Recensione a “Tra la vita e la morte. La psicoanalisi scomoda” di Cristiana Cimino
1.
Questo saggio breve è scritto da un’analista della Società Psicoanalitica Italiana (SPI), che però sviluppa un suo percorso originale rifacendosi soprattutto al pensiero di Lacan e di Elvio Fachinelli. Questo va detto per capire il sottotitolo, La psicoanalisi scomoda. In effetti, scomoda per chi?
Ben presto appare chiaro che la psicoanalisi è scomoda soprattutto per molti psicoanalisti. Forse per la maggioranza di loro. (Direi di più: nel pensiero di Freud c’è qualcosa di scomodo per tutti gli psicoanalisti, anche per i lacaniani, persino per Freud stesso…) Cimino descrive questa scomodità dal punto di vista teorico, in relazione al pensiero soprattutto dell’ultimo Freud. In effetti, questo libretto è essenzialmente una lettura del Freud più tardo. Ovvero, Cimino legge il Freud che propone una dicotomia tra pulsioni di vita e pulsioni di morte, e il Freud complesso, oscuro, problematico, di un piccolo saggio che non cessa di tormentarci, “La negazione” (Die Verneinung: “Il diniego”). Perché l’ultimo Freud sarebbe così indigesto innanzitutto per gli analisti?
Cimino non è stata certo la prima a denunciare il fatto che la psicoanalisi del mainstream non ha mai digerito l’introduzione freudiana della pulsione di morte (Todestrieb), considerandola per lo più bizza senile di un uomo malato. Per quella che potremmo chiamare “la lettura francese di Freud”, non solo lacaniana quindi, la pulsione di morte è invece l’hard core della psicoanalisi.
In effetti, sono colpito da quanto certi analisti di mentalità positivista scattino quasi furibondi quando si evoca la pulsione di morte. “Se ci fosse la pulsione di morte, la specie umana non sarebbe sopravvissuta!”, dice qualcuno di loro. Ma basterebbe rimandare a una biologia seria e non banalizzata – per esempio, a Imperfezione1 di Telmo Pievani – per rendersi conto che Homo sapiens, e qualsiasi specie animale, sopravvive malgrado le proprie imperfezioni, malgrado il fatto che molti tratti non siano affatto adattativi. Freud parla dell’essere umano che deve godere, non dell’essere che deve riprodursi.
Mi si conceda di spiegare il senso di “pulsione di morte” riferendomi a qualcosa di completamente diverso, in apparenza. Al teorema di Gödel (1931). Prima di Gödel, si dava per scontato che in matematica può essere vero solo ciò che è dimostrabile, ed è vero solo se è dimostrato. Il teorema di Gödel mostra invece che puoi costruire delle proposizioni perfettamente vere, di cui puoi dimostrare la loro indimostrabilità. È il più importante teorema di incompletezza, ovvero di limitazione, in questo caso di limitazione della dimostrabilità. Il teorema di Gödel è un trionfo della logica. Esso ci dice che non possiamo far coincidere il dimostrabile col vero.
Certamente la teoria di Freud è di gran lunga meno rigorosa della logica matematica, ma l’introduzione della dicotomia vita/morte svolge una funzione analoga. Ci fa toccare con mano la non-coincidenza tra due dimensioni che lo stesso Freud, in un primo momento, aveva considerato coincidenti: lo psichico (ovvero lo psichico inconscio) e l’interpretabile. E la chiave che Freud offre per interpretare lo psichico (le formazioni dell’inconscio) è sempre il Lustprinzip. Questo termine è stato tradotto “principio di piacere”, ma andrebbe tradotto con “principio di desiderio-godimento” (Lust in tedesco significa in effetti entrambe le cose). Ovvero, la psiche umana tende sempre a godere, e questa tensione è desiderio. È interpretabile tutto ciò che possiamo ricondurre a una dialettica del desiderio-godimento. In altri termini, per Freud la psiche umana è carne significante. Carne (desideri, pulsioni, libido…) che si significa attraverso sintomi, sogni, atti perversi, atti mancati, battute di spirito… Quella di Freud è una chiave forte, che ha rassicurato varie generazioni di psicoanalisti, i quali sapevano come interpretare.
Ma Freud stesso scrive a un certo punto Al di là del principio di desiderio-godimento, dove ammette, quasi obtorto collo, che non tutto, pur essendo psichico, è interpretabile. Questo non-interpretabile – questo nonsense potremmo dire – è connesso a un processo irriducibile a ogni interpretazione: la ripetizione.
Lacan (in un seminario, l’XI°) si occupò di quelli che per lui erano i quattro principi fondamentali della psicoanalisi: l’inconscio, la pulsione, il transfert e la ripetizione. Mi pare però che Lacan non noti l’eterogeneità –la scomodità – della ripetizione. Perché possiamo certo ricondurre inconscio, pulsione e transfert al Lustprinzip, alla carne significante, ma non la ripetizione. Ovvero, lo psichico ripete per ripetere – in termini politici, potremmo dire che nello psichico c’è qualcosa di irriducibilmente conservatore, se non reazionario. È il limite di ogni potere analitico, ma anche di ogni interpretabilità.
Eppure, l’ammissione di questo non-interpretabile nel cuore dello stesso psichico contagia, o forse inquina, tutto lo psichico: ciò che prima della pubblicazione di Al di là del principio di desiderio-godimento sembrava del tutto interpretabile, dopo porterà con sé un’ombra costante di non-interpretabilità, un’opacità che Freud chiamò pulsione di morte, ma che potremmo chiamare anche altrimenti, se la morte ci fa tanta strizza.
Alcuni obiettano: introdurre una misteriosa ripetizione o pulsione di morte per “spiegare” ciò che la teoria non riesce a spiegare non è una mossa ingenua? Non chiama Freud pulsione di morte i semplici limiti esplicativi della teoria psicoanalitica, invocando uno spettro che è solo ciò che confuta la sua teoria? Non era meglio che Freud dicesse semplicemente: la mia teoria non spiega tutto (dello psichico) e quindi va cambiata? Ma, come abbiamo visto con il teorema di Gödel, stabilire precisamente l’incompletezza di una disciplina non è una sconfitta di questa, è anzi un suo successo. E questo non solo in logica matematica. Con la pulsione di morte, in effetti, Freud stabilisce non solo i limiti della propria teoria (non tutto dello psichico è interpretabile e quindi spiegabile) ma l’incompletezza della propria pratica. Cosa che ribadirà nello scritto Analisi terminabile e interminabile, altro testo scomodo per gli analisti che credono nella psicoanalisi come teoria positivista, e che Cimino analizza finemente. Limiti dell’interpretabilità, limiti della curabilità.
In sostanza Freud ci dice: la nostra vita bio-psichica non è tutta interpretabile in termini psicoanalitici. C’è del non-psichico nello psichico. Invece una diffusa illusione psicoanalitica porta a credere che si possa e si debba interpretare tutto.
Si tende a pensare che il non-interpretabile, e quindi non spiegabile in termini analitici, sia l’opacità del biologico. Ma “il biologico” che sarebbe al di là, oppure alla base stessa, dello psichico, è una pura costruzione del sapere moderno, che ha differenziato l’unità del vivente in diverse discipline. L’essere vivente, ammette Freud, è invece indisciplinato. Per Freud lo stesso “biologico” è attraversato da una contraddizione tra pulsioni di vita e pulsione di morte, non c’è vera separazione categoriale tra biologico e mentale. In termini di biologia contemporanea, post-darwiniana, diremmo che non tutto nella vita animale è adattativo (ma lo sapeva già Darwin).
2.
Il libro di Cimino è di fatto diviso in due parti. Considero una seconda parte a sé l’ultimo capitolo, “Il tabù del femminile”, che si occupa della sessualità femminile e della femminilità. In apparenza, c’è poco in comune tra il Freud scomodo della pulsione di morte e del diniego, e il conandrum della femminilità. Anche se Cimino trova un ponte tra i due livelli attraverso la figura della “madre mortifera”, del ritorno all’utero come trionfo della pulsione regressiva.
Il punto è che per Freud essere maschi ed essere femmine non ha una base inconscia. La libido è unica, non è maschile né femminile. Per questa ragione, secondo Lacan, non c’è nell’inconscio un significante per rapporto sessuale. È come quando esistevano delle stabili coppie omosessuali, ma non avevano alcuna iscrizione giuridica, non esistevano simbolicamente. Eppure per Lacan ci sono due posizioni, maschile e femminile, non riducibili all’attivo e al passivo. Lacan precisa che, pur avendo un pene, un soggetto può occupare una posizione femminile (i mistici maschi sarebbero di questo tipo, e include sé stesso tra questi), e anche senza avere un pene un soggetto può occupare una posizione mascolina.
Ma cosa determina allora la differenza tra posizione mascolina e femminea? Avere o non avere un pene non è una condizione sufficiente per essere dalla parte maschile o femminile. Ci vuole qualcosa in più…. Per Lacan questo “in più” è sul versante femminile: la sua apertura al Godimento dell’Altro. Ma questo Altro è a sua volta sessuato? Non è chiaro. Qui però Cimino, nello sviluppo della sua analisi, non considera, come aveva fatto nel suo libro precedente (Il discorso amoroso, manifestolibri) quel che per Lacan è “la marcia in più” di una donna: l’accesso al godimento dell’Altro.
Comunque Cimino critica l’approccio di Freud, giungendo alla conclusione che Freud resiste al femminile, anzi, rifiuta la femminilità. Anche qui, Cimino analizza l’ultimo Freud, di Analisi terminabile e interminabile, del 1938. Al termine della sua vita, Freud dice che anche l’analisi va terminata, pur restando incompleta.
Freud ha trovato sempre problematico il femminile. È famosa la sua domanda senza risposta a Marie Bonaparte “Was will das Weib?”(Che cosa vuole la femmina?)2. Nemmeno le analiste donne hanno una risposta, dato che continuano a porsi continuamente, ancora, la stessa domanda: “Ma che cosa vogliamo noi donne?” Mentre se uno dicesse “Che cosa vuole un uomo?”, la domanda creerebbe certamente una certa ilarità... Perché, da un paio di secoli a questa parte, la femminilità fa tanto problema, per le donne stesse?
Da Freud in poi tutti siamo convinti che un uomo vuole soprattutto evitare la castrazione. Non solo perdere il pene, ma in generale perdere la potenza fallica, anche nella vita sociale. Cimino insiste sulla differenza tra pene, organo anatomico, e fallo come ente simbolico secondo Lacan, ma pene e fallo si intrecciano continuamente.
Interpreto in termini “culturali” tutta questa problematica sulla femminilità, problematica che non esisteva in altre epoche. Da oltre un secolo la nostra cultura ha deciso che se donne e uomini sono anatomicamente complementari, essi sono psichicamente (e cognitivamente) eguali. Per la nostra cultura c’è un sesso unico – il che fa eco a quel “pensiero unico” (la globalizzazione liberale basata sul capitalismo e sulla scienza) che tanti nei decenni scorsi hanno criticato. Se si notano chiare disparità tra uomini e donne – il fatto ad esempio che esistano tante psicologhe e pochi psicologi maschi, il fatto che esistano tanti matematici uomini e un numero molto minore di matematiche donne, ecc. – esse vengono subito messe sul conto di residui storico-culturali, di perpetuazione di stereotipi sociali. In questo modo, la stessa sessualità femminile è considerata semplicemente parallela a quella maschile. E si ignora così il sesso ormonale, forse più importante del sesso anatomico, dato che gli ormoni maschili e femminili non regolano solo tratti fisici, ma anche mentali.
Ora, né Freud né Lacan credono nel sesso unico. E questo a dispetto del fatto che per Freud le pulsioni non sono maschili e femminili, insomma gli impulsi sessuali sono unici, e la differenza sessuale è un’acquisizione storica, nel senso che si costituisce nella storia libidica dell’individuo (“donna non si nasce, lo si diventa”).
C’è una differenza femminile che non può essere ridotta a corollario di una differenza anatomica. Cogliamo qui allora un’analogia tra la scomodità della pulsione di morte e la scomodità della femminilità. Perché se l’introduzione freudiana del Todestrieb spezza la coincidenza tra psichico e interpretabile, la dimensione del femminile spezza la coincidenza tra il “sesso unico” e qualcosa di femminile non riducibile al sessuale! Altro paradosso: in che senso qualcosa che per definizione è sessuale – esser femmina – integra in sé del non-sessuale? Soprattutto attraverso Lacan, emerge una non-coincidenza tra femminilità e sessualità femminile, ragion per cui inventerei il termine donnità, ciò che della donna sfugge alla femminilità. Le mistiche, che Lacan evoca come campionesse (nel Seminario XX, Encore), non sono certo femministe, ma donniste sicuramente sì. (Ho cercato di spiegarlo in un mio saggio su Roshwita, http://www.sergiobenvenuto.it/capricci/articolo.php?ID=135.)
Non possiamo seguire nei dettagli la lettura che Cimino fa di “Analisi terminabile e interminabile”. Secondo Freud, molte analisi arrivano di fronte a un ostacolo insormontabile – per cui non finiscono veramente, ma si interrompono – perché certe (solo certe?) donne non vogliono rinunciare a volere il pene, e certi (solo certi?) uomini non vogliono assumere una posizione passiva nei confronti di un altro uomo nei rapporti sociali. Mi pare però che Cimino non colga qui una profonda incoerenza nelle conclusioni di Freud quando lui dice “in entrambi [i sessi] ciò che soggiace alla rimozione è l’elemento del sesso opposto”. In realtà, come aveva detto Freud poco prima, sia l’uomo che la donna rifiutano non il sesso opposto, ma una stessa identica cosa: la femminilità. Cimino attribuisce questo rifiuto della femminilità a Freud, in realtà Freud attribuisce questo rifiuto della femminilità (Ablehnung der Weiblichkeit) ai suoi pazienti “inguaribili”, uomini e donne. La donna non accetta di essere anatomicamente femmina, l’uomo non accetta di essere socialmente femmina – ma questa è la fonte dei loro guai! Mi pare chiaro che Freud dica qualcosa di preciso: che tutti i nostri problemi vengono dal nostro (di donne e uomini) rifiuto della femminilità! Non condivido quindi la tesi di Cimino che sia Freud a rifiutare la femminilità.
Certamente Cimino non è convinta dal fatto che i problemi delle donne provengano dall’invidia poenis, dall’invidiare l’uomo come portatore di pene. E come darle torto? Per lei, non è vera l’affermazione di Freud “il destino è nell’anatomia”. All’epoca di Freud non era emerso il transessualismo, ma tutta l’ondata transessualista contesta proprio quella affermazione: ”Non è vero che il mio destino è la mia anatomia!” Avere o non avere un pene, ormai, è qualcosa che si può correggere chirurgicamente, come togliersi un porro o farsi trapiantare cuoio capelluto.
Cimino pensa di superare questi limiti freudiani, come abbiamo detto, recuperando il concetto lacaniano di fallo, che non è il pene anatomico, ma qualcosa di simbolico. Credo però che Lacan non abbia fatto altro che integrare nella sua teoria dei registri (il pene reale, il fallo simbolico, la mancanza di pene immaginaria) qualcosa che era già presente in Freud: questi parla sempre del pene anche come forza simbolica. Per esempio, quando dice che molti uomini non tollerano una posizione passiva di fronte a un altro uomo (uno dei più intolleranti di questo era proprio Freud!), evidentemente essi si sentono sodomizzati non da un pene reale, ma da una potenza fallica. Freud ha sempre dato a “pene” un senso anche simbolico. Basti pensare all’interpretazione freudiana del feticismo: il feticcio sessuale per un uomo è un fallo femminile, non un pene. Il feticista sa che le donne non hanno un pene, ma devono essere falliche, appunto.
La divisione netta tra pene e fallo (come “insegna”, simbolo, lingam di Śiva) permette però a Cimino di unificare di nuovo i sessi, nel senso che il compito di entrambi i sessi è “di rinunciare, invece, a qualcosa che non può essere un organo, ma tutto ciò che quell’organo rappresenta” (p. 113). Ovvero, sia le donne che gli uomini, indipendentemente dalla loro anatomia (e dai loro ormoni?), dovrebbero rinunciare alla “potenza fallica”, che io chiamerei volontà di potenza tout court. I compiti di maschi e femmine divengono così commensurabili: rinunciare alla volontà di potenza. Operazione però impossibile, secondo Nietzsche.
Eppure Cimino alla fine ci tiene a rivendicare, a esaltare, una specificità femminile. Questa specificità sarebbe una “posizione attivamente passiva” (p. 115), che certamente titilla la nostra curiosità, peccato che su questo il libro si conclude. O si interrompe? Sin da Aristofane, si è vagheggiato un mondo salvato dalle donne (Lysistrata ed Ecclesiazouse). Questa specificità salvifica femminile per Cimino dovrebbe spezzare le violenze populiste e identitarie, e costruire una soggettività “che rinunci alla facile tentazione della rivalità bellicosa”. Ma non si tratta della ripresa di un cliché tradizionale?: “se governassero le donne, non ci sarebbero guerre e le società sarebbero meno aggressive!” Ma sarebbe davvero così? Quante donne sostengono Trump?
Certamente Lacan ha lanciato alcuni slogan famosi sulla donna ma, come al solito, sibillini. Egli dice che “La Donna non esiste”, che esistono solo delle donne. Che diavolo voleva dire? Voleva dire che non c’è un’essenza del femmineo, che non c’è un concetto universale che sussuma tutte le donne, passate presenti e future? Così come il concetto universale di Cavallo sussume tutti i singoli cavalli… Ma cosa può voler dire che le donne non coincidono con il concetto universale, con l’essenza, di Donna? Che cosa in ciascuna di esse si sottrae alla donnità? E del resto, non possiamo dire anche degli uomini (maschi) che non c’è L’Uomo, ma solo degli uomini? No, l’uomo si sussume sotto un universale, la donna no. Ma perché?
Si tratta di una logica surreale, che può essere forse bene illustrata da opere surrealiste. Ad esempio da questa di Magritte:
R. Magritte, La grande famiglia (1963)
Anche qui abbiamo un non-tutto-uccello, perché l’uccello contiene quel cielo di sfondo che dovrebbe essergli esterno, e qui invece è interno. L’uccello coincide con il suo non-essere.
Si dirà: Questa è arte surreale, non è logica. Ma potremmo mostrare che anche in filosofia abbiamo questi enti ambigui, dove alcuni elementi di un insieme saltano fuori da questo stesso insieme. Come non tutto l’inconscio (lo psichico) è psichico perché non interpretabile, analogamente una donna non è mai completamente donna. Certamente anche un uomo non è completamente maschile, non è completamente fallico, ma nella misura in cui si dice “uomo” la presenza fallica lo caratterizza.
La fortuna di certe affermazioni molto paradossali di Lacan può essere vista anche in un’ottica socio-culturale. La donna moderna è tenuta, come abbiamo detto, a essere eguale all’uomo, ma questa eguaglianza è incompleta. C’è una differenza femminile che pur sempre si ribella all’omologazione, e che non può essere ridotta a un “avere qualcosa in meno”. La donna sa di non essere del tutto “la donna” dell’etica di genere oggi dominante, e Lacan le dà un “in più” che l’uomo non ha: il suo accesso al godimento dell’Altro. Anche gli uomini possono avere accesso al godimento dell’Altro, ma solo se si mettono in una posizione femminile. Che è quale, allora? Mi verrebbe da dire che è l’accettazione di una certa umiltà, che non implica soggezione, e di cui tante mistiche, appunto, ci offrono testimonianza. Un’umiltà che nell’uomo è castrazione, e nella donna invece può essere “la marcia in più”.
Dietro ogni libro teorico, bisogna vedere un lavoro autobiografico, una storia e un travaglio personali. Evidentemente Cimino si sente un’analista scomoda, e non solo per la SPI. Si sente scomoda nella psicoanalisi stessa, anche forse nel senso che la psicoanalisi le è scomoda. È da questa ambivalenza degli analisti nei confronti del proprio mestiere, che la psicoanalisi può sperare di rinnovarsi e sopravvivere.
1 Telmo Pievani, Imperfezione. Una storia naturale, Raffaello Cortina, 2019.
2 Donna è Frau, das Weib, genere neutro, è piuttosto la donna in quanto femmina.