L'INNOCENZA DEL DIAVOLO
Psicopatologia, crimine e istanze di controllo sociale
Vecchiaia e Psicoanalisi
2 dicembre, 2020 - 17:32
È appena uscito nelle librerie il libro Vecchiaia e Psicoanalisi, curato per le Edizioni Alpes dalle psicoanaliste Rita CORSA, Lucia FATTORI e Gabriella VANDI.
Il volume esplora il tema della vecchiaia in una prospettiva psicoanalitica. L’ultima fase della vita è stata poco esplorata dal pensiero freudiano, benché si tratti di un periodo profondamente trasformativo del ciclo umano. La senilità è fatta di perdite e di lutti, ma pure di una tensione a riannodare i fili della propria storia e a prepararsi all’oltre. La psicoanalisi può accompagnare e aiutare l’individuo anche in questa parte finale della vita? È possibile un trattamento analitico in tarda età?
Il volume raccoglie la voce di diversi psicoanalisti, impegnati a indagare sul versante teorico e su quello clinico la dimensione e l’esperienza dell’invecchiamento nella contemporaneità.
Qui di seguito postiamo la recensione al libro di Silvia ANFILOCCHI, psicologa, psicoanalista SPI e IPA, psicoterapeuta di gruppo APG-COIRAG.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda a:
https://www.cmp-spiweb.it/vecchiaia-e-psicoanalisi-recensione-del-libro/
Recensione di Silvia ANFILOCCHI al libro Vecchiaia e Psicoanalisi a cura di Rita Corsa, Lucia Fattori, Gabriella Vandi
(Alpes, Roma, 2020, pagg. 191, €. 17,00)
“L’età si impadronisce di noi di sorpresa” - scrisse Goethe e Simone de Beauvoir, da cui è tratta la citazione, conferma che “La vecchiaia è un destino, e quando si impadronisce della nostra vita ci lascia stupefatti” (1970).
Gli psicoanalisti non possono lasciarsi sorprendere da un fenomeno che sta assumendo dimensioni importanti e questo libro ha il grande merito di occuparsi dell’avanzare dell’età con tutti i suoi, inevitabili per quanto sgradevoli, corollari. Un argomento rimasto a lungo marginale nella cultura occidentale. Molti campi del sapere, infatti, l’hanno trascurato, come se fosse un resto improduttivo, forse anche sgradevole.
Oggi la vecchiaia è un “lungo periodo da vivere”, come dice De Masi citando una statistica dell’OMS secondo cui tra una trentina d’anni “il numero di ottuagenari è destinato a triplicare”. Da vivere a lungo e, possibilmente, bene, mi piace aggiungere, perché è un tempo della vita che non si solo si è dilatato rispetto al passato, ma che può essere anche attivo, innovativo e soddisfacente sul piano personale e sociale.
La scelta delle curatrici è stata coraggiosa già nel titolo. Un titolo forte, violento, schietto, che non si nasconde dietro formulazioni politically correct. Scrivono: vecchiaia; usano la parola che, secondo Sophie De Mijolla, in sé voca l’ansia della perdita: prima delle capacità fisiche, poi intellettuali, mentali e, infine, della vita stessa.
Valeria Egidi Morpurgo, che molto si è occupata dell’argomento, impegnata anche in gruppi di studio internazionali, preferiva usare l’inglese ageing per mettere in primo piano l’aspetto “processuale”, fisiologico che caratterizza questo momento della vita. Invece, Rita Corsa, Lucia Fattori e Gabriella Vandi ci mettono di fronte a qualcosa che tutti temiamo e presentandocela già dalla copertina, con colori e caratteri che richiamano il sapore di “un tempo antico” e ricordano vecchie edizioni cariche di storia e di sapere, meno variopinte e seduttive dei volumi che popolano le librerie contemporanee.
Scelta coraggiosa e prospettica, lungimirante quella delle curatrici, che si sono impegnate nella scrittura e nella selezione dei ricchi contributi al tema, confermando l’ipotesi di Marta Badoni che attribuisce alla “tenacia di alcune psicoanaliste” l’accresciuta attenzione a questi argomenti (avanzare dell’età, malattia, pensionamento, morte di analisti e pazienti), richiamo necessario ma da molti rifiutato. Forse perché le donne sono “più abituate a pensare che nascere comporta anche morire”.
Gli autori di Vecchiaia e psicoanalisi sottolineano, commentano e si interrogano sulle ragioni della scarsa attenzione che il pensiero psicoanalitico ha dedicato al tema.
Sulla cosiddetta terza età, infatti, per molto tempo la psicoanalisi “non ha riflettuto […] compiutamente, come ha fatto per la vita adulta e infantile” (De Masi), pur essendo molte e crescenti le necessità di aiuto psicologico delle persone che in questa fase della vita si trovano ad “affrontare problemi emotivi sconosciuti”. Molti ne rinvengono la causa nella posizione di Freud che ci ha trasmesso l’idea che la cura analitica in età avanzata sia meno efficace; anche se, come ricordano Balsamo nelle pagine introduttive e altri più avanti, questo limite si è spostato con l'avanzare dell'età dello stesso Freud.
Abraham e poi Segal e Balier, che inizieranno a ritenere possibile il lavoro analitico a qualunque età, evidenziano che la plasticità psichica dipende più dalle caratteristiche individuali che dalla fase di vita del paziente e che conta più “l'età della nevrosi che l'età del nevrotico”.
Il problema, viceversa, non si era mai posto per l’analista, anche questo, forse, come conseguenza dell’esempio di Freud che ha lavorato fino all’ultimo nonostante la malattia e il dolore che lo tormentavano. Siamo abituati a pensare la psicoanalisi sia un mestiere di vecchi e, a differenza di quanto accade per altre discipline, credo che molti pazienti cerchino ancora e si sentano protetti dall’affidabilità, l’esperienza e la moderazione di cui la cultura fa credito agli (analisti) anziani, ancorché lucidi e freschi nel pensiero, di cui la nostra società è felicemente popolata.
Ma la questione, appunto, non è eludibile da nessuna delle due parti: se l’età dei potenziali pazienti in cerca di aiuto aumenta, gli psicoanalisti non sono risparmiati dal deterioramento fisico e psichico che, se non prevenuto e monitorato, può disturbare la relazione con analizzandi e supervisionati.
Sono contenta che il nostro training ci abbia sensibilizzato al tema sin dai primi seminari tenuti, nel mio anno di corso, dall’amata Marta Badoni che, con il garbo e la sagacia per cui la conosciamo, ci ha allertato sui rischi insiti in una professione che ha bisogno di solitudine per poter essere svolta al meglio ma che, proprio per questo, potrebbe avere ripercussioni pericolose sui pazienti, se non riusciamo mantenere fino all’ultimo relazioni libere, sincere, fidate con persone che ci espongono al confronto con i nostri limiti.
Venendo più direttamente ai contenuti del libro, Vecchiaia e psicoanalisi si presenta stimolante a partire dalla ricca e dotta prefazione che lo introduce.
Maurizio Balsamo, sempre profondo nelle sue osservazioni, come sopra anticipato, ci conduce a considerare che l’avventura psicoanalitica può offrire a pazienti di qualunque età l’occasione di iniziare, o di riprendere, un movimento verso la vita sbloccando, liberando, rivitalizzando energie ferme. La vecchiaia, infatti, pur associandosi al declino della forza fisica e all’aumento di patologie, non coincide necessariamente con un senso di “depauperamento e di designificazione progressiva” e negli anziani continua ad essere viva la possibilità di riprendere in mano il proprio destino, il senso della propria esistenza, il desiderio di fare i conti con questioni che li hanno tormentati nei periodi precedenti. Anzi, per alcuni l’elaborazione necessaria per appropriarsi dell’eredità ricevuta diventa possibile solo dopo una certa, anche tarda, età.
Secondo Balsamo, per lavorare con pazienti anziani non è necessario che l’analista abbia un’età non troppo distante; valuta, infatti, che, molto più dell’esperienza diretta degli eventi, sia la “disponibilità a spingerci verso ciò che non conosciamo, non possediamo, o abbiamo conosciuto nei processi identificatori primari” ad aiutarci nella comprensione di una vicenda psichica. Posizione non pienamente condivisa da De Masi secondo il quale per comprendere la vecchiaia è necessario averne fatto un’esperienza personale.
La prima parte del testo inverte i termini del titolo: diventa Psicoanalisi e vecchiaia e ci introduce alle interpretazioni psicoanalitiche di questa fase della vita.
Nel primo capitolo, Ezio Maria Izzo ci segnala un “fraintendimento che spesso accompagna le riflessioni sulla vecchiaia”: ritenere che le persone anziane abbiano caratteristiche di personalità comuni; come se esistesse un modo di invecchiare, un modo di essere vecchi uguale per tutti. Luogo comune antipsicoanalitico, perché non possiamo pensare che esista l’“anziano”. Piuttosto, noi incontriamo quella specifica persona anziana che si rivela nella sua unicità, nell’incrocio delle sue dimensioni biologiche, soggettive, storiche e culturali. Izzo approfondisce queste ultime e approda a una teorizzazione della terza età, estendendo a questa fase della vita i tipi libidici freudiani.
Una commovente citazione di Camus, che considera terribile per i vecchi il fatto di non trovare più nessuno disposto ad ascoltarli, introduce il tema della solitudine, particolarmente dolorosa per molte persone anziane, soprattutto se sono sopravvissute a familiari e amici. Izzo ci porta così a comprendere come solo chi sia riuscito a superare il lutto narcisistico possa trovare “una prosecuzione nel passaggio silenzioso alle generazioni future”: la trasformazione della libido dell’Io in una sorta di dono che si trasferisce ad altri, come tramanda poeticamente la sapienza popolare orientale, che sentenzia che “si può lasciare serenamente il proprio tempo se si è piantato un albero, oppure avuto un figlio, o scritto un libro”.
Gabriella Vandi, che scrive nella primavera del 2020, quando l’Italia si è trovata nella prima emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2, riflette l’esperienza che ha infranto l’illusione di onnipotenza e che, soprattutto nel nostro Paese, ha duramente colpito la fascia di popolazione più avanti nell’età. Ciò l’ha spinta ad approfondire una ricerca sull’idea di vecchiaia di Freud, in particolare della sua vecchiaia e della fine della vita.
Se nel 1915 Freud affermava che “non c’è nessuno che in fondo crede alla propria morte, o, detto in altre parole, nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità”, ma anche “Si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte”, con l’avanzare dell’età aveva sempre più in mente l’idea della propria fine e, dal 1923 in avanti, soprattutto dopo la scoperta del male che gli infliggerà tante sofferenze, nei suoi testi e nelle lettere (con Lou Salomé che scompare prima di lui pur essendo di sei anni più giovane) sono numerosi i riferimenti alla malattia e alla morte. Freud, tuttavia, non smetterà mai di lavorare e scrive fino all’ultimo, sostenuto dalla forza originata dall’interesse per il futuro del movimento da lui fondato, il desiderio della prosecuzione, la determinazione a fare in modo che gli sopravvivesse.
Le pagine di Lidia Leonelli si avviano con un racconto nostalgico del mondo dei vecchi, visto con gli occhi di lei bambina che incontra persone di più generazioni e ascolta le storie degli adulti che parlano della loro infanzia. Una narrazione che si mantiene dolce e serena nonostante i dolorosi vissuti di perdita e le vicende drammatiche che hanno segnato grandi e piccoli. La generosità di questa self-disclosure mostra come “tra le generazioni passa anche quella linfa che ci aiuta a vivere, e che continuamente scorre attraverso le relazioni tra le persone, all’interno della famiglia”. Del resto, il titolo del suo capitolo, Vecchi e bambini: come si tramanda la forza di vivere. Note sul transgenerazionale positivo, contiene proprio ciò che manca a molti pazienti che si sentono, a torto o a ragione, vittime predestinate, costrette a raccogliere un’eredità pesante che li fa sentire incatenati a un destino non trasformabile.
Leonelli riprende così il monito di Freud, già ricordato da Vandi, e ci rammenta che “vita piena non significa assenza della morte, ma capacità di accettarla senza negarla e senza avere la necessità di metterla in un altro, nell’illusione di liberarsene per sempre. […]. Accettare il limite insito nella vita, quel limite già presente quando nasciamo, rende possibile sviluppare al massimo la nostra potenzialità creativa, che ci fa assomigliare, di volta in volta, come i figli liberi, a chi ci ha dato la vita”.
Nella seconda parte, Analisti anziani e pazienti anziani, Marta Badoni si occupa dei primi. Nel suo contributo, che si chiude con la toccante interpretazione di un incidente occorsole, ci invita a pensare al pensionamento dell’analista; esito che, difficilmente, viene preso in considerazione, soprattutto da chi ha molto investito sulla professione praticandola con passione e dedizione, a volte anche sacrificando altri aspetti della vita personale e familiare. Quello dell’analista è un lavoro in cui si continua a imparare, migliorare, approfondire e, quindi, in qualche modo, fa sentire sempre in fase di crescita e sviluppo. L’analista, però, non è invulnerabile e neppure eterno, ci ricorda Badoni; per svolgere il suo compito e mantenersi “custode del setting” non può denegare le “turbolenze minacciose, le lacerazioni, i dolori che incombono sulla coppia analista/paziente” nel caso di una sua malattia, “le possibili conseguenze fatali della stessa o di una sua morte improvvisa. Stante l'unicità del rapporto che lega analista e paziente […] (la loro relazione) se interrotta, lascia quest’ultimo in una ‘solitudine che non assomiglia a nessun’altra’ (Robutti, 2009)”. La salvaguardia del setting, che Badoni ci ha insegnato a considerare come “braccia pensanti”, richiede anche una certa forza: la capacità di compiere uno sforzo muscolare senza mai smettere di pensare.
Sul lavoro clinico con i pazienti anziani intervengono Franco De Masi e Lucia Fattori.
De Masi, alla luce della sua esperienza, ci informa che preferiscono essere ascoltati da chi sa cosa significhi vivere quella condizione quindi, pur senza affermare che il terapeuta debba necessariamente avere un’età pari a quella del suo paziente, e senza negare che molti giovani analisti sappiano trattare con successo pazienti più anziani di loro, pensa che per lavorare con persone in età avanzata, l’età del terapeuta sia una variabile fondamentale. Citando Nina Coltart, ci avverte che la terapia dei pazienti anziani, soprattutto se la loro “sofferenza è centrata sul problema di una vita che si avvicina alla fine e che ha perso la qualità e il fascino del passato”, richiede una capacità di identificazione ed empatia che non può essere sempre presente nelle persone più giovani. Grazie all’impegno profuso in anni recenti con pazienti in tarda età, che egli stesso definisce soddisfacente e remunerativo, De Masi ci aiuta a distinguere il tipo di trattamento più indicato per le persone in là con gli anni che si rivolgono a un analista, spesso sollecitate dai medici curanti o dai parenti, e ci suggerisce alcune modificazioni tecniche riccamente illustrate nella presentazione di cinque interessanti casi clinici.
Fattori riflette e analizza le ripercussioni emotive che la diffusione del coronavirus ha avuto su alcuni pazienti anziani in trattamento con lei, che sono riusciti a proseguire il lavoro terapeutico utilizzando mezzi tecnologici. Le considerazioni di Lucia, impossibili da riassumere in poche righe, rintracciano peculiarità e differenze tra le persone in analisi e in psicoterapia, riconducibili alle caratteristiche e disponibilità soggettive oltre che alla qualità del lavoro, cogliendo i cambiamenti tra la prima seduta da remoto e una successiva a distanza di un mese.
Il libro si chiude con una terza parte Quale vecchiaia? che getta uno sguardo su modi diversi di invecchiare.
Sophie De Mijolla distingue tra l’invecchiamento normale e quello patologico a partire dal fatto che l’“esperienza di perdita è già iscritta nella psiche di ogni soggetto a seguito dell’esperienza della nascita, […] trauma per la perdita della protezione fornita dall’ambiente uterino iniziale e per la violenza dell'espulsione” - prima di tante perdite a cui, comunque, mai ci si abitua - che rende “la rappresentazione della morte non […] quella di una calma sonnolenta, ma di una rottura radicale e di un’impossibilità di ritorno: un mai più”. Affermazione perentoria che contrasta con quel “per oggi ci fermiamo qui”, ricordato da Badoni, che segna la fine di tante sedute riscaldate dalla certezza che una successiva seguirà e un’altra ancora e così via per tutto il tempo che sarà necessario, come abbiamo imparato a credere che sarebbero durate le nostre analisi, come pazienti e come analisti.
Il capitolo si chiude con un’utile e benaugurante distinzione tra i vecchi, coloro che sentono e soffrono innanzitutto le perdite (ad esempio chi si identifica nella propria posizione professionale), e gli anziani, “che trovavano naturalmente il loro posto in un ciclo iniziato prima di loro”. “Se il soggetto si basa su se stesso, il desiderio che lo proietta in avanti gli consentirà di catturare sempre qualcosa al volo, a qualsiasi età. La vecchiaia non può alterare la gioia di vivere e conoscere, la passione per la vita” sono le parole con cui mi piace pensare al tempo che, inesorabile, passa lasciando dei segni, ricordando che “Eros […] sa solo investire […] fino all’ultimo respiro, utilizzando le risorse inesauribili della sublimazione”.
Le narrazioni di Carla Busato Barbaglio ci presentano tre modi di invecchiare senza smettere di apprendere e di trovare nuove risposte e soluzioni: una anziana signora in terapia; le rivelazioni di una grande vecchia, Rossana Rossanda, la ragazza del secolo scorso, come lei stessa si era definita, a confronto con i rimpianti e i rimorsi che possono affacciarsi alla mente quando si guarda al passato; Freud, anziano e malato, che continua a “preferire l’esistenza all’estinzione” pur riconoscendo che “la vecchiaia, con suoi disagi manifesti, arriva per tutti”.
Tre esempi di vite ricche che si sono mantenute tali nel tempo, grazie alle relazioni, gli incontri, i dialoghi, come quello analitico, intrattenuti fino all’ultimo, capaci di favorire la trasformazione.
Lucia Monterosa ci offre una rassegna di “autori che hanno attraversato il tema della morte e la precarietà della vita”, la vulnerabilità umana: da Saramago a Munro, Tolstoj, Camus, infine Schur, medico di Freud, autore di una biografia in cui ha reso conto del modo in cui il padre della psicoanalisi ha saputo padroneggiare le situazioni più difficili impedendo che diventassero traumatiche. Ci dà così un esempio di come la capacità di amare e godere la vita possa mantenersi fino all’ultimo.
Il volume si chiude con il contributo di Rita Corsa, per certi versi sorprendente, che prende di petto una questione scottante: la fantasia onnipotente di eliminare la morte - angoscia da cui individuo e società da sempre si difendono con le armi che possiedono (tecnologia e biotecnologie, nella nostra epoca) -, sta facendo aumentare la fascia di popolazione nella terza e quarta età a cui, però, fa subire una sorta di emarginazione. Nello stesso tempo, i giovani stanno diventando una specie in estinzione (Fukuyama).
Corsa ci accompagna in una rassegna dei tentativi di trionfo sulla morte, falliti, inutile precisarlo, che caratterizzano il mondo presente; in particolare la corrente del transumanesimo, nata negli anni ’20 e sviluppatasi tumultuosamente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con l’obiettivo ultimo di realizzare una post-umanità composta di superuomini, immuni alle malattie, al deterioramento, alla morte. Sembra quasi fantascienza e se Corsa ne parla è perché i progressi scientifici e tecnologici stanno rendendo sempre più avvicinabile il sogno antico di rimandare la morte, producendo un effetto di cui siamo testimoni: una interminabile vecchiaia, senza rispetto per le sue condizioni. Questa tendenza si muove nella scia della fantasia di un mondo globalizzato senza confini dove non esistono intoppi all'onnipotenza, alla grandiosità umana. In sostanza, un processo di disumanizzazione a cui la psicoanalisi, insieme ad altre forze dell’umano, potrà, auspicabilmente, fare da argine.
Prima di concludere invitando alla lettura di Vecchiaia e psicoanalisi per l’importanza e l’interesse che le considerazioni sull’avanzare dell’età rivestono per la nostra disciplina sul piano clinico e deontologico, mi piace ricordare le parole di Ferenczi, sempre innovative e stimolanti:
“[…] immaginavamo che il massimo della vita coincidesse col suo inizio [e che] quest’istinto sarebbe poi sceso a un punto zero con l’avanzare dell’età. Ma sembra che le cose stiano altrimenti […] il lattante è molto più vicino alla non esistenza individuale di quanto lo sia l’adulto, che ne è separato dall’esperienza della vita […] solo nella maturità, in sostanza, l'istinto di vita arriverebbe a equilibrare le tendenze distruttive” (1929).
Bibliografia
DE BEAUVOIR S. (1970). La terza età. Einaudi, Torino, 1971.
EGIDI MORPURGO V. Non solo giardinetti. Ageing e psicoanalisi oggi. In: Centro Milanese di Psicoanalisi-SPIweb, www.cmp-spiweb.it/non-solo-giardinetti-ageing-e-psicoanalisi-oggi/
FERENCZI S. (1929). Il bambino indesiderato e il suo istinto di morte. In: G. Carloni, E. Molinari (a cura di), Fondamenti di psicoanalisi, vol. III. Guaraldi, Bologna, 1974, 360-365.
ROBUTTI A. (2009). Quando il paziente perde l’analista. Riv. Psicoanal., 3, 571-590
Il volume esplora il tema della vecchiaia in una prospettiva psicoanalitica. L’ultima fase della vita è stata poco esplorata dal pensiero freudiano, benché si tratti di un periodo profondamente trasformativo del ciclo umano. La senilità è fatta di perdite e di lutti, ma pure di una tensione a riannodare i fili della propria storia e a prepararsi all’oltre. La psicoanalisi può accompagnare e aiutare l’individuo anche in questa parte finale della vita? È possibile un trattamento analitico in tarda età?
Il volume raccoglie la voce di diversi psicoanalisti, impegnati a indagare sul versante teorico e su quello clinico la dimensione e l’esperienza dell’invecchiamento nella contemporaneità.
Qui di seguito postiamo la recensione al libro di Silvia ANFILOCCHI, psicologa, psicoanalista SPI e IPA, psicoterapeuta di gruppo APG-COIRAG.
Per ulteriori approfondimenti si rimanda a:
https://www.cmp-spiweb.it/vecchiaia-e-psicoanalisi-recensione-del-libro/
Recensione di Silvia ANFILOCCHI al libro Vecchiaia e Psicoanalisi a cura di Rita Corsa, Lucia Fattori, Gabriella Vandi
(Alpes, Roma, 2020, pagg. 191, €. 17,00)
“L’età si impadronisce di noi di sorpresa” - scrisse Goethe e Simone de Beauvoir, da cui è tratta la citazione, conferma che “La vecchiaia è un destino, e quando si impadronisce della nostra vita ci lascia stupefatti” (1970).
Gli psicoanalisti non possono lasciarsi sorprendere da un fenomeno che sta assumendo dimensioni importanti e questo libro ha il grande merito di occuparsi dell’avanzare dell’età con tutti i suoi, inevitabili per quanto sgradevoli, corollari. Un argomento rimasto a lungo marginale nella cultura occidentale. Molti campi del sapere, infatti, l’hanno trascurato, come se fosse un resto improduttivo, forse anche sgradevole.
Oggi la vecchiaia è un “lungo periodo da vivere”, come dice De Masi citando una statistica dell’OMS secondo cui tra una trentina d’anni “il numero di ottuagenari è destinato a triplicare”. Da vivere a lungo e, possibilmente, bene, mi piace aggiungere, perché è un tempo della vita che non si solo si è dilatato rispetto al passato, ma che può essere anche attivo, innovativo e soddisfacente sul piano personale e sociale.
La scelta delle curatrici è stata coraggiosa già nel titolo. Un titolo forte, violento, schietto, che non si nasconde dietro formulazioni politically correct. Scrivono: vecchiaia; usano la parola che, secondo Sophie De Mijolla, in sé voca l’ansia della perdita: prima delle capacità fisiche, poi intellettuali, mentali e, infine, della vita stessa.
Valeria Egidi Morpurgo, che molto si è occupata dell’argomento, impegnata anche in gruppi di studio internazionali, preferiva usare l’inglese ageing per mettere in primo piano l’aspetto “processuale”, fisiologico che caratterizza questo momento della vita. Invece, Rita Corsa, Lucia Fattori e Gabriella Vandi ci mettono di fronte a qualcosa che tutti temiamo e presentandocela già dalla copertina, con colori e caratteri che richiamano il sapore di “un tempo antico” e ricordano vecchie edizioni cariche di storia e di sapere, meno variopinte e seduttive dei volumi che popolano le librerie contemporanee.
Scelta coraggiosa e prospettica, lungimirante quella delle curatrici, che si sono impegnate nella scrittura e nella selezione dei ricchi contributi al tema, confermando l’ipotesi di Marta Badoni che attribuisce alla “tenacia di alcune psicoanaliste” l’accresciuta attenzione a questi argomenti (avanzare dell’età, malattia, pensionamento, morte di analisti e pazienti), richiamo necessario ma da molti rifiutato. Forse perché le donne sono “più abituate a pensare che nascere comporta anche morire”.
Gli autori di Vecchiaia e psicoanalisi sottolineano, commentano e si interrogano sulle ragioni della scarsa attenzione che il pensiero psicoanalitico ha dedicato al tema.
Sulla cosiddetta terza età, infatti, per molto tempo la psicoanalisi “non ha riflettuto […] compiutamente, come ha fatto per la vita adulta e infantile” (De Masi), pur essendo molte e crescenti le necessità di aiuto psicologico delle persone che in questa fase della vita si trovano ad “affrontare problemi emotivi sconosciuti”. Molti ne rinvengono la causa nella posizione di Freud che ci ha trasmesso l’idea che la cura analitica in età avanzata sia meno efficace; anche se, come ricordano Balsamo nelle pagine introduttive e altri più avanti, questo limite si è spostato con l'avanzare dell'età dello stesso Freud.
Abraham e poi Segal e Balier, che inizieranno a ritenere possibile il lavoro analitico a qualunque età, evidenziano che la plasticità psichica dipende più dalle caratteristiche individuali che dalla fase di vita del paziente e che conta più “l'età della nevrosi che l'età del nevrotico”.
Il problema, viceversa, non si era mai posto per l’analista, anche questo, forse, come conseguenza dell’esempio di Freud che ha lavorato fino all’ultimo nonostante la malattia e il dolore che lo tormentavano. Siamo abituati a pensare la psicoanalisi sia un mestiere di vecchi e, a differenza di quanto accade per altre discipline, credo che molti pazienti cerchino ancora e si sentano protetti dall’affidabilità, l’esperienza e la moderazione di cui la cultura fa credito agli (analisti) anziani, ancorché lucidi e freschi nel pensiero, di cui la nostra società è felicemente popolata.
Ma la questione, appunto, non è eludibile da nessuna delle due parti: se l’età dei potenziali pazienti in cerca di aiuto aumenta, gli psicoanalisti non sono risparmiati dal deterioramento fisico e psichico che, se non prevenuto e monitorato, può disturbare la relazione con analizzandi e supervisionati.
Sono contenta che il nostro training ci abbia sensibilizzato al tema sin dai primi seminari tenuti, nel mio anno di corso, dall’amata Marta Badoni che, con il garbo e la sagacia per cui la conosciamo, ci ha allertato sui rischi insiti in una professione che ha bisogno di solitudine per poter essere svolta al meglio ma che, proprio per questo, potrebbe avere ripercussioni pericolose sui pazienti, se non riusciamo mantenere fino all’ultimo relazioni libere, sincere, fidate con persone che ci espongono al confronto con i nostri limiti.
Venendo più direttamente ai contenuti del libro, Vecchiaia e psicoanalisi si presenta stimolante a partire dalla ricca e dotta prefazione che lo introduce.
Maurizio Balsamo, sempre profondo nelle sue osservazioni, come sopra anticipato, ci conduce a considerare che l’avventura psicoanalitica può offrire a pazienti di qualunque età l’occasione di iniziare, o di riprendere, un movimento verso la vita sbloccando, liberando, rivitalizzando energie ferme. La vecchiaia, infatti, pur associandosi al declino della forza fisica e all’aumento di patologie, non coincide necessariamente con un senso di “depauperamento e di designificazione progressiva” e negli anziani continua ad essere viva la possibilità di riprendere in mano il proprio destino, il senso della propria esistenza, il desiderio di fare i conti con questioni che li hanno tormentati nei periodi precedenti. Anzi, per alcuni l’elaborazione necessaria per appropriarsi dell’eredità ricevuta diventa possibile solo dopo una certa, anche tarda, età.
Secondo Balsamo, per lavorare con pazienti anziani non è necessario che l’analista abbia un’età non troppo distante; valuta, infatti, che, molto più dell’esperienza diretta degli eventi, sia la “disponibilità a spingerci verso ciò che non conosciamo, non possediamo, o abbiamo conosciuto nei processi identificatori primari” ad aiutarci nella comprensione di una vicenda psichica. Posizione non pienamente condivisa da De Masi secondo il quale per comprendere la vecchiaia è necessario averne fatto un’esperienza personale.
La prima parte del testo inverte i termini del titolo: diventa Psicoanalisi e vecchiaia e ci introduce alle interpretazioni psicoanalitiche di questa fase della vita.
Nel primo capitolo, Ezio Maria Izzo ci segnala un “fraintendimento che spesso accompagna le riflessioni sulla vecchiaia”: ritenere che le persone anziane abbiano caratteristiche di personalità comuni; come se esistesse un modo di invecchiare, un modo di essere vecchi uguale per tutti. Luogo comune antipsicoanalitico, perché non possiamo pensare che esista l’“anziano”. Piuttosto, noi incontriamo quella specifica persona anziana che si rivela nella sua unicità, nell’incrocio delle sue dimensioni biologiche, soggettive, storiche e culturali. Izzo approfondisce queste ultime e approda a una teorizzazione della terza età, estendendo a questa fase della vita i tipi libidici freudiani.
Una commovente citazione di Camus, che considera terribile per i vecchi il fatto di non trovare più nessuno disposto ad ascoltarli, introduce il tema della solitudine, particolarmente dolorosa per molte persone anziane, soprattutto se sono sopravvissute a familiari e amici. Izzo ci porta così a comprendere come solo chi sia riuscito a superare il lutto narcisistico possa trovare “una prosecuzione nel passaggio silenzioso alle generazioni future”: la trasformazione della libido dell’Io in una sorta di dono che si trasferisce ad altri, come tramanda poeticamente la sapienza popolare orientale, che sentenzia che “si può lasciare serenamente il proprio tempo se si è piantato un albero, oppure avuto un figlio, o scritto un libro”.
Gabriella Vandi, che scrive nella primavera del 2020, quando l’Italia si è trovata nella prima emergenza sanitaria causata dalla diffusione del virus SARS-CoV-2, riflette l’esperienza che ha infranto l’illusione di onnipotenza e che, soprattutto nel nostro Paese, ha duramente colpito la fascia di popolazione più avanti nell’età. Ciò l’ha spinta ad approfondire una ricerca sull’idea di vecchiaia di Freud, in particolare della sua vecchiaia e della fine della vita.
Se nel 1915 Freud affermava che “non c’è nessuno che in fondo crede alla propria morte, o, detto in altre parole, nel suo inconscio ognuno di noi è convinto della propria immortalità”, ma anche “Si vis vitam, para mortem. Se vuoi poter sopportare la vita, disponiti ad accettare la morte”, con l’avanzare dell’età aveva sempre più in mente l’idea della propria fine e, dal 1923 in avanti, soprattutto dopo la scoperta del male che gli infliggerà tante sofferenze, nei suoi testi e nelle lettere (con Lou Salomé che scompare prima di lui pur essendo di sei anni più giovane) sono numerosi i riferimenti alla malattia e alla morte. Freud, tuttavia, non smetterà mai di lavorare e scrive fino all’ultimo, sostenuto dalla forza originata dall’interesse per il futuro del movimento da lui fondato, il desiderio della prosecuzione, la determinazione a fare in modo che gli sopravvivesse.
Le pagine di Lidia Leonelli si avviano con un racconto nostalgico del mondo dei vecchi, visto con gli occhi di lei bambina che incontra persone di più generazioni e ascolta le storie degli adulti che parlano della loro infanzia. Una narrazione che si mantiene dolce e serena nonostante i dolorosi vissuti di perdita e le vicende drammatiche che hanno segnato grandi e piccoli. La generosità di questa self-disclosure mostra come “tra le generazioni passa anche quella linfa che ci aiuta a vivere, e che continuamente scorre attraverso le relazioni tra le persone, all’interno della famiglia”. Del resto, il titolo del suo capitolo, Vecchi e bambini: come si tramanda la forza di vivere. Note sul transgenerazionale positivo, contiene proprio ciò che manca a molti pazienti che si sentono, a torto o a ragione, vittime predestinate, costrette a raccogliere un’eredità pesante che li fa sentire incatenati a un destino non trasformabile.
Leonelli riprende così il monito di Freud, già ricordato da Vandi, e ci rammenta che “vita piena non significa assenza della morte, ma capacità di accettarla senza negarla e senza avere la necessità di metterla in un altro, nell’illusione di liberarsene per sempre. […]. Accettare il limite insito nella vita, quel limite già presente quando nasciamo, rende possibile sviluppare al massimo la nostra potenzialità creativa, che ci fa assomigliare, di volta in volta, come i figli liberi, a chi ci ha dato la vita”.
Nella seconda parte, Analisti anziani e pazienti anziani, Marta Badoni si occupa dei primi. Nel suo contributo, che si chiude con la toccante interpretazione di un incidente occorsole, ci invita a pensare al pensionamento dell’analista; esito che, difficilmente, viene preso in considerazione, soprattutto da chi ha molto investito sulla professione praticandola con passione e dedizione, a volte anche sacrificando altri aspetti della vita personale e familiare. Quello dell’analista è un lavoro in cui si continua a imparare, migliorare, approfondire e, quindi, in qualche modo, fa sentire sempre in fase di crescita e sviluppo. L’analista, però, non è invulnerabile e neppure eterno, ci ricorda Badoni; per svolgere il suo compito e mantenersi “custode del setting” non può denegare le “turbolenze minacciose, le lacerazioni, i dolori che incombono sulla coppia analista/paziente” nel caso di una sua malattia, “le possibili conseguenze fatali della stessa o di una sua morte improvvisa. Stante l'unicità del rapporto che lega analista e paziente […] (la loro relazione) se interrotta, lascia quest’ultimo in una ‘solitudine che non assomiglia a nessun’altra’ (Robutti, 2009)”. La salvaguardia del setting, che Badoni ci ha insegnato a considerare come “braccia pensanti”, richiede anche una certa forza: la capacità di compiere uno sforzo muscolare senza mai smettere di pensare.
Sul lavoro clinico con i pazienti anziani intervengono Franco De Masi e Lucia Fattori.
De Masi, alla luce della sua esperienza, ci informa che preferiscono essere ascoltati da chi sa cosa significhi vivere quella condizione quindi, pur senza affermare che il terapeuta debba necessariamente avere un’età pari a quella del suo paziente, e senza negare che molti giovani analisti sappiano trattare con successo pazienti più anziani di loro, pensa che per lavorare con persone in età avanzata, l’età del terapeuta sia una variabile fondamentale. Citando Nina Coltart, ci avverte che la terapia dei pazienti anziani, soprattutto se la loro “sofferenza è centrata sul problema di una vita che si avvicina alla fine e che ha perso la qualità e il fascino del passato”, richiede una capacità di identificazione ed empatia che non può essere sempre presente nelle persone più giovani. Grazie all’impegno profuso in anni recenti con pazienti in tarda età, che egli stesso definisce soddisfacente e remunerativo, De Masi ci aiuta a distinguere il tipo di trattamento più indicato per le persone in là con gli anni che si rivolgono a un analista, spesso sollecitate dai medici curanti o dai parenti, e ci suggerisce alcune modificazioni tecniche riccamente illustrate nella presentazione di cinque interessanti casi clinici.
Fattori riflette e analizza le ripercussioni emotive che la diffusione del coronavirus ha avuto su alcuni pazienti anziani in trattamento con lei, che sono riusciti a proseguire il lavoro terapeutico utilizzando mezzi tecnologici. Le considerazioni di Lucia, impossibili da riassumere in poche righe, rintracciano peculiarità e differenze tra le persone in analisi e in psicoterapia, riconducibili alle caratteristiche e disponibilità soggettive oltre che alla qualità del lavoro, cogliendo i cambiamenti tra la prima seduta da remoto e una successiva a distanza di un mese.
Il libro si chiude con una terza parte Quale vecchiaia? che getta uno sguardo su modi diversi di invecchiare.
Sophie De Mijolla distingue tra l’invecchiamento normale e quello patologico a partire dal fatto che l’“esperienza di perdita è già iscritta nella psiche di ogni soggetto a seguito dell’esperienza della nascita, […] trauma per la perdita della protezione fornita dall’ambiente uterino iniziale e per la violenza dell'espulsione” - prima di tante perdite a cui, comunque, mai ci si abitua - che rende “la rappresentazione della morte non […] quella di una calma sonnolenta, ma di una rottura radicale e di un’impossibilità di ritorno: un mai più”. Affermazione perentoria che contrasta con quel “per oggi ci fermiamo qui”, ricordato da Badoni, che segna la fine di tante sedute riscaldate dalla certezza che una successiva seguirà e un’altra ancora e così via per tutto il tempo che sarà necessario, come abbiamo imparato a credere che sarebbero durate le nostre analisi, come pazienti e come analisti.
Il capitolo si chiude con un’utile e benaugurante distinzione tra i vecchi, coloro che sentono e soffrono innanzitutto le perdite (ad esempio chi si identifica nella propria posizione professionale), e gli anziani, “che trovavano naturalmente il loro posto in un ciclo iniziato prima di loro”. “Se il soggetto si basa su se stesso, il desiderio che lo proietta in avanti gli consentirà di catturare sempre qualcosa al volo, a qualsiasi età. La vecchiaia non può alterare la gioia di vivere e conoscere, la passione per la vita” sono le parole con cui mi piace pensare al tempo che, inesorabile, passa lasciando dei segni, ricordando che “Eros […] sa solo investire […] fino all’ultimo respiro, utilizzando le risorse inesauribili della sublimazione”.
Le narrazioni di Carla Busato Barbaglio ci presentano tre modi di invecchiare senza smettere di apprendere e di trovare nuove risposte e soluzioni: una anziana signora in terapia; le rivelazioni di una grande vecchia, Rossana Rossanda, la ragazza del secolo scorso, come lei stessa si era definita, a confronto con i rimpianti e i rimorsi che possono affacciarsi alla mente quando si guarda al passato; Freud, anziano e malato, che continua a “preferire l’esistenza all’estinzione” pur riconoscendo che “la vecchiaia, con suoi disagi manifesti, arriva per tutti”.
Tre esempi di vite ricche che si sono mantenute tali nel tempo, grazie alle relazioni, gli incontri, i dialoghi, come quello analitico, intrattenuti fino all’ultimo, capaci di favorire la trasformazione.
Lucia Monterosa ci offre una rassegna di “autori che hanno attraversato il tema della morte e la precarietà della vita”, la vulnerabilità umana: da Saramago a Munro, Tolstoj, Camus, infine Schur, medico di Freud, autore di una biografia in cui ha reso conto del modo in cui il padre della psicoanalisi ha saputo padroneggiare le situazioni più difficili impedendo che diventassero traumatiche. Ci dà così un esempio di come la capacità di amare e godere la vita possa mantenersi fino all’ultimo.
Il volume si chiude con il contributo di Rita Corsa, per certi versi sorprendente, che prende di petto una questione scottante: la fantasia onnipotente di eliminare la morte - angoscia da cui individuo e società da sempre si difendono con le armi che possiedono (tecnologia e biotecnologie, nella nostra epoca) -, sta facendo aumentare la fascia di popolazione nella terza e quarta età a cui, però, fa subire una sorta di emarginazione. Nello stesso tempo, i giovani stanno diventando una specie in estinzione (Fukuyama).
Corsa ci accompagna in una rassegna dei tentativi di trionfo sulla morte, falliti, inutile precisarlo, che caratterizzano il mondo presente; in particolare la corrente del transumanesimo, nata negli anni ’20 e sviluppatasi tumultuosamente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, con l’obiettivo ultimo di realizzare una post-umanità composta di superuomini, immuni alle malattie, al deterioramento, alla morte. Sembra quasi fantascienza e se Corsa ne parla è perché i progressi scientifici e tecnologici stanno rendendo sempre più avvicinabile il sogno antico di rimandare la morte, producendo un effetto di cui siamo testimoni: una interminabile vecchiaia, senza rispetto per le sue condizioni. Questa tendenza si muove nella scia della fantasia di un mondo globalizzato senza confini dove non esistono intoppi all'onnipotenza, alla grandiosità umana. In sostanza, un processo di disumanizzazione a cui la psicoanalisi, insieme ad altre forze dell’umano, potrà, auspicabilmente, fare da argine.
Prima di concludere invitando alla lettura di Vecchiaia e psicoanalisi per l’importanza e l’interesse che le considerazioni sull’avanzare dell’età rivestono per la nostra disciplina sul piano clinico e deontologico, mi piace ricordare le parole di Ferenczi, sempre innovative e stimolanti:
“[…] immaginavamo che il massimo della vita coincidesse col suo inizio [e che] quest’istinto sarebbe poi sceso a un punto zero con l’avanzare dell’età. Ma sembra che le cose stiano altrimenti […] il lattante è molto più vicino alla non esistenza individuale di quanto lo sia l’adulto, che ne è separato dall’esperienza della vita […] solo nella maturità, in sostanza, l'istinto di vita arriverebbe a equilibrare le tendenze distruttive” (1929).
Bibliografia
DE BEAUVOIR S. (1970). La terza età. Einaudi, Torino, 1971.
EGIDI MORPURGO V. Non solo giardinetti. Ageing e psicoanalisi oggi. In: Centro Milanese di Psicoanalisi-SPIweb, www.cmp-spiweb.it/non-solo-giardinetti-ageing-e-psicoanalisi-oggi/
FERENCZI S. (1929). Il bambino indesiderato e il suo istinto di morte. In: G. Carloni, E. Molinari (a cura di), Fondamenti di psicoanalisi, vol. III. Guaraldi, Bologna, 1974, 360-365.
ROBUTTI A. (2009). Quando il paziente perde l’analista. Riv. Psicoanal., 3, 571-590
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