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SU “IL FIUME DELLA VITA” DI EUGENIO BORGNA

13 Set 20

A cura di Paolo F. Peloso

Autore: Eugenio Borgna
Titolo: Il fiume della vita. Una storia interiore
Editore: Feltrinelli
Pagine: 191
Costo: 16 euro
 

È anche questo, come i due di Borgna con i quali siamo entrati precedentemente in risonanza – L’ascolto gentile e La nostalgia feritaun libro che parla direttamente al cuore. Al centro c’è l’esperienza interiore, che l’Autore sta facendo da qualche anno, della vecchiaia; una vecchiaia vissuta in modo che appare sereno, conservando la curiosità verso questa vita che si avverte scorrere in modo sempre più precipitoso e con una grande voglia di leggere e di scrivere ancora tante cose. Facendo, certo, esperienza anche di quel contrarsi della percezione del tempo che ha inizia credo, almeno nella mia esperienza, già alla metà della vita e poi si accentua via via, che fa sì che, come riporta Borgna da Shopenhauer: «dal punto di vista della gioventù, la vita è un avvenire infinitamente lungo; dal punto di vista della vecchiaia, un passato brevissimo». Quest’esperienza è, probabilmente, resa serena anche dal fatto che l’Autore non la fa da solo; a tenergli compagnia, a scriverne insieme a lui in questo caso direi, i compagni di sempre, da Cicerone a Sant’Agostino, a Arthur Shopenhauer, Friedrich Holderlin, Giacomo Leopardi, Sergio Corazzini, Reiner Maria Rilke e gli altri.



Lo stile è – l’Autore lo ribadisce più volte – quello rapsodico, frammentario e asintomatico che è proprio dei flussi di coscienza, del dialogo interiore, del ricordare come portare al cuore.
Il fiume della vita ha, ovviamente, sorgente nell’infanzia, alla quale  Borgna ritorna nel suo caso con commozione, ritrovando ad esempio nel diario della madre un dialogo tra i genitori; il padre che avverte la responsabilità generale, collettiva, della Resistenza al fascismo, la madre spaventata che gli ricorda la responsabilità privata, verso la famiglia. Un dilemma di fronte al quale in tanti si sono trovati, tra i migliori di quella generazione. Poi l'adolescenza, fragile, timida, insicura, sensibile. 
Poi le estati al mare a Bergeggi, l’università e poi l’incontro fondamentale con Giovanni Enrico Morselli e con la fenomenologia, l’attività clinica affrontata sempre avendo un occhio per l’esperienza generale della condizione umana come è descritta da poeti e scrittori; il delicatissimo alternarsi chiaroscurale di parole e silenzi nell’incontro di cura. Non ha timore di dare scandalo, Borgna, quando ricorda con nostalgia l’esperienza professionale presso il piccolo manicomio femminile di Novara. Più adatti lo spazio e il tempo per la cura della follia, rispetto all’SPDC, sostiene. E questa nostalgia – che aveva già adombrato in altri testi ma si fa qui più esplicita mi pare – colpisce in qualcuno che non può certo essere sospettato di dubbi circa la bontà dell’impresa basagliana di volere i manicomi chiusi, né può essere solo sbrigativamente riportata a nostalgia della propria giovinezza. Certo, nei manicomi di piccole dimensioni vicini alla città le cose sono sempre andate meglio rispetto a quelli grandi e isolati – e nello scriverlo mi ritorna al cuore l’eroica lotta di Dario Maragliano contro la costruzione del manicomio di Prato Zanino, che ho conosciuto ricostruendo la storia della psichiatria ottocentesca genovese – e certo la follia femminile è da sempre percepita, e forse è davvero, meno legata alla violenza ed evoca perciò risposte meno violente rispetto a quella maschile. Ma non basta; mi pare che qui Borgna stia parlano della sofferenza  con la quale ha vissuto il passaggio alla gestione della crisi psicotica o depressiva all’interno dell’ospedale generale, specie dopo che il suo SPDC è stato dissennatamente separato dal CSM.  E mi ricorda i dubbi di Antonio Balestrieri quando, intervenendo come presidente della SIP alla discussione per la Legge, 180 paventava che gli spazi angusti dei quali l’SPDC avrebbe potuto fruire nell’ospedale non fossero appunto idonei alla gestione della crisi e potessero determinare un più frequente ricorso alla contenzione. O lo stesso Basaglia, per il quale all’SPDC dovevano essere riservate funzioni limitate, a cavallo con la medicina, mentre il luogo per la gestione della crisi psichiatrica avrebbe dovuto essere uno spazio comunque extraistituzionale, il CSM h24 o luoghi comunitari specifici pensati per la crisi (Mosher e Ciompi hanno realizzato luoghi di questo genere nelle loro esperienze negli USA e in Svizzera). Meglio del manicomio per quanto piccolo, e meglio dell’SPDC, per quanto grande possibile, mi pare.
Per Borgna la psichiatria (che è «scienza dello spirito» e ha per Manfred Bleuler il destino di «dare una mano a chi è naufragato sugli scogli della disperazione») è una sorella – una sorella gemella Cesare Musatti definiva la psicoanalisi nel suo caso – che lo ha accompagnato per la maggior parte della vita e che ancora, si avverte, lo appassiona e lo preoccupa. Una sorella priva di certezze, alla quale ha sempre messo a disposizione la propria interiorità, la cui esplorazione è indispensabile a entrare in risonanza con l'interiorità dell'altro, per reare con lui quel sentimento di cominità che indispensabile alla cura. Ricostruisce qui la sua lunga vita professionale distinguendo tre periodi: quello manicomiale e quello ospedaliero, appunto, e poi quello della libera professione, alla quale si è dedicato dopo il collocamento a riposo. E a proposito della quale scrive, con un’onestà che è difficile incontrare (e non mi è sufficiente quello che avverto come l’arrampicarsi sugli specchi, a questo riguardo, di certa psicoanalisi a risolvere il problema): «vorrei anche dire che non è facile in psichiatria considerare un colloquio clinico come qualcosa che richieda ricompense (…). Ho un paziente che mi parla del suo smarrimento, e della sua vita che non ha più senso, l’ascolto, cerco parole che dicano la mia comprensione, e poi com’è possibile chiedere di essere ricompensato?». Come l’Autore abbia risolto la questione nel suo caso, però, non è dato sapere anche se si intuisce che nel presentare il conto non debba esser stato molto sollecito.
Oltre allo scorrere del fiume della vita, Borgna – con accanto gli autori che da tempo tiene sempre con sé – affronta temi che a esso si accompagnano: la malinconia innanzitutto come sentimento fondamentale dell’uomo, che ci tiene a tenere ben distinta, rifacendosi in questo caso anche a Starobinski,  dalla malattia depressiva; il suicidio come esperienza generale dell’uomo che interroga – come il suicidio assistito e l’eutanasia – il senso della vita. L’idea del suicidio dalla quale si può sentire talora ossessionati, talora attratti e allora gli sorge spontaneo l’interrogativo: «quando ci si incontra con pazienti come queste, non so davvero a cosa servano le psichiatrie divorate dalla febbrile ricerca di diagnosi che non si  conciliano con la vivente realtà del dolore dell’anima». E il suicidio del paziente in cura, a proposito del quale Morselli gli insegnava che: «salvare una persona dal suicidio, è la cosa che dà più senso alla vita di uno psichiatra; non evitarlo, non essere riusciti ad evitarlo, quella che più ne lacera il senso». Poi la morte, quella propria e quella delle persone care, a proposito della quale sono bellissime ed esperienza credo comune a molti le parole evocate da Sant’Agostino: «Ogni oggetto su cui posavo lo sguardo era morte. Era per me un tormento la mia città, la casa paterna un’infelicità straordinaria. Tutte le cose che avevo avuto in comune con lui, la sua assenza trasformava in uno strazio immane. I miei occhi lo cercavano dovunque senza incontrarlo, odiavo il mondo intero perché non lo possedeva». E poi soprattutto la memoria, l’impasto cioè del quale questo libro è costituito, memoria non di date e nomi, ma memoria come capacità di riportare al cuore, di far rivivere quasi nelle proprie emozioni, ricomponendone i frammenti, i fatti e le persone che appartengono al passato. E, insieme a quelle sulla memoria, sono dolci e intrise di umana pietà le pagine dedicate al venir meno della memoria nei «vortici di emozioni e pensieri frantumati» della malattia di Alzheimer. Persone fragili, «come i cristalli di Murano», alle quali avvicinarsi senza perdere la speranza e cercando soprattutto di tenere sotto controllo le paure che, per immedesimazione, questa condizione umana può evocare in noi e che possono essere loro infinitamente di danno; e per farlo: «certo, ci vuole coraggio, ci vogliono prudenza e pazienza, gentilezza e saggezza del cuore, le une intrecciate alle altre».
Questo libro è, infondo, un altro tentativo generoso di Eugenio Borgna di renderci partecipi della sua interiorità, delle cose che ha a cuore, un tentativo di dare vita virtualmente – lui, gli autori dei quali è lettore, noi che siamo lettori di lui – forse a quella che Viktor von Gebsattel definiva, riferendosi alla relazione di cura, una comunità di destino, una comunità nella quale «si entra con la frequenza d’onda del cuore, il cuore della intuizione» e che «trasformando gli altri, ci aiuta a trasformare noi stessi». Un tentativo generoso di condividere in modo autentico e profondo, con chi lo legga nel silenzio del cuore:  «qualcosa di una vita che ha avuto la psichiatria come sua fragile compagna di strada: come sua fonte di riflessione sulla condizione umana ferita dal male di vivere, e nondimeno aperta ai bagliori della speranza, che è la goethiana stella cadente, alla quale sempre guardare nelle notti oscure dell’anima».

Nel video, Borgna dialoga con Umberto Galimberti sul libro. 

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