NON SOLO CARTESIO
di Francesco Bottaccioli, SIPNEI Società Italiana di Psico Neuro Endocrinoimmunologia
CI SONO FILOSOFI, NON C'É LA FILOSOFIA; sugli ultimi pampleth di Levy e Agamben
di Francesco Bottaccioli
In corso di lock down, due rinomati filosofi, il francese Bernard-Henri Levy e l’italiano Giorgio Agamben, si sono dedicati all’analisi dell’epidemia da Covid-19.
Ottimo! Questa è la filosofia che mi piace, quella che si occupa della vita. Mi piace anche lo strumento scelto: il pamphlet di piccolo formato e di poche pagine, (incredibilmente tutti e due si fermano allo stesso punto, a p. 106, Levy occupa la 107 con quattro righe).
Con queste premesse, ho letto d’un fiato Il virus che rende folli, La Nave di Teseo, Milano, €10 del francese, non per esterofilia, ma perché sono da sempre un po’ allergico al format scelto dall’italiano: la raccolta di articoli e interviste occasionali sull’argomento col titolo A che punto siamo? L’epidemia come politica, Quodlibet, Macerata, €10. Non mi piace il libro-minestra fatto da pezzi più o meno grandi, necessariamente ripetitivi e poco approfonditi, ma, considerato l’autore, non ho esitato a comprarlo. L’ho messo però in seconda battuta.
Quindi, vediamo perché, secondo Levy, il virus rende folli, anzi perché ci ha reso folli. Infatti lo siamo già: con il lock down abbiamo creato “un mondo dove regnano i tecnici della ventilazione, i sorveglianti dell’emergenza generale, i delegati all’agonia… e città che vengono ripulite dalle folle umane come una sala operatoria. Un mondo di addestratori di cani, cioè di addestratori che sono cani e che addestrano come cani un’umanità che ha il diritto di abbaiare solo quando le vien ricordato che è fatta di uomini, il diritto di gemere quando prende un virus e di guaire quando il signor Coronavirus, il nostro re, viene a dare la sua lezione come si dà una pacca al cane, con il doppio significato di coccolare e picchiare.” (p. 106)
Questa follia è il frutto della sottomissione della politica – di destra e di sinistra scrive Levy- al potere medico e ai medici dipinti come superuomini. “I medici vanno mandati all’inferno… anche i migliori commettono errori e abusano del loro potere” (pp. 72-73). E qui il nostro nouveau philosophe, di origine ebraica, nomina, in modo corsaro (in 3 righe), Maimonide (XIII secolo) il più grande medico ebreo di origine andalusa, cui mette in bocca, senza citazione puntuale, un’invettiva contro i medici.
Confesso che, se prima ridacchiavo sulle pagine di Levy, qui mi sono urtato: Maimonide no, la sua opera è un inno al ruolo fondamentale della medicina, una medicina gentile, amica dell’umanità, gestita da un medico democratico e filosofo. I medici vanno comunque mandati all’inferno, secondo le philosophe, anche perché “il virus deve la sua esistenza solo agli scienziati, cioè agli umani che, nominandolo, lo hanno tirato fuori dal nulla” (p. 39). Fantastico Levy, Lacan sarebbe stato contento dell’uso magistrale del linguaggio!
Del resto, anche per Agamben “l’epidemia è un’invenzione… è poco più di un’influenza” (p.17) "è una gigantesca operazione di falsificazione della verità” (p.65) e comunque, scomodando Foucault, c’è un uso politico dell’emergenza; finalmente, dice Agamben, il potere politico può sperimentare il suo sogno: “lo stato di eccezione”, cui il filosofo ha dedicato una panoplia di saggi. Un sogno terribile, di cui noi, poveri dormienti, non ci siamo accorti: “Mai prima d’ora, nemmeno durante il fascismo la limitazione della libertà era stata spinta fino a questo punto” (p. 53) “E il controllo che viene esercitato eccede di gran lunga ogni forma di controllo esercitata sotto regimi totalitari come il fascismo e il nazismo” (p. 60).
Devo dire che, mettendo in fila queste citazioni, ho provato una sensazione di imbarazzo, in senso fisico, ho lo stomaco pieno di serotonina che invia messaggi di nausea al cervello.
Mi viene in soccorso un’altra lettura, la trascrizione dei Corsi al Collège de France tenuti da Maurice Merlau-Ponty poco prima della sua morte (È possibile oggi la filosofia? Cortina, Milano 2013). Il tema centrale era l’esame di un’epoca che egli definiva “di non filosofia”.
Erano gli anni ’50, che ancora durano.