolici) che riferivano tutti una esperienza gravida di oscure e terribili conseguenze, come si vivesse la passione del “Venerdì Santo”. Bruno ascoltò – cercando in qualche modo di rincuorarli, perchè non aveva mai dimenticato di essere il loro medico – e raccolse le parole di Claudia 43 anni domestica, Ida 30 anni casalinga, Maddalena 33 anni sarta, Remo 33 anni agricoltore, Aldo 35 anni tecnico industriale, Raffaele 24 anni studente (un precedente psicotico acuto con buona remissione 5 anni prima), Edmondo 27 anni rimpatriato d’urgenza mentre lavorava in Arabia Saudita. Erano sette storie umane di patimento indicibile del corpo, del sistema percettivo, dell’anima, dello spirito, della finitudine dell’essere. Weltungangserlebnis, pensato in tedesco e rabbrividendo fine del mondo, in italiano. Tutt’altro che “casi clinici”.
Ma torniamo alla cattività di questa quarantena da Covid-19 nel primo semestre del 2020. Come tutte le persone prudenti, bastevolmente istruite, diffidenti e critiche sull’informazione mediatica, anch’io ho rigorosamente osservato le disposizioni governative di quarantena anticontagio che ci ostiniamo a chiamare lockdown. Ancora continuo a farlo, perchè le notizie non sono buone e circolano troppi chiacchieroni che si spacciano per “virologi”. Sono cauto e guardingo come tutti coloro che hanno avuto compiti di responsabilità familiare – 5 figli e 7 nipoti, che vengono a trovarmi il giusto necessario, con la mascherina e a distanza sanitaria – nonché responsabilità nel S.S.N. riguardanti, tra l’altro, la direzione di un Dipartimento di Salute Mentale nel Comune di Roma al “Municipio delle Torri”.
Anziché affacciarmi alle finestre per esporre bandiere e cantare come han fatto molti (sono stonato e non possiedo vessilli), ho ripreso la lettura di Ernesto de Martino. Mi sono messo sulle tracce dei suoi innumerevoli percorsi. Mi sono concentrato sulle sue ricerche, anche le più antiche, all’Università di Napoli, da studente ventenne, infatuato e discepolo di un bizzarro professore triestino, Vittorio Macchioro (1880-1958). Costui, archeologo e storico delle religioni, di temperamento mistico, spesso era immerso in esperienze religiose, tanto da abbandonare la famiglia per andarsene in India a Benares. Il suo desiderio di sfruttare “scientificamente” i poteri degli yogin e la ginnastica yoga, raccomandandola a casa e altre affermazioni che risultano dalla corrispondenza [05] non sono facilmente comprensibili. Anzi decisamente allarmanti per la sua stessa salute mentale e le conseguenze sulla psiche del giovane Ernesto, il quale nel frattempo si era invaghito della figlia Anna, che avrebbe poi sposato il 26 dicembre 1935.
Ad un certo punto mi sono anche un po’ sperso nelle vicende partigiane di de Martino a Cotignola, in Romagna, nel 1944. Era sfollato nella casa di campagna della suocera con tutta la famiglia e partecipò alla resistenza contro l’occupazione nazista. Quei luoghi, tra Bologna e Ravenna, da cui partì, nel XV secolo, la Signoria di Muzio Attendolo Sforza, conte di Cotignola, Capitano di ventura, mi sono familiari perchè anch’io sono stato sfollato da quelle parti durante la stessa guerra. Successivamente li avevo frequentati a lungo perchè mia madre portava Lucio, mio fratello piccolo, afflitto da asma bronchiale, alle cure termali (Tabiano, Riolo, Salsomaggiore, Casola Valsenio, ecc). Così mi sono anche sorpreso e distratto – per consentaneità di ricordi e di emozioni – a cavalcare i suoi pensieri come Ippogrifi, invece che attenermi all’uomo Ernesto de Martino, in carne e ossa, come si dice, per indagare la sua salute e il suo sviluppo adolescenziale. Domandare, chiedere, documentare per quanto possibile, come ho sempre fatto nella mia vita professionale di medico.
Principiare cioè dall’anamnesi, la storia fisiologica ed eventualmente patologica remota. Il racconto biologico della sua presenza materica in questo mondo. Data di nascita (se parto eutocico o distocico), madre, padre, fratelli, sorelle, ascendenti e collaterali. Allattamento, dentizione, deambulazione, lallazione, socializzazione. Malattie esantematiche, scuole primarie, elementari, sviluppo adolescenziale. Scuole superiori, università, laurea, servizio militare. Legami affettivi, fede religiosa, ecc. Ecco, mi sono applicato allo studio di queste tappe fondamentali (riti di passaggio) che formano l’intelaiatura entro la quale si costruisce lo sviluppo di un individuo di sesso maschile, e quello che mi ha colpito è stata la velocità. Tutto è risultato fatto alla svelta. Come se avesse presentito di dover correre per fare quello che altri fanno più comodamente e senza fretta.
Cosa si sa della salute di Ernesto de Martino? Esiste da qualche parte un accenno, un appunto, uno straccio di anamnesi medica? Credo sia il punto di partenza fondamentale. Ho rovistato un po’ dappertutto ottenendo scarne notizie che cerco di riportare con ordine. È certo che nacque a Napoli il 1º dicembre 1908, anno bisestile. Quello del caso internazionale “Daily Telegraph” per una intervista del Kaiser Guglielmo II [06] che mise a rumore l’Europa coloniale, ma anche l’anno spaventoso dell’Apocalisse di Messina e Reggio Calabria con tanto di tsunami [07]. Si sa che il padre era ingegnere delle Ferrovie dello Stato, la madre – Gina Jaquinangelo – maestra, era appassionata di spiritismo. Non c’è traccia di visite pediatriche.
Certamente Melanie Klein (1882-1960) e Donald Winnicott (1896-1971) – che pur Ernesto avrebbe poi letto avidamente da autodidatta della psicopatologia, e anche un po’ della neurologia – non avrebbero approvato queste presunte carenze genitoriali, se mai vi furono. Sicuramente de Martino – un titano nel pensiero europeo moderno – non era stato altrettanto favorito nella salute, della quale era consapevole e si lamentava: «… potenza di mente e fragilità di esistenza, questo io sono» [08]. Ogni tanto però qualcosa salta fuori, si materializza ai cercatori più ostinati. Fortuna che esiste l’Archivio e L’Istituto Ernesto de Martino, oggi digitalizzati. Una raccolta di testi, libri, appunti, manifesti, documenti, audio, filmati, e materiali del maestro, lasciatici in eredità da Clara Gallini e Vittoria De Palma col contributo di Adelina Talamonti.
Siamo riusciti a trovare qualche frammento anamnestico attribuito a lui medesimo, «… È proprio un destino che anche nelle malattie io debba uscire dalla “norma”» [09]. Il commento di Emilia Andri, studiosa di cui diremo, è che a codesto accenno di predestinazione anancastica, anche nella salute, del maestro napoletano, segue l’elenco seguente: «… una rara forma di “ittero costituzionale”, la psicastenia della prima giovinezza accompagnata da una forma di epilessia atipica, la tubercolosi» [10]. Non è difficile pensare che l’individuo de Martino avesse piena consapevolezza delle sue intuizioni, dei suoi insight, delle sue capacità di trascendersi ma anche dei suoi limiti fisici. Forse perfino troppa sensibilità, iperpatia, mentre la patologia da lui dichiarata, era molto più normale di quanto volesse farci credere, o lui pensasse. L’ittero costituzionale di Gilbert è una lieve forma di epatopatia benigna abbastanza comune che si apprezza da un subittero delle sclere. La psicastenia di Paul Janet specie se è frutto di una “autodiagnosi” induce molte perplessità. Fu studiata dall’autore francese per 65 anni – come scrivono Castrogiovanni e Coll. [11] – «dal 1882, anno in cui ha iniziato ad interessarsi alla psicopatologia applicando le tecniche ipnotiche a pazienti isteriche all’Ospedale di Le Havre, [fino] al 1947, quando ha pubblicato il suo ultimo articolo, Pierre Janet ha prodotto una trentina di opere monumentali e un centinaio di articoli […] che potrebbero travolgere, per la grande quantità […] degli argomenti trattati». In buona sostanza si tratta di una classe di disturbi ossessivi-compulsivi, fobici, anche con “parassitismi psichici”, abbassamento del tono dell’umore psichico e fisico che da Freud in poi è stato trattato nel grande gruppo delle “nevrosi” o “psiconevrosi”. Che la psiche possa “indebolirsi”, “astenizzarsi”, avere bisogno di “ricostituenti” è una nozione popolare tanto convincente quanto fantasiosa, da fare il paio con l’altra entità clinica, la sindrome che George Miller Beard, nel 1869, chiamò per la prima volta “Neurastenia”, ovvero “esaurimento nervoso”. Difficilmente si riuscì a trovare qualcuno che ne fosse esente a caval di secolo e per molti anni a seguire in quello sopraggiunto.
Altra cosa invece è parlare di tubercolosi e di epilessia. Entrambe le patologie possono rientrare nella categoria dei piccoli infortuni dell’adolescenza come la pleurite giovanile da tenere d’occhio e la cosiddetta “assenza epilettica” da sorvegliare. La prima con “Rx torace”, la seconda con “elettroencefalogramma” per chiarire ogni dubbio sul tracciato. Senza queste due prove documentali, il medico non può fare diagnosi, esattamente come lo storico, non può fare storia, alla stregua del più modesto dei minutanti. Poco oltre, ancora Emilia Andri, cita il seguente passo di de Martino «… sono frequenti uomini atipici, che violano tutte le norme. Io credo di essere uno di questi uomini, e solo mi lascia dolorosamente perplesso il fatto che i miei vari osservatori mi hanno considerato soltanto dal punto di vista delle loro “norme” limitate. I medici hanno fatto a pezzi il mio corpo, i critici hanno considerato solo qualche aspetto della mia anima: i filosofi la metodologia, gli etnologi la etnologia, i politici la politica, ma anche qui a pezzi e bocconi». [12]
Due o tre cose vanno subito dette in ordine all’epilessia per sgombrare il campo da ogni possibile equivoco. L’approssimazione delle informazioni sull’epilessia, che ancora circolano oggigiorno, mi pare incredibile. A distanza di 70 anni, mi rendo conto di quanto fossero utili le conferenze sociali di Mario Gozzano coi familiari degli epilettici per spiegare bene le manifestazioni elettriche della corteccia cerebrale, dire di tenere un calendarietto per segnarci il numero, la frequenza e il tipo delle crisi. Credo che tutti oggi sappiano che cosa sia un elettrocardiogramma, certamente sanno che c’è la “TAC” per chi sbatte la testa, ma non altrettanto mi sentirei di dire per l’elettroencefalogramma, né come si esegua, né a che serva. Dirò di più. Conosco un pronto soccorso neurologico ospedaliero (UTN) che non compra l’elettroencefalografo … per risparmiare!
Senza EEG non si fa diagnosi di epilessia! Si torna al malcaduco. La classica crisi convulsiva tonico-clonica di “grande male”, con la caduta a terra, improvvisa, drammatica, fulminea. Il fremito generalizzato in tutto il corpo, la morsicatura della lingua e la bava alla bocca. C’è di che spaventarsi. Come un tempo, potrebbe esserci ancora qualcuno disposto a credere che sia … una sinistra vicenda di “quelli segnati da Dio”, “colti da maledizione degli dei”, e perchè mai? di quale peccato si saranno macchiati? e così via. Come un tempo, quando accadeva in pubblico, bisognava interrompere la funzione rituale, la cerimonia civile o religiosa per purificare. C’è da rabbrividire, perchè oggi il pensiero corre al Covid-19 di cui ancora si sa molto poco ma bisogna correre immediatamente a sanificare per impedire al virus di espandersi. Nondimeno, anche se c’è sempre la solita irriducibile frangia di “negazionisti”, la differenza abissale consiste nel fatto che, al contrario del cervello umano, il virus – una minuscola entità biologica invisibile, un parassita obbligato a prender casa entro cellule autonome e autosufficienti per poter campare – non pensa. Si limita a contagiare, l’unica cosa che sa fare bene. Ma è solo, sfrattato continuamente, un homlesness, perennemente incapace di andar lontano senza il nostro imprudente aiuto.
Sempre a proposito di comizialità, tremori, convulsioni, tics, tetanismi, opistotoni, movimenti coreo-atetosici, camptocormici, ed ogni altra ritmicità corporea involontaria a genesi neurologica accessuale, visto che la fenomenica è plateale, importante e che il maestro de Martino ne parla diffusamente, ripetutamente, senza incomodare Elio Lugaresi (1926-2015), lo scienziato bolognese che ha inventato la medicina del sonno (e ancora io lo ricordo), ci sarebbe da dire molto altro, come ad esempio il “piccolo male”, l’”epilessia temporale”, l’”assenza”, l’”aura”, tanto per richiamare solo qualche manifestazione morbosa di epilessia. Ma non è questo il luogo per procedere oltre con la neurofisiologia.
C’è, invece, un mondo psicologico e psicopatologico sconfinato, ignoto a chi si sia fermato ai macchinismi, conosciuto, invece, a chi si sia istruito alle letture di Fëdor Michajlovič Dostoevskij (1821-1881), tanto per fare un nome. Tornando al nostro de Martino gli va dato atto che se quella da lui dichiarata come «epilessia atipica», quand’anche si fosse limitata a manifestarsi come esperienza di “assenze” fugaci e transitorie giovanili, non sarebbe stata una condizione nè semplice, nè facile da accettare. Se ad una persona sensibile e attenta come il nostro Ernesto, ogni tanto gli si fosse spenta improvvisamente la coscienza per riaccendersi poco dopo, senza che si riuscisse a ricordare ciò che era successo nel frattempo alla sua persona, andrebbe tutto maledettamente di traverso, a chiunque. E l’aura? Il presentimento di ciò che sta per accadere? L’avvertimento repentino, il balenio di un fulmine. Quel flash da cui intuisci che nell’immediato si spegnerà tutto e la tua presenza come per un bizzarro gioco di prestidigitazione, sarà sostituita con la tua assenza. Può anche darsi, ripensandoci ora, che il fatto di essere espulso periodicamente e improvvisamente dal mondo, abbia acceso la miccia al nostro giovane Ernesto per indirizzare le sue ricerche – frenetiche infaticabili – senza esitazione, a pensare la fine del mondo. Se diamo un’occhiata al periodo infanto-adolescenziale e poi a quello giovanile, nonché allo sviluppo fisico complessivo ed al percorso scolastico del giovane de Martino, forse possiamo scoprire qualcosa di diverso da ciò che si dà per scontato perchè conosciuto da tempo o da tempo ripetuto per automatismo. Ma gli automatismi mentali sono pericolosi. Al contrario, la tautologia è un esercizio utile perchè costringe a ripetere lo stesso concetto con parole diverse com’ebbe a dire tanti anni fa Danilo Cargnello, rispondendo a un giovane Romolo Rossi che aveva posto temerariamente la domanda al maestro di Castelfranco Veneto, in un’affollatissima aula genovese della Clinica delle Malattie Nervose e Mentali.
Quando il nostro piccolo Ernesto compie sette anni la “Grande Guerra”, in Italia, è iniziata da 6 mesi pieni. Quando gli mancano diciannove giorni per farne 10, la prima guerra mondiale termina. Il suo percorso scolastico prosegue in maniera tortuosa, probabilmente per seguire il padre spostato nelle varie sedi ferroviarie. Anche il mio, Ernesto Mellina, fu un ispettore FS e girò mezza Italia prima di giungere a Bologna. Il piccolo Ernesto frequentò il ginnasio a Firenze, mentre il liceo classico nella sezione moderna (senza il greco, sostituito dal tedesco) lo svolse a Napoli. Si presume la “maturità” intorno al 1927-28. Probabilmente per continuare sulle orme del padre, si sa che s’iscrisse a Torino al primo anno della Facoltà d’Ingegneria, ma fuggì l’anno dopo per tornarsene a Napoli, dove nel 1929 s’iscrisse alla facoltà di Lettere e Filosofia. Si laurea il 1° settembre 1933, discutendo la tesi col palermitano Adolfo Omodeo (1889-1946), sui misteri eleusini (I gephyrismi eleusini), riti religiosi che si celebravano ogni anno nel santuario di Demetra. Nel 1933 presta regolare servizio militare come allievo ufficiale, a Gorizia. Certamente sarà casuale ma la Regione è la stessa di Trieste – la Venezia Giulia – cui de Martino è legato dai Macchioro.
C’è molta indeterminatezza quando si parla del suo fisico, del suo koerper delle sue patologie fisiche e psichiche, se mai vi furono. Certamente il suo pensiero fu gigantesco, il suo lavoro frenetico, i suoi scritti e i suoi appunti sterminati, ma non altrettanto si può dire del suo corpo che non era quello di un culturista, nè di un atleta. Il suo modo di sviscerare le cose, però, andava oltre l’acribia degli storici, forse era ossessivo. Si può anche pensare che de Martino, fosse un tipo “passionale”, per come si faceva carico delle questioni vitali dell’essere, della sua storicità, cercando di provare come le radici dell’umana presenza, per un principio di salute mentale, fossero profondamente conficcate nelle ritualità tradizionali popolari, quelle che maggiormente lo appassionarono. Personalmente, ho sempre adorato la storia e gli storici di professione, pur ritenendoli curiosi personaggi. Ho perfino pensato per tutti gli anni da lui trascorsi al Liceo “Tasso” di Roma, che Luca Ernesto, l’ainée, il maggiore dei mie figli, scegliesse quel genere di studi, ma scelse la professione di Architetto pur essendo ferratissimo su ogni tipo di storiografia: uomini, luoghi, architetture, protostorie, mitologie, dinastie, storie antiche, medioevali, contemporanee. È piacevolissimo ascoltarlo, quando gli va. Le sue narrazioni sono meglio di quelli di molti professionisti. A me pare proprio un destino ma – come psichiatra – per parlare con gli storici di professione è sempre stata molto dura. Fortunatamente non sempre è così, ora specialmente. Capita spesso di assistere alle frequenti performance – quando non si leggano i suoi libri – del brillante medievista torinese Alessandro Barbero, di grandissima chiarezza, precisione, affabilità e simpatia che non guasta mai. Sovente – solo se richiamato – egli si affaccia gradevolmente anche in rete. Dicevo della mia ammirazione per gli storici. Sono stato legato da profonda amicizia al monfalconese Alceo Riosa (1939-2011) e nel 1983 mi feci invitare alla cattedra di Storia contemporanea della "Statale" di Milano, da lui diretta, per partecipare al convegno “Biografia e Storiografia”. Presentai un saggio, nel tentativo di storicizzare i marginali dei manicomi. Lui, conoscendomi, soprattutto le mie intenzioni e i miei sforzi, che incoraggiava, fu molto gentile ma gli altri storici non si scaldarono, anzi restarono freddini [13].
2 – La ” presenza malata”.
E veniamo alla seconda parte, quella più propriamente psicopatologica. Il 1961 fu per Clara Gallini (1931-2017), come poi ebbe anche a confermarmi di persona, l’anno cruciale, in cui incontrò direttamente i problemi della psicopatologia. Prese contezza «dei nostri moderni dolori» – come scrive elegantemente nella Prefazione a La terra del rimorso [14] – attraverso la lettura di due «scritture disturbanti e affascinanti assieme, per la loro capacità di gettare in faccia al lettore l'impellenza del disagio e del potere sui corpi». Si trattava de La terra del rimorso (1961) di Ernesto de Martino, e Folie et déraison. Histoire de la folie à l'âge classique (1961) di Michel Foucault (1926-1984). Il suo primo saggio importante, la sua tesi di dottorato, scritta in Svezia quando il filosofo francese ebbe un incarico ufficiale, essendo direttore della “Maison de France” [15]. Opera ponderosa, quella del puatevino, per un totale di 509 pagine illuminanti, anche se “l’età classica” foucoldiana dev’essere intesa un po’ a suo modo, ma funzionale comunque all’edificazione di luoghi strategici e isolati dove raggruppare e obliare (alla meno peggio) il residuale imbarazzante della società perbenista che teme la pazzia. Un’età classica perenne dunque, quanto la “falsa coscienza”. Da rimarcare – di particolare significato per quanto riguarda il disturbo mentale – i due testi riportati in appendice «La follia, l'assenza di opera» e «Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco» [16]. Non è casuale che anche qui, in un “sistema di pensiero” già di per sé rivoluzionario, si affacci un ambiguo, sdrucciolevole, giudizio negativo sulla follia, da espungere senza neppure ascoltarla, per un verso. E questa terribile immedesimazione in una fragilissima corporeità di carta, facilmente incendiabile dal fuoco dello spirito assillato, malato, ardente, per l’altro verso.
Era proprio questa manque d’histoire de la folie che inquietava gli antropologi più importanti di quell’epoca, mentre per me che ho lavorato nei manicomi della stessa epoca – almeno fino a quando li abbiamo aboliti e svuotati – non è mai stato così. C’era la sofferenza della follia, c’era il corpo afflitto dalla follia, c’era la mente malata, la persona, la sua storia, quella della sua vita. C’era tutto un mondo, mai finito, nè concluso, per quanto fosse legittimo parlare di “apocalisse”, attendersi il disvelamento escatologico, pensare la fine dell’uomo, del mondo. Nondimeno, oltre ogni millenarismo profetico, c’è – dimenticato, abbandonato – un mondo storico reale, che sopravvive, negli archivi degli ex-manicomi. Quelli che aderiscono ai vari progetti “Carte da legare”. Il più recente dei quali, fra i tentativi di storicizzazione della follia, è il libro di Gilberto Di Petta e Francesco Bollorino, La doppia morte di Gerolamo Rizzo [17].
Quello che mi ha sempre lasciato insoddisfatto è stato il “rischio”, sia come termine che come categoria metafisica dell’essere. Non la “crisi”, che per un medico, è pane quotidiano. Il “rischio” rientra tra gli eventi che possono succedere, ma anche tra le scelte. Un conto è subire una polmonite interstiziale da Covid-19, altro è andare a Montecarlo, puntare dritto al fastoso complesso neobarocco “second empire” dell’architetto Charles Garnier. Entrare nei saloni dorati della roulette, giocarsi tutto sul 22 rosso [18], quando la pallina si ferma sul 17 nero [19], e uscire immediatamente dal Casinò completamente “rovinato”. La psichiatria clinica ha poco a che vedere con la stocastica. Molto di più, invece, lo ha – per la salute – una corretta programmazione sanitaria a lungo termine, di cui la prevenzione sia il fulcro del tridente cura, e riabilitazione per tutti! Come lo fu nella Legge 833 [20] così vilipesa in questi ultimi 42 anni di calvario e passione.
Clara Gallini, aveva molti dubbi. Turbata dal fatto che bisognasse essere tanto categorici nel rifiutare i pazienti psichiatrici, guardava con sempre maggior curiosità nel campo dei medici alienisti che se ne prendevano cura e li studiavano. Non era profondamente convinta che della follia, se ne potesse venire a capo indagandone le radici più antiche, tradizionali e salvifiche del magismo e dello sciamanesimo, anziché quelle della psichiatria, come fatto da Foucault. Scrive infatti: «… timidamente ne parlai con de Martino. Il quale tagliò corto con un'asserzione che mai dimenticherò: “della follia non si può fare storia”. Certo, follia per lui è questo: crollo di ogni processo di soggettivazione, caduta dalla “storia” – in quanto comunitario orizzonte di senso – nella non-storia – in quanto perdita di tale orizzonte» [21]. Questa categorica asserzione di Ernesto de Martino mi ha sempre stupito fin da quando la lessi la prima volta. Posso anche pensare che non ne fosse intimamente convinto, ma c’era chi l’aveva preceduto ed era molto autorevole. Intanto Benedetto Croce (1866-1952), per esempio. Si può ipotizzare che, essendo certa (assoluta, fedele?) la reciproca stima, vicendevolmente si tollerassero anche. Il maestro pescasserolese sulla magia, l’allievo napoletano sulla follia. Almeno per un certo tempo. Per Croce era del tutto evidente che la follia non contasse nulla. Anzi, si diceva stupito che si potesse pensare di scrivere la storia di ciò che non è, e non può essere, come per la psicosi, la patologia della psiche, la malattia mentale. Entrambi erano sicuri di ciò che teorizzavano, pensavano e scrivevano essi stessi. Ma erano anche documentatissimi e aggiornati con una bibliografia mondiale sterminata. In particolare de Martino, che gli autori che lo interessavano se li andava a cercare e li leggeva in originale. Da qui l’inizio della “Psichiatria Culturale” italiana, come lui battezzò l’etnopsichiatria, di cui diremo avanti. Da parte di Croce si può dire che si verificò un’avvisaglia di perplessità, nei riguardi del discepolo, peraltro sensibilissimo ai giudizi del maestro, quando gli recensì Il mondo magico: «… noterò un unico punto nel quale dissento da lui […] quello in cui si afferma che le categorie speculative che ora reggono l’interpretazione storica sono correlative all’età della “mente tutta spiegata” […] o della “civiltà occidentale”, ma non si applicano alle età primitive; venendosi così a negare implicitamente la perpetuità delle categorie con lo storicizzarle…» [22]. Se così si può dire, la “scomunica” giunse a un dipresso, breve, saettante: «… la logica filosofica deve, anche in questa parte dei concetti e giudizi del de Martino, muovere la sua obiezione […] Né le categorie della coscienza, il linguaggio, l'arte, il pensiero, la vita pratica, la vita morale, né l'unità sintetica, che tutte le comprende, sono formazioni storiche, prodotte di epoche dello spirito, ma tutte sono lo spirito stesso che crea la storia» [23]. Forse Adolfo Omodeo, che all’occorrenza non gli risparmiava critiche, fu più netto e deciso fin dall’inizio, nel rifiutare irrazionalismi [24].
Si sa che Croce non amava la psicologia, la sociologia, la psicoanalisi e le “scienze umane” in generale, ma rifiutava nettamente il magismo, i fenomeni paranormali, lo sciamanesimo, la telepatia e tutto quanto fosse irrazionale, ovverosia fuori dalla logica, dalla ragionevolezza. Caratteristiche umane di forgiatura non attribuibili allo “spirito”. Operazioni che oggi, talora e in talune circostanze, si preferisce giustificare riassumendole nel termine resilienza. Crocianamente, il rifiuto era motivato dal fatto che ci si addentrava in un campo dove il positivismo e lo scientismo non accettavano alcunché che non potesse essere dimostrato “scientificamente”, nè “logicamente” nel “reale”. Anzi, risultava deleterio e negativo allo spirito umano, dunque impediva agli esseri umani afflitti da tali “credenze da primitivi” di “fare storia”. La pazzia era la prima delle negatività umane, il più micidiale dei rischi. Impediva cioè, all’uomo, di essere positivo, perchè di reale c’è soltanto quell’attività con cui essi possono correggere l’errore, affrontare le privazioni, compensare le mancanze, risorgere dalle sconfitte. Più o meno questo era il pensiero del dominus incontrastato del suo tempo a riguardo dello storicismo una faccenda molto complicata di cui non ho competenza. Sintetizzando all’osso, lo storicismo “assoluto” di Croce che si richiamava al Vico, andava distinto dallo storicismo tedesco che si può far risalire a Leibniz e a Herder. [25]. È ovvio che Croce, dal suo punto di vista, tendesse a chiarire puntigliosamente e dettagliatamente, la sua distinzione fra metodo naturalistico e metodo storicistico. Premessa per lui, assolutamente basilare e indispensabile. Da queste tesi si evince chiaramente che per l’infermità mentale non vi può essere nè storia, nè prospettiva storica. Benedetto Croce accettava l’assunto hegeliano che «la storia sia storia di libertà» [26], ma nella sua dialettica analizzava tale condizione di libertà dal suo svilupparsi iniziale fino al suo compimento definitivo e maturo. Tuttavia nel prosieguo dell’argomentare ne rimarcava la differenza precisando bene che non intendeva «assegnare alla storia il tema del formarsi di una libertà che prima non era e che un giorno sarà, ma per affermare la libertà come l'eterna formatrice della storia, soggetto stesso di ogni storia. Come tale essa è per un verso, il principio esplicativo del corso storico e, per l'altro, l'ideale morale dell'umanità» [27].
C’era già chi nel 1929, in Francia, la pensava diversamente e provvedeva a fondare la “Nouvelle Histoire” raggruppandosi intorno alla rivista l’École des Annales. Lucien Febvre (1878-1956) e Marc Bloch (1886-1944) furono i caposcuola, cui si aggiunsero Georges Duby (1919-1996), Fernand Braudel (1902-1985) e molti altri. Un gruppo di storici, probabilmente, il più importante del XX secolo, celebrato per aver introdotto radicali innovazioni metodologiche nello studio della storiografia. Non tanto l’epos della imprese eroiche, ma l’umile vita di un mugnaio medievale divenne degna di studio e fu un cambiamento totale. Jacques Le Goff, per esempio, ci descrive in modo che par quasi vederlo un dittico dove nella prima tavoletta osservi funzioni, mestieri, alimentazione, costumi di individui già in evoluzione nell’Alto Medioevo europeo cristiano – ossia tra l’anno Mille e il Dugento – mentre nell’altra assisti allo sconvolgimento critico del Basso Medioevo che si appresta a Rinascimento [28]. È chiaro che i matti latitano dai documenti storici ufficiali, dalle “opere”, nondimeno già sappiamo che a un dipresso sorgeranno iniziative assistenziali per i marginali. A Piazza Colonna, a Roma, tanto per dire, tra il 1569 e il 1573, su iniziativa di Ferrante Ruiz un cappellano spagnolo, proprio dentro una cappella dell’Arciconfraternita dei Santi Bartolomeo e Alessandro, sorgerà l’Ospedale dei Pazzarelli, primo manicomio di Roma dedicato a Santa Maria della Pietà. D’accordo, non sarà storia questa raccontata cosi, non lo storicismo classico propostoci dalla bibliografia europea del tempo, ma io ho sempre avuto un cruccio. Il matto e la storia. Il mio grande rovello è stato quello di tentare di raccontare la follia con precisione storica, passione letteraria e competenza psicopatologica. Non si è mai sopito. Tuttora permane e intendo riproporlo affinché qualche giovane Collega voglia raccoglierlo.
Insomma, a vero dire, prima della “180”, un po’ tutti pensavano all’insignificanza storica della pazzia. Quando se ne scriveva era solo per dire Ah, però!, solo per raccontare l’eccezione, la bizzarria del caso. Tipo Emily Dickinson Alda Merini, Antonio Ligabue, Antonin Artaud, Gerard de Nerval, Franz Kafka, Friedrich Wilhelm Nietzsche, Vincent Van Gogh. Si potrebbe allungare la fila a ritroso fino a Diogene di Sinope, il Cinico, detto anche il “Socrate pazzo”, quello che rispose ad Alessandro Magno di togliersi di fronte, ché gli oscurava il sole. Ma forse ne verrebbe fuori una storia bislacca, una galleria … di matti, appunto, forse anche molto intelligenti, ma “negativi”, “rischiosi”, meglio non averci a che fare, scansarli, rinchiuderli. Quasi tutti lo pensavano, prima! Modestamente, la nostra rivoluzione antimanicomiale del 1978 – tra l’altro anche l’anno del delitti Moro, dei tre Papi, di Peppino Impastato assassinato da Tano Badalamenti, Argentina Campione del mondo di calcio – fu storica ed epocale. Prova ne sia che i “folli”, li tenevano chiusi in manicomio, “internati” come si diceva, e la “dimissione” poteva avvenire solo “in prova” con “affidamento” al parente stretto o al tutore, che ne avesse fatto richiesta scritta al Direttore del Manicomio, assumendosene tutte le responsabilità di fronte alla legge. Evadere era proprio una faccenda seria. Quand’ero a Cagliari, gl’infermieri dicevano ch’era più facile scappare da “Buoncammino” (il carcere), che da “Villa Clara” (il manicomio). Non a caso si parlava di “morte civile” e non tanto – e non solo – per la perdita del diritto al voto, la capacità di stare in giudizio, ecc. Persone senza diritti, vuoti a perdere, umanità gettata in un dumping ground [29] quelli del manicomio. Gente invisibile, niente, nessuno, nulla con cui poter fare storia, eh? Piano, su questo torneremo. Per ora ricordiamoci di usare almeno l’ascolto gentile, come dice Eugenio Borgna, verso la pazzia, perchè fin dai tempi remoti per i pazzi è stato un calvario.
3 – Cosa ha cercato, febbrilmente, per tutta la vita, Ernesto de Martino?
La nostra in genere ci è ignota, perchè non la vediamo, ma la pazzia fissata negli occhi altrui, mette veramente paura. Ti sembra di precipitare nell’abisso, non la reggi perchè si tratta dello stesso vuoto. Per questo l’umanità intera si è sempre accanita contro di loro, i matti. Il trapanese Vito Maria Buscaino (1887-1978), famoso cattedratico neuropsichiatra alla Facoltà di Napoli negli anni cinquanta del secolo scorso, sosteneva causticamente che per i matti erano sempre state “legnate”! Pur essendo il portabandiera degli organicisti del suo tempo, sbeffeggiava “l’elettroshock” inventato da Cerletti e Bini ed era ferocemente contrario alle cosiddette “terapie biologiche”. “Per i pazienti psichiatrici, fin dall’antichità era stata durissima, per le paure e gli spaventi con cui venivano minacciati e seviziati. Dalle precipitazioni dallo scoglio di Leucade attaccati a grossi volatili, alle torture, alle tetre prigioni in catene, e infine agli shock di ogni genere, anche chimici, come gli ultimi dei nostri giorni”. Cito a memoria Vito Maria Buscaino, da una sua conferenza degli anni Cinquanta del Novecento, quando si aspettava di essere chiamato alla Cattedra di Roma della Clinica delle Malattie nervose e mentali per succedere a Cerletti, ma alla fine prevalse Gozzano.
Tornando a de Martino e alle sue ardite argomentazioni psicopatologiche citiamo un passo significativo del suo pensiero. «La schizofrenia è la più filosofica delle malattie psichiche non già, ovviamente, nel senso che lo schizofrenico sia un filosofo (egli è la negazione del sapere e dell’amore, le due grandi forze che fanno l’uomo), ma nel senso che l’uomo sano, cioè capace di risanare sempre di nuovo in sé e negli altri la ferita esistenziale, può attraverso l’analisi dei vissuti schizofrenici prender coscienza di quel rischio estremo cui è esposta l’esistenza umana, la caduta dell’ethos del trascendimento. La lotta contro questo rischio individua l’uomo in quanto fondatore di vita culturale, in quanto eroe dell’opera intersoggettiva “razionale”, comunicabile di fronte alle tentazioni della disgregazione e del caos: è la lotta contro questo rischio che individua l’umano in quanto movimento dal privato al pubblico, ed auscultazione interiore delle pubbliche voci che risuonano nel mondo, in una data epoca storica e nel quadro di una particolare cultura: ma appunto per questo la schizofrenia, che è il mutamento di segno di tutto questo, ha un grande potere pedagogico per ogni uomo che, avendo optato per la ragione combattente, intende misurare in tutta la sua ampiezza e profondità il fronte del nemico». [30]
Una questione, però, quella della patologia mentale, dell’infermità psichica, della ”psicosi endogena”, della “demenza precoce”, della “schizofrenia”, o in qualsiasi altro modo si voglia chiamare la pazzia, mi era rimasta incomprensibile, come la intendesse Ernesto de Martino. E oggi, man mano che il tempo passa, si acuisce vieppiù l’impossibilità di chiarirla. Non è che, se il tempo fosse stato più largo, avrei avuto ben chiaro il numero e l’ordine delle mie perplessità. Neppure la priorità e il linguaggio usato nella formulazione delle domande, rispetto al suo pensiero così storicista, così lucido, così determinato, così affilato dai differenti discepolati con i rispettivi maestri o mistagoghi. Tutto era cominciato dal suocero problematico Macchioro, ma la dialettica vivace era proseguita man mano con Omodeo, Croce, Pettazzoni, per approdare infine ai lidi milanesi, Remo Cantoni (1914-1978), Antonio Banfi (1886-1957), tanto per citare qualcuno dei protagonisti del suo tempo tra storici, filosofi, antropologi, critici letterari. Le colpe, i cinismi, le ripicche e i tradimenti, di cui venne accusato, sono sempre state ingiuste e calcolate. Intanto dovette giustificare il suo fascismo che in fondo era una bislacca, enfatica e ingenua teoria di “religione civile”. Durante il difficile pontificato Pacelli (1939-1958) essere iscritti al PCI e per di più militanti, garantiva la scomunica. Prima del divorzio (1970) in Italia il concubinato era reato penale punito dall'art. 560 c.p. La sua illeggittimità fu sancita dalla Corte costituzionale il 4 dicembre 1969. Ernesto de Martino era cessato il 9 maggio 1965 e la curiosità maggiore in un certo mondo culturale italiano fu, per lungo tempo, sapere se si fosse convertito in punto di morte. I suoi improvvisi revirement giovanili furono più che altro dovuti a impazienze. Si eclissava se la situazione non gli garbava. Poi magari tornava. Non ha mai coltivato rancori, ha sempre cercato mediazioni.
Una cosa era certa: le mie frequentazioni – non le curiosità – e le sue, erano state radicalmente differenti. Escludendo il teatro, la mia prima palestra era stata “la Neuro” di Gozzano, Vizioli e Callieri, inizialmente. Poi il manicomio, avanti di giungere alla psichiatria di territorio a “Torre Spaccata”. Quelle del maestro de Martino erano state infinite, disomogenee, difformi, molteplici. Difficile seguirlo tra le sue ricerche sui “popoli primitivi”, quando approda alla corte del potente Raffaele Pettazzoni (1883-1959), un bolognese di San Giovanni in Persiceto, di cui s’è detto sopra. Non esita a leggere gli scritti dell’antropologo russo Sergej Michajlovič Sirokogorov (1887-1939) che, trapiantatosi in Cina, aveva studiato lo sciamanesimo dei Tungusi. Assorbe il concetto di olonismo come forma morbosa caratteristica di determinate popolazioni o “civiltà primitive”. Essa dipenderebbe sostanzialmente da un pregiudizio dogmatico, implicito in un’etnologia naturalistica, che induce ad applicare moderni paradigmi scientisti a civiltà idealmente lontane dalla nostra. Primo fra tutti, il paradigma dell’autonomia del soggetto e di un oggetto a esso contrapposto.
Intanto sfatiamo il pregiudizio che dalla pazzia non si guarisca mai. Che la schizofrenia sia incurabile. Esistono forme psicotiche diverse. Conosco psicosi brevi, follie passeggere. Nel corpo umano c’è una infinità di follie passeggere, come molte aritmie. Ci sono più cose tra cielo e terra, Orazio … Ci sono psicosi che fanno storia e psicosi che non la fanno perchè guariscono stabilmente. Queste ultime non incidono nella prosecuzione della storia psicopatologica individuale, al contrario delle prime che inaugurano una storia schizofrenica o un disturbo bipolare, per esempio. Quelle che scompaiono senza lasciare seguito, sono chiamate bouffée délirante aigue dagli autori francesi, mentre noi lo chiamiamo disturbo psicotico breve, psicosi acute transitorie, ecc. Nessun clinico si sognerebbe di annotare come rilevanti nel diario clinico di un paziente giunto alla sua osservazione non lucidissimo dopo una sbornia prolungata, che ti mostra, preoccupato, delle punte sporadiche in un tracciato EEG, perchè un amico gli ha detto di farlo, oppure un blocco di branca destro emerso da un controllo ECG randomizzato in azienda. Non si tratta di “malattie” nel senso proprio del termine medico.
Ma cos’è poi la psicosi, cos’ha a che vedere con la cultura, le tradizioni culturali, i popoli primitivi? Quanto protegge dalla pazzia tutto questo apparato culturale, quello mitologico, le credenze ancestrali? Hanno consentito in passato – quando non erano stati inventati quarantene e vaccini – prevenzione di malattie i riti apotropaici, le credenze nel potere sciamanico nel genius loci, risolto psicosomaticità? Perchè funzionavano meno bene quando eri lontano dalla tua terra, per sopravvivere, per lavorare, strappato dalla fame, scacciato dalla cattiva politica? Perchè l’acuto osservatore etnologico napoletano era andato a frugare tra gli "Aranda" la più grande tribù primitiva dell'Australia centrale cacciatori e raccoglitori nomadi che praticano totemismo e magia. Perchè ci racconta del campanile di Marcellinara che illumina il volto spaesato del contadino calabrese caricato in macchina dai ricercatori demartiniani che a loro volta s’erano smarriti sul terreno della loro ricerca? Nella mia lunga vita professionale ho scoperto che era indispensabile ascoltare la follia. Moltissime erano però le volte in cui essa, la pazzia, rinunciava alla parola, pensando di non essere compresa. Giusto come capita ai migranti in terra straniera circondati da linguaggi che non comprendono, o ai sordi che strutturano deliroidi perchè vedono muoversi labbra che non odono e pensano ostili. Mi sono anche accorto che bastava una piccola parola familiare, conosciuta, gentile, per iniziare un discorso, mostrare almeno la tua disponibilità ad ascoltare. Dire per esempio Ita di nanta? (come ti chiami) a un Sardo. Keifa halukà – Kei fal hal? (come stai) Hunayn – Hal Hanin (nostalgia) a un Arabo. Muito obrigado (grazie mille) Saudade (malinconia) a un soggetto di lingua portoghese, poteva essere strategico per sbloccare una situazione di empasse. La lingua, il gesto possono aprire un dialogo laddove non è mai iniziato. Ricordo Tullio Seppilli (1928-2017) un altro grande etnoantropologo della medicina che mi ha onorato della sua amicizia. «La biomedicina ha vinto – soleva dirmi – ma ha perso l’uomo». Dunque, al postutto, forse la follia, non è mai stata solo una questioni di storici.
Ecco, fermiamoci qua per un momento, per citare Luigi Flavio Frighi (1922-2005), un grande competente di psichiatria, psicopatologia, psicologia, psicoanalisi e molti altri argomenti di scienze umane, culturali soprattutto. Un grande maestro un amico indimenticabile. Cos’è l’ombrello semantico di Frighi? Proviamo a riassumerne gli essenziali col passo di un nostro saggio già apparso da Bollorino su Pol.It. «Noi possediamo quello strumento convenzionale dei significati di malattia che Luigi Frighi chiama “ombrello semantico”. Il disturbo dell’alterità culturale ne possiede un altro, molti altri, omogenei ai processi culturali nei quali si è allevati. D’altro canto, tali “ombrelli semantici” non sono per niente intercambiabili, tra immigrati che provengono da ogni parte del pianeta. Il lavoro transculturale ce ne ha resi edotti. Il caso della “depressione”, che si pensava fosse assente nelle popolazioni Africane, resta un esempio dei più classici, fra quelli studiati. Il Padesimiento dei Latino-americani, molto vicino alla nostra reazione neurastenica o nevrosi d’ansia, potrebbe aggiungersi al precedente» [31]. Le tesi di Frighi e di de Martino non mi tornavano nella clinica, nella teoria, nella narrazione, nella storicità, ma non erano in contrasto, assurde l’una rispetto all’altra. Occorreva trovare il punto di mediazione. Avevo lungamente studiato, ascoltato, guardato il materiale, di Ernesto de Martino. Soprattutto compulsato attentamente i libri delle sue spedizioni in Lucania e in Salento, per quel progetto (enorme) di osservare, documentare e storicizzare i disturbi tradizionali, il tarantismo, il magismo, le pratiche dei guaritori popolari. Mi parve di cogliere un sentore comune e al contempo una distanza siderale. Asciugando molto il concetto, non capivo e ancor oggi non mi è chiaro, perchè per lui la psicosi non facesse assolutamente “storia”, al contrario del magismo che, opportunamente riletto, consentiva di rientrare in gioco alla presenza che si destorificava per non soccombere. Si chiamava cioè fuori dal mondo, dalla “storia”, in quella sorta di epoché del rito, per rientrarvi – “salvato” – per il tramite del cerimoniale della cultura tradizionale. Torneremo in chiusura su questo tema cruciale.
Cosa cercava propriamente Ernesto de Martino? Perchè s’era sempre tanto interessato alla psicopatologia, alla metapsichica, al magismo? Il suo progetto era questo «Mi interesso molto di psicopatologia e di metapsichica. Sono entrato nella convinzione che alcuni fenomeni psicopatici e tutti i fenomeni metapsichici possano essere considerati come relitto, per entro la civiltà occidentale, della civiltà magica. Il mio lavoro sul magismo si ispira fra l’altro a quest’idea, che credo particolarmente feconda» [32] Perchè aveva cercato di costruirsi intorno un reticolo di relazioni mediatorie alternative a quelle storicistiche accademiche a partire dalla storia delle religioni, cercandone in particolare le tracce nelle popolazioni comparse per prime sulla terra? Perchè aveva inventato e si era costruito una equipe su misura per la ricerca sul terreno, di cui facessero parte una serie di esperti di ogni prodotto culturale dell’uomo di specialisti di tutte le cose umane? Perchè Ernesto de Martino era così eracliteo, il suo pensiero tanto oscuro a Croce e Omodeo? Un frammento dell’efesino ci tramanda «Per Eraclito le cose non hanno realtà se non appunto nel perenne divenire. È questo senza dubbio l'aspetto della dottrina di Eraclito divenuto più celebre, tosto fissato nella formula "tutto scorre" (pànta rhèi)» [33].
Ci sono molte cose che avrei voluto chiarire su Ernesto de Martino, ma quando sono riuscito a raccogliere in un “faldone dedicato”, un lungo e disordinato elenco di carte, dichiarazioni, palinodie, lettere, saggi più o meno incompiuti, libri, foto registrazioni audiovisive, musiche, il tutto per formulare almeno un questionario di domande sensate. Ecco, quando dopo il semestre di quarantena mi ero schiarite alcune idee, molte della persone che avrebbero potuto aiutarmi non c’erano più. Bruno Callieri (1923-2012), Clara Gallini (1931-2017), Giovanni Jervis (1933-2009), Michele Risso (1927-1981), Emilio Servadio (1904-1995), Vittorio Lanternari (1918-2010), Tullio Seppilli (1928-2017), Gilberto Mazzoleni (1936-2013), Alberto Giordano che fu primario anziano di me e Antonino Lo Cascio al SPDC San Giovanni. Personaggi coi quali ero stato in buona amicizia e che lo avevano frequentato, Ernesto de Martino. M’ero anche trovato col telefono in mano per sentire Tullio, Tullio Seppilli, ma l’ho posato. Purtroppo s’erano già incamminati – shakespearianamente parlando – verso «il paese inesplorato dalla cui frontiera / nessun viaggiatore fa ritorno, sconcerta la volontà / e ci fa sopportare i mali che abbiamo / piuttosto che accorrere verso altri che ci sono ignoti?
The undiscovered country from whose bourn
No traveller returns, puzzles the will,
And makes us rather bear those ills we have
Than fly to others that we know not of?
(Amleto, atto terzo, scena prima)
Per fortuna ho potuto leggere uno studio prezioso e di grande impegno della dottoressa Emilia Andri che illustra proprio gli anni di cruciale formazione da 21 anni a 36 di de Martino. Devo dire che è il più completo, accurato e documentato studio del giovane Ernesto de Martino, addirittura della sua adolescenza, mi sia mai stato dato di leggere. Si tratta di una tesi di Dottorato della Scuola di in Antropologia ed Epistemologia della Complessità dell’Università di Bergamo presentata da il relatore era Giuseppe Fornari titolo Il giovane De Martino e le origini de Il mondo magico (1929-1944). Per parte mia oltre che ringraziare e rendere merito pubblicamente all’artefice e alla guida dell’estensore dell’opera, poiché è facilmente reperibile tanto in libreria quanto in rete, raccomando vivamente di leggerlo. Costituirà una gradevole sorpresa per tutti i lettori, siano essi estimatori e appassionati del polimorfo e vulcanico studioso napoletano o semplici curiosi di scienze umane.
La grande psicopatologia, quella clinica in particolare, da Minkowski, Binswanger, Callieri, non ha fatto altro che mettere in luce (inconsapevolmente) la preziosa intuizione demartiniana sulla “mediazione”. Lo studio, dell’etnologo napoletano, anche in virtù di quella che è stata la propria esperienza personale di sofferenza psichica, è giunto a cogliere le dinamiche relazionali di mediazione “curativa” degli sciamani. Diffidava degli psichiatri, forse non senza ragione, ma il paradosso consisteva nel fatto che la fiammella “positiva” nella follia gli fosse balenata dal magismo e dallo sciamanesimo. Dunque se il “negativo” dello psicotico, malato di mente, solo, isolato, incapace di mediare con chicchessia, può essere aiutato da uno sciamano – riconosciuto pubblicamente nella realtà della tradizione rituale – a rientrare nella storia del mondo degli umani, se questo giro lungo, affannoso, contorto era il pensiero di Ernesto de Martino, pensiero che non ha potuto esplicitare, nè scrivere nell’ultimo atto apocalittico della fine del suo mondo, bene, complimenti professore! Potrebbe essere la prossima apertura psicopatologica verso un futuro di mediazioni intorno alle scienze umane per comprendere la follia. Un grosso lascito.
Grazie, riposa in pace, inquieto e irriverente ricercatore, maestro Ernesto de Martino.
Note
01. Per una revue internazionale recente si veda il saggio di Giovanni Pizza. Ernesto de Martino fuori di sé. Dal Nordamerica alla Francia. Nostos n° 2, dicembre 2017: 193-236.
02. Cfr. Sergio Mellina. La nostalgia nella valigia. emigrazione di lavoro e disagio mentale. Marsilio Editori, Venezia 1987.
03. Bruno Callieri e Antonio Semerari. Alcuni aspetti metodologici e critici dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. Rassegna di Studi Psichiatrici, 1954, XLIII, fasc. 1. L’anno successivo torna da solo sul tema: Callieri B. Contributo allo studio psicopatologico dell’esperienza schizofrenica di fine del mondo. Archivio di Psicologia, Neurologia e Psichiatria, Anno XVI, 4-5, luglio-ottobre 1955.
04. Lorenzo Calvi. Callieri e l’esperienza di fine del mondo. Comprendre 23, 2013-I (pp. 61-66).
05. Emilia Andri. Il giovane De Martino e le origini de Il mondo magico (1929-1944). Tesi di Dottorato in Antropologia ed Epistemologia della Complessità. Università degli Studi di Bergamo. a.a. 2009-2010 – XXV Ciclo. Pubblicata 20-mag-2013 – Documento on line. Si raccomanda la lettura del CAPITOLO PRIMO (Ernesto de Martino e Vittorio Macchioro una mediazione misconosciuta) pp. 29-122 -1. Il carteggio de Martino-Macchioro. 1930-1934: la nascita del discepolato – 2. Il soggiorno indiano: distanza spaziale e vicinanza affettiva – 3. 1935: Macchioro maestro, padre e mistagogo – 4. 1936: Ernesto fra Macchioro e il circolo liberale barese – 5. 1937: il diavolo crociano – 6. 1939. L’ultima lettera di De Martino: Macchioro “nume tutelare” – 7. Vittorio, lo sciamano impotente.
06. Più che un incidente politico-giornalistico-diplomatico, scoppiò un putiferio, a seguito di alcuni giudizi confidenziali sugli inglesi e sulle Guerre Boere, nonché su Francia, Russia e Giappone, rilasciati dall'imperatore di Germania, il Kaiser Guglielmo II (nipote, tra l’altro, della mitica Regina Vittoria d’Inghilterra) al colonnello britannico Stewart Wortley (corrispondente del giornale), comparsi sul quotidiano inglese il 28 ottobre 1908. Il Cancelliere Bernhard von Bülow fu accusato di omessa vigilanza sugli atti del sovrano.
07. Alle ore 5,21 del 27 dicembre del 1908, un sisma dell’11°-12° grado Mercalli, accompagnato da un maremoto sconvolse Messina e Reggio Calabria con altissimo numero di vittime: da 80 a 120 mila. La catastrofe, per lo sciame sismico successivo, durò fino alla fine del mese di marzo del 1909. Fu uno dei due eventi sismici più catastrofici della storia italiana. L’altro fu l’Apocalisse di Avezzano, 11° grado Mercalli che vide coinvolto Benedetto Croce all’età di 15 anni.
08. Riccardo Di Donato. I Greci selvaggi, Antropologia storica di Ernesto de Martino, Roma, Manifestolibri, 1999, p. 163. Appunto autobiografico di De Martino del 1950.
09. Giordana Charuty. Ernesto de Martino. Le precedenti vite di un antropologo, Milano, Franco Angeli, 2010, p. 58.
10. Ibid.
11. Paolo Castrogiovanni, Arianna Goracci, Lucio Guidelli, Simone Rossi, Angela Di Muro, Paolo Bisconti. Dipartimento di Neuroscienze, Sezione di Psichiatria, Università di Siena. Il problema della astenia nel disturbo ossessivo-compulsivo – Journal of Psychopathology | Official Journal of the Italian Society of Psychopathology – Vol. 8, December 2002, Issue 412.
12. Giordana Charuty, Ernesto de Martino. Le precedenti vite di un antropologo, cit., p. 58.
13. Cfr. Sergio Mellina. Biografie dei marginali. In: Riosa Alceo (curatore) “Biografia e Storiografia. De Felice / De Rosa / Diaz / Lo Cascio / Levillain / Mellina / Nello / Riosa / Romano / Romeo / Vigezzi” Fondazione G. Brodolini. Franco Angeli, Storia, Milano, 1983
14. Ernesto de Martino. La terra del rimorso. Presentazione di Clara Gallini, il Saggiatore Tascabili, Milano, 2013 pp. 16-17.
15. In Italia il libro di Michel Foucault, usci da Rizzoli nel 1963 (collana BUR) col titolo Storia della follia nell'età classica. Vi erano acclusi, in appendice, due saggi: La follia, l'assenza di opera e Il mio corpo, questo foglio, questo fuoco. Trad. Franco Ferrucci. Prefato e curato da Emilio Renzi e Vittore Vezzoli.
16. Ibid.
17. Gilberto Di Petta, Francesco Bollorino La doppia morte di Gerolamo Rizzo. Diario «clinico» di una follia vissuta. Alpes Italia, Roma, 2020, 124 pp.
18. La Smorfia napoletana associa al numero 22 la figura d’ ‘o pazzo! (Il folle)
19. Il numero 17 nella Smorfia napoletana indica ‘a Disgrazzia ( La sfortuna).
20. La Legge 23 dicembre 1978, n. 833 promulgò la "Istituzione del servizio sanitario nazionale"
21. Ernesto de Martino. La terra del rimorso. Presentazione di Clara Gallini, cit., p. 17.
22. Benedetto Croce, Recensione a Il mondo magico. “Quaderni della “Critica””, 1948, n. 10, pp. 79-80 e infra, il corsivo è nostro.
23. Benedetto Croce, Intorno al magismo come età storica, in Filosofia e storiografia, Laterza, Bari, 1949, pp. 193-208 il corsivo è nostro.
24. «… a rigore di logica la storia del magismo non esiste, perché la storia si può fare del positivo e non del negativo: il magismo è una potenza di cui ci si spoglia nel processo della ragione, appunto perché si rivela inadeguata, e non creativa». Lettera di Omodeo a De Martino del 24 febbraio 1941, in Ernesto De Martino, Dal laboratorio del mondo magico. Carteggi 1940-1943, a cura di Pietro Angelini, 2007, p. 85, il corsivo è nostro.
25. Benedetto Croce. Teoria e storia della storiografia. 2 voll. a cura di Edoardo Massimilla e Teodoro Tagliaferri, 2007, Editore: Bibliopolis, Napoli.
26. Georg Wilhelm Friedrich Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Bompiani, Milano 2006, p. 59.
27. Benedetto Croce, La storia come pensiero e come azione, Laterza, Bari 1943, pp. 35-37; 46-50
28. Jacques Le Goff. L' uomo medievale. Laterza, Roma Bari, 1993.
29. L’espressione, riferita al manicomio, è di Ronald Laing. Il celebre Autore de L’io diviso, ce la confidò una sera a Roma, molti anni fa, a me e a “Nino” Lo Cascio, dopo una sua conferenza. Era stato invitato in Italia dall’amico, allora presidente dell’AIPA.
30. Ernesto de Martino. La fine del mondo. Contributo alle analisi delle apocalissi culturali. (a cura di Clara Gallini, introduzione di Clara Gallini e Marcello Massenzio). Einaudi Torino 2002, p. 75 e infra, corsivo mio. La prima edizione comparsa da Einaudi, Torino, 1977 (non in mio possesso), è stata ingiustamente denigrata per il motivo che prolungandosi infruttuosamente le riunioni romane promosse dalla Gallini con Brelich, Jervis per la specialità neuropsichiatrica e altri rappresentanti della scuola etnologica e storico comparativa creata da Pettazzoni, decise di passare a vie di fatto, pubblicando l’opera al punto in cui era giunta sotto la sua direzione la raccolta e la suddivisione dei materiali. Praticamente «un cantiere nel quale il lettore veniva invitato a intrufolarsi e rovistare, prezioso archivio a cielo aperto del confronto corpo a corpo tra De Martino e il tema angoscioso su cui egli era giunto a concentrare le proprie ricerche […]del quale Clara Gallini, sua allieva a Cagliari, si sarebbe sobbarcata il compito decennale di selezionare e raccogliere le carte sparse, dando alla luce nel 1977 la prima edizione del volume (riproposta poi nel 2002 corredata da una nuova introduzione». Dalla presentazione di De Martino, E. La fine del mondo. Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, a cura di G. Charuty, D. Fabre e M. Massenzio, Einaudi, Torino, 2019.
31. Cfr. Pol. it psychiatry on line Italia. Sergio e Vittorio Mellina. Transculturazioni e salute mentale. Dai “nostri” emigrati a “quelli–degli–altri”. 19 novembre, 2018.
32. Cfr. Ernesto de Martino, Naturalismo e storicismo nell’etnologia. (1941), Edizione a cura di Stefano De Matteis Argo, Lecce, 1995, pp. 255-256. Inoltre: Carlo Ginzburg, Momigliano e de Martino, in “Rivista Storica Italiana”, 2, 1988, pp. 405-406.
33. Giovanni Reale. Il pensiero antico, Vita e Pensiero, Milano 2001, p. 23.
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