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CORPO CELESTE di Alice Rohrwacher

2 Ott 12

Di Rossella-Valdre

"….Tra tutte le regioni italiane, la Calabria è forse la più povera; povera di ogni cosa: anche, in fondo, di bellezze naturali. Per duemila anni è stata sottogovernata ancora peggio che la Sicilia o il Napoletano, o le Puglie che, in molti periodi storici sono state delle vere piccole nazioni, dei centri di civiltà, in cui i dominatori risiedavano, almeno, ed avevano rapporti diretti con la popolazione: gli Arabi in Sicilia, i Normanni in Puglia, ecc.. La Calabria è stata sempre periferica, e quindi, oltre che bestialmente sfruttata, anche abbandonata. Da questa storia millenaria non può che risultare una popolazione molto complessa, o per dir meglio, con linguaggio tecnico, 'complessata'. Un millenario complesso di inferiorità, una millenaria angoscia pesa nelle anime dei calabresi, ossessionate dalla necessità, dall'abbandono, dalla miseria. Nel popolo questi 'complessi' psicologici di carattere storico possono dare, nei casi estremi, i risultati più opposti: la più grande bontà – una bontà quasi angelica – e una furia disperata e sanguinaria (…). Una popolazione esteriormente umile, depressa, internamente drammatica". (corsivi miei)
(P.P.Pasolini, 1960)

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Ho riportato, quasi per intero, l'accorata e dolente descrizione che poco più di cinquat'anni fa Pasolini fece della Calabria, terra priva di bellezze, bestialmente sfruttata e abbandonata, perchè la bella opera prima di Alice Rohrwacher, Corpo Celeste, ce la riporta in primo piano, in tutta la sua tragica fissità, o in una drammaticità che si è persino aggravata nel tempo.
Come abbiamo potuto creare tanta devastazione? Se è vero che i luoghi, o i non-luoghi, parlano, che il territorio abitato dall'uomo è portatore di un suo proprio linguaggio e che l'uomo che lo abita non può appunto prescindere anche da questo linguaggio, è un grido di dolore sommesso e antico quello che viene fuori da questo paesaggio. E' l'oscena periferia di Reggio Calabria, infatti, la protagonista di questo film; la macchina da presa tenuta a mano, i piani stretti, rincorrono gli scempi ripetuti su un territorio martoriato negli anni, nei decenni, dall'abbandono e dalla corruzione, dai clientelismi e dal degrado, dallosfruttamento bestiale e dal progressivo sventramento, dall'ignoranza e dalla povertà. La bretella autostradale dove non si può camminare, l'orrenda fiumara che raccoglie cadaveri di animali, resti di vita buttati lì, come i corpi dei clandestini che appestano il Mediterraneo, per cui "è meglio il pesce dell'Atlantico", paesi diroccati e abbandonati come dopo una guerra, e ovunque quelle faccie sì umili, internamente drammatiche che descrive Pasolini, ma involgarite e segnate da cinquant'anni di finto benessere, di resa consumistica, di desolante ed irrecuperabile, credo, passaggio antropologico da un mondo arcaico perso per sempre, al non-luogo consumistico dell'oggi, e nel Sud in particolare.

Ad attraversare questo territorio è lo sguardo silenzioso e attento di Marta, ragazzina di tredici anni che fa rientro in Calabria con la mamma e la sorella, dopo dieci anni trascorsi in Svizzera da emigrante; iscritta al corso di catechismo in preparazione della cresima, i miseri e freddi locali della parrocchia diventano il luogo del film, il punto d'incontro tra i pochi personaggi e il baricentro aggregativo su cui si poggia questa esile trama che, come abbiamo detto, ha nel paesaggio, a mio parere, il suo primo attore. 

Non siamo qui in presenza della Chiesa di Habemus Papam (é stato detto trattarsi di due film laici, quello della Rohrwacher persino anticlericale), e nel don Mario diCorpo Celeste non vi può essere niente del fragile personaggio morettiano, non ci desta alcuna teneezza, alcuna simpatia; questa pare una Chiesa minima che esiste soltanto per la sua fisicità, per il suo esserci concretamente come luogo fisico, appunto, fatto di muri, e stanze e sedie dove la gente si deve incontrare, fare le prove in vista del misero e obsoleto rito della cresima, che in questa mistura tra arcaismo e berlusconismo ha perso ogni traccia di sacro, e diventa quasi una prova di karaoke (Mi sintonizzo con Dio è la canzone-canto), un passerella di povere e appensatite veline… Marta ne fa parte e non ne fa parte, soggettività sempre un pò estranea, di confine, percepita come straniera, diversa, ma ormai irriducibilmente tornata al suo paese, un Paese che lei osserva senza giudizio, senza pena e senza gioia, occupata piuttosto dal travaglio fisico della pubertà, forse unico sfondo vitale alla miseria del territorio sventrato.
Don Mario, parrocco cinico e indaffarato al cellulare, che raccoglie consensi elettorali per cercare di essere trasferito ad altra sede; preti ottusi dallo sguardo vuoto (tranne il rapido guizzo di verità del vecchio prete semicieco); la catechista Santa (bravissima attrice non professionista Pasqualina Scuncia) che mette tutti i suoi sforzi a organizzare l'evento cresimale, terrorizzata all'idea che don Mario venga trasferito, perdendo così lei il suo ruolo (una 'complessata' del ritratto pasoliniano, dove il senso di inferiortà atavico può repentinamente volgere in durezza). Questi i pochi personaggi di una vicenda, come detto, dove l'elemento umano, in una prospettiva ribaltata, fa quasi da sfondo al paesaggio. E' il territorio che parla. Quelle strade, quelle case che hanno sventrato la collina, quella spazzatura abbandonata, quel fiumiciattolo che raccoglie resti: tutto questo parla. E' la poetica di Gomorra, è la scuola dei Dardennes elaborata e filtrata dallo sguardo personale e già maturo di questa giovane documentarista, è il neo-neorealismo, è stato scritto, della postmodernità.

Il non semplice riferimento al libro di Anna Maria Ortese, da cui è tratto il titolo, rimanda alla raccolta di scritti un pò immaginifici che la scrittrice pubblicò nel '97, e non pare casuale.
Vi si legge, ad esempio:
"….un paese, come non deve mancare di corsi d'acqua, di sorgenti, di nuvole, deve avere cura o consentire la crescita di anime, coscienze, grazia, linguaggi puri, ombre azzurre, altissime: o perirà. Si asciugherà al suolo, se mancano acque e foreste, se mancano anime e coscienze". (corsivo mio)

E' un testo che parla di luoghi. Solo se contengono certe caratteristiche, certi linguaggi puri, i luoghi si umanizzano e vi possono crescere e maturare anime e coscienze. Anime e coscienze. In un linguaggio narrativamente del tutto diverso da quello della regista, la Ortese invoca la stessa esigenza: che il territorio consenta all'uomo di vivere, di crescere, di maturare un'anima e una coscienza.

Quali anime e coscienze possono sopravvivere nella devastazione che il peggior consumismo, il lato più torvo del progresso hanno provocato una volta innestati su un terrirorio arcaico, che mancava di un tessuto sociale connettivo, di una solida borghesia, persino di un dominatore vicino al popolo come scrive Pasolini? Sembra di vedere quelle tetre parabole sui tetti di case distrutte a Kabul, o nei vari luoghi di guerra che i telegiornali ci riportano: niente è più tragico dell'innesto del consumismo su popolazioni impreparate, incolte, in qualche misura arcaiche, su società corrotte e corruttibili, su povertà economiche e antiche miserie culturali. Un nuovo medioevo. Il mostro antropologico che ne viene fuori, metafora anche dell'Italia del berlusconismo, è tutto in questo film, intelligente debutto che esce dalla prestigiosa Quinzaine di Cannes, e che tuttavia non si esautisce in un film neorealistico e tantomeno documentaristico. Corpo celeste, pur sostenuto da una trama esile, presenta volti e umanità densi, significanti: sono frutto di quell'ambiente ma, a modo loro, almeno qualcuno, ne cerca la fuga. Don Mario con i suoi traffici, Santa con la dedizione al catechismo (i momenti più riusciti del film), Marta, soprattutto, che non si rassegna, e mentre il suo corpo cambia, lei cerca la verità: cosa vogliono dire quelle parole del Vangelo che non capisce? perchè nessuno gliele traduce? Santa è troppo ignorante, don Mario troppo distratto e incattivito per darle ascolto, la mamma troppo stanca dal lavoro, ma il fortuito incontro col vecchio prete malato della chiesa abbandonata, le apre un velo sulla verità: quelle parole dicono, anzi gridano Padre, perchè mi hai abbandonato? e le rivelano la verità di un Gesù arrabbiato, lontano dall'iconografia stereotipata che lo vede angelicato e sereno….
La Verità. Questo accesso consentirà a Marta uno sviluppo diverso, un'anima e una coscienza?
Nel suo linguaggio quasi fiabesco, scrive ancora la Ortese nel libro, che la giustizia è
"…pietà del più giovane e del più antico, dell'assolutamente innocente e dell'incomparabilmente puro".

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