Dialogo tra Sarantis Thanopulos e Luigi Maria Sicca
Luigi Maria Sica: “In questo strambo 2020 spesso si distingue tra Natura (il salto di specie dal pipistrello, forse, all’homo sapiens) e Cultura, quindi risposte sanitarie e politiche. Perché, con un pizzico (o qualcosa in più) di antropocentrismo, si considera l’Economia un costrutto sociale, in opposizione alla natura. Questa impostazione (ma noi animali umani siamo innaturali?) sussume, uno per tutti, la capacità di elaborare simboli: da riconoscere la nostra immagine allo specchio, gesto quotidiano, fino alla produzione di moneta, artefatto per mediare lo scambio, superato il baratto. Lo stesso concetto di mercato è una astrazione e i mercati finanziari, poi, lo sono ancor di più, sul registro di categorie come aspettativa, proiezione nel futuro, probabilità, incertezza, guadagno, valore. E i valori? La risposta ruota intorno ad altre due parole: utilità e lutto. Ogni teoria economica, da quella di Adam Smith, seminale e costola della Filosofia Morale, alle più recenti, spesso premiate con il Nobel, dice di una frizione tra queste due polarità: la prima associabile verde (non troppo scuro), colore della speranza, il secondo, al nero. In tempi di pandemia abbiamo l’opportunità di rivedere un vocabolario apparentemente inscalfibile e le nuance di queste tinte. Perché il lemma “Economia” dice contestualmente – qualunque sia l’epistemologia sottostante a questo o a quell’approccio teorico e alle decisioni politiche che ne derivano – sia di una “economia interna”, sia di quella che leggiamo sui manuali o insegniamo ai nostri studenti all’Università. Penso che il significato ambiguo (nel senso proprio di due) dell’Economia, riapra la questione di un governo del mondo, ineludibile per l’agenda internazionale, senza poter prescindere dal principio di soggettività nei processi di elaborazione dell’odierna sospensione dal senso comune. Paradossale, sì, per questo potrebbe tornare “utile”.
Sarantis Thanopulos: “La distinzione tra Cultura e Natura è tornata in auge. Per dirci che dobbiamo riconsiderarla da capo. A partire dalla distinzione tra bisogno e desiderio e tra le due diverse relazioni con la natura a cui essi corrispondono. L’appagamento del bisogno mira alla stabilità omeostatica dell’organismo, ha un carattere adattivo che ha portato progressivamente, nel corso della storia umana, dal cercare di adeguarsi alla natura allo sforzo di sottometterla, dominarla. Perché la logica dell’adattamento è cieca: insegue in modo autoreferenziale l’evitamento delle tensioni sgradevoli e la sicurezza. Il bisogno si adatta sempre a se stesso.
Il desiderio si soddisfa nel dialogo tra stabilità e destabilizzazione, implica un funzionamento psicocorporeo trasformativo. Vive in sintonia con la natura, si modula sulla scoperta e sul rispetto del suo “idioma”, da cui apprende, la usa senza manipolarla. Il bisogno non crea esperienza, il desiderio la realizza come cultura di essere nella natura.
Queste differenze non siamo abituati a coglierle, perché nella nostra vita bisogno e desiderio si mescolano. L’appagamento del bisogno è la condizione oggettiva della soddisfazione del desiderio e, viceversa, il desiderio rende lungimirante la ricerca della sicurezza, allontanandola dal nascondere la testa sotto la sabbia. Più l’equilibrio si sposta nella direzione del bisogno, più il rapporto con la natura è affidato alla tecnologia, nella sua deriva di hybris, tracotanza distruttiva. Più si va nella direzione opposta, più la tecnologia è al servizio della cultura e del suo legame con la natura.
L’economia, in origine legge di distribuzione di risorse, ruoli, affetti all’interno della vita domestica, se, nel farsi carico del “governo del mondo”, prescinde dalla soggettività, dai desideri e dai sentimenti implicati nelle relazioni di scambio, agisce come forza di astrazione dell’esperienza che distrugge cultura e natura.”
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