Segue dalla parte I: . Poteva essere un anno come gli altri… – Ricorrenze – Ci hanno lasciato (Petrella. Galzigna. Zavoli) (vai all’inizio con il link)
Ex libris – Basterà il volgere dell’anno a lasciarci indietro dolori, amarezze, delusioni che questo 2020 ha comportato? E riusciranno i vaccini a liberarci dall’incubo che ha tanto complicato e appesantito le nostre vite? Beh, staremo a vedere; per intanto, non resta che augurare a tutti noi buona prosecuzione e proseguire con la segnalazione dei libri che questo 2020 lascia in eredità al 2021. Su venti di essi ci siamo già soffermati in occasione del mio intervento da remoto alla “XV Settimana della salute mentale” di Reggio Emilia, e non mi pare necessario ritornarci (segui il link). A queste venti si sono aggiunte poi strada facendo tre recensioni: quella della monografia collettanea Basaglia’s international legacy, curata da Tom Burns e John Foot per l’Oxford University Press (segui il link) e quella del volume La forza delle idee. Silvano Arieti: una biografia (1914-1981) di Roberta Passione per le edizioni Mimesis (segui il link), pubblicate enrambe su questa rubrica; e quella del volume di Ernesto Venturini Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia, scritto per le edizioni Armando, pubblicata sul sito del Forum per la Salute Mentale (segui il link) cui sono seguiti commenti di Peppe Dell’Acqua (segui il link) e Luigi Benevelli (segui il link).
Un altro testo pubblicato da Venturini quest’anno, dal quale partiremo, è Il sale e gli alberi. La linea curva della deistituzionalizzazione, edito da Negretto. Nel testo, edito una prima volta in Brasile nel 2016, Venturini racconta il processo di deistituzionalizzazione posto in essere a Imola, nel corso della dismissione degli ex Ospedali Psichiatrici della cittadina, tra 1987 e 1996. La deistituzionalizzazione è stata, allora, ripetere i gesti di vent’anni prima a Gorizia, e sono gesti che anche oggi sarebbe bene, in molte situazioni, conoscere e ripetere anche noi.
Ricordo che durante il convegno Isole. Percorsi delle difese e della libertà, organizzato da Antonio Slavich a Genova dall’8 al 12 ottobre 1992, ascoltai la relazione di Venturini, nella quale raccontava della “Ca’ del vento”, una casa famiglia aperta due anni prima e autogestita da un’associazione di pzienti, operatori e cittadini realizzata nell’ambito dell’operazione in atto di superamento degli ex ospedali psichiatrici di Imola. La cosa mi incuriosì, e gli chiesi i contatti per una visita. L’anno successivo dovevo recami, con l’assistente saniaria Vittoria Sira, a Budrio, per incontrare una donna di Vado Ligure ospite da una quarantina d’anni di una IPAB a seguito di una delle operazioni di sfoltimento di internati tranquilli che periodicamente avevano luogo negli Ospedali Psichiatrici (OP) genovesi, e organizzarne il rientro. Cogliemmo l’occasione per effettuare la visita e costatammo che sì, le cose erano effettivamente come Venturini le aveva descritte e gli ospiti della Ca’ del vento erano loro ad avere la chiave ed erano i committenti della cooperativa di servizi che forniva il personale necessario al suo funzionamento.
Non è stata del tutto una novità, quindi, per me la lettura di questo volume che raccoglie una serie conferenze tenute in Brasile sull’esperienza antiistituzionale italiana e rende conto del progetto complessivo nel quale l’esperienza della Ca’ del vento si inscrive.
Venturini, che ha lavorato a Gorizia e a Trieste, è chiamato a Imola dalla Regione Emilia Romagna nel 1986 per occuparsi della chiusura dei due ex OP della città. Certo si tratta, rispetto al superamento degli ex OP che ebbe luogo in tutta Italia alla fine degli anni ’90, di una condizione resa eccezionale dall’impegno delle istituzioni, Regione e Comune, che investirono nel progetto cogliendovi una opportunità doverosa di progresso civile e credendoci, e non obtorto collo, sotto la minaccia di tagli nel finanziaento, come avvenne in altri casi. E anche per la ricchezza in “capitale sociale” della cittadina, che presenta un contesto favorevole con l’alto numero di cooperative e associazioni, e il basso tasso di disoccupazione e disuguaglianze.
L’importanza del volume mi pare stia soprattutto nel dimostrare come anche il superamento degli ex OP che ebbe luogo oltre vent’anni dopo l’esperienza di Gorizia e dieci dopo l’approvazione della Legge 180, avrebbe potuto – se affrontata per tempo e con la giusta capacità progettuale – guardare a Gorizia, replicarne sostanzialmente i gesti e costituire un’effettiva deistituzionalizzazione.
Può cambiare il contesto infatti, viene da pensare leggendo il libro, ma i gesti della deistituzionalizzazione quelli sono, e di lì bisogna necessariamente passare ogni volta.
Il testo si apre dunque interrogandosi sul concetto di deistituzionalizzazione attraverso i diversi autori che se ne sono occupati dopo Basaglia e, in sintesi, mettendo in luce da un lato il tentativo di evitare il ricorso all’istituzione che nasce dalla consapevolezza dei suoi potenziali effetti deleteri (istituzionalizzazione) e dall’altro quello di affrontare i problemi attraverso un approccio non convenzionale, non scontato, critico, creativo, flessibile.
Comincia quindi la presentazione del “Progetto Valerio”, che prende il nome da un cerebropatico grave con il quale – a partire dal rifiuto della soluzione più semplice, la contenzione fisica – un’esperienza difficile ma entusiasmante di riabilitazione a partire dai gesti più semplici condotta faticosamente giorno dopo giorno ebbe successo, e ha come finalità il superamento completo degli OP di Imola realizzato nel 1996.
Vent’anni dopo si ripetono dunque i gesti di Gorizia: l’individualizzazione di ciò che prima era affrontato in modo seriale, il lavoro sulle capacità, i gesti fondamentali della deistituzionalizzazione (i vestiti, le posate, la dignità degli spazi, la riconnessione al tessuto affettivo e familiare, il soggiorno vacanza, la festa aperta alla partecipazione della città, l’evento eccezionale come in questo caso l’udienza con papa Giovanni Paolo II). Come a Gorizia, centrale è il rapporto tra corpo e istituzione e Venturini allude al fatto di mangiare con gli internati, dormire tra gli internati.
È interessante il confronto che propone tra l’esperienza di Imola e il Taps Project di Londra, un’esperienza di deospedalizzazione realizzata nello stesso periodo e a partire da condizioni simili, perché, ritornando con la mente alla dismissione degli ex ospedali psichiatrici nella propria realtà, ciascuno può riflettere sulle scelte che sono state operate e le caratteristiche che esse hanno in comune con Imola o con Londra.
Seguono pagine stimolanti dedicate al rapporto tra la deistiruzionalizzazione e una sorta di semeiotica dello sguardo, e poi all’importanza dei giovani operatori delle cooperative, la scelta di immettere i giovani nell’ex OP per consentire ai vecchi operatori di sperimentare situazioni nuove, l’immissione di giovani volontari stranieri (brasiliani), il tutto per animare, riscaldare, rendere vivo (originale, divertente anche) ciò che pareva definitivamente consegnato alla cronicità. Un condimento, quello brasiliano della deistituzionalizzazione a Imola che è oggetto poi di una sorta di appendice condivisa con Maria Stella Brandão Goulart, e Adelaide Lucimar Fonseca Chaves.
La preoccupazione è che, in mancanza di esperienze di questo genere nella loro formazione – scrive Venturini ricorrendo a una metafora da Saint-Exupery – ai nuovi operatori «si insegnano le tecniche di costruzione della nave – l’appropriatezza, la managerialità, l’accreditamento – ma non si è in grado di trasmettere alle persone l’intenso amore per il mare».
Già, deistituzionalizzazione e accreditamento, psichiatria ed epidemiologia; sono molto belle le pagine dedicate all’ordine della casa, che deve essere quello liberamente scelto dagli ospiti, nche quando proprio ordine secondo i nostri criteri non è; alla gestione della cucina, che pone problemi con i quali ci confrontiamo anche nei nostri centri diurni. E Venturini cita l’architetto Giovanni Michelucci, per il quale: «non vi può essere un luogo predisposto per la follia – se mai possa esistere un tale luogo – se non dove il disagio psichico e coloro che in qualche modo con esso convivono, diventino protagonisti della ricostruzione di spazi».
È molto bello il ricordo del primo incontro con un paziente d’eccezione, Primo Vanni – autore di uno scritto autobiografico ripubblicato nel 1995 dall’editore “Sensibili alle foglie”, in una collana di autobiografie dal manicomio, con curatore assai più noto di lui alle cronache, Renato Curcio – con l’ammiccare dell’infermiere alle sue spalle alla ricerca di una complicità tra sani, che subito Venturini avverte incompatibile con la deistituzionalizzazione e sfugge puntando al rapporto diretto col soggetto e le cose che lo interessano. Ed è davvero ricca di poesia ed emozione la pagina del suo riaccompagnamento in visita a casa, nei luoghi che furono quelli di Dino Campana.
Non si tratta solo di riabilitare – o, come Venturini preferisce – “abilitare” il paziente: nella deistituzionalizzazione occorre anche por mano a “riabilitarci” – riabilitare cioè la nostra dis/abilità di terapeuti, il riduzionismo delle nostre pratiche (e mi torna in mente quando, con il gruppo che ha lavorato con me al Centro diurno nei primi anni 2000 avevamo intitolato una nostra riflessione “riabilitare il centro diurno”) – e “riabilitare la città”. Riabilitarla alla tolleranza e all’accoglienza del diverso, e anche del fastidioso, perché a volte tale è realmente – bisogna dirlo – il diverso.
Così, di fronte a un paziente che grida e disturba il vicinato, la soluzione rocambolesca individuata dal sindaco per mettere tutti d’accordo è acquistare una casa isolata, dove sia libero di gridare quanto ne ha necessità (abbiamo proprio in questo periodo un problema simile, ma temo che non avrà la stessa soluzione…). «Questo acquisto» – commenta Venturini – «ha significato un esborso di 249 milioni di lire da parte di quel Comune. È stato il prezzo per sanare una controversia. Paradossalmente è stato anche un modo per capire quanto valeva F. fuori dal manicomio!».
Ma sono anche altri i soggetti “di pubblico scandalo” che l’OP restituisce alla città nel momento in cui chiude e la psichiatria non si presta a chiuderli in altri contenitori, e che le chiedono che se ne lasci abitare. È molto bella e vera la storia di Iole che impatta nella città quando comincia a uscire liberamente dall’OP, con i suoi comportamenti stravaganti, inopportuni, disturbanti, e Venturini si chiede se è possibile che la città diventi anche “la città di Iole”, che sia capace di accoglierla senza chiuderla e senza farle male. E che diventi anche la città di tanti altri: di Alì (l’extracomunitario), di Mariolina (la bambina), di Giulio (l’handicappato fisico), di Johnny (il tossicodipendente), del signor Mario (l’anziano)? E tanti altri ancora che conosciamo e che potremmo aggiungere noi…
Sono problemi che hanno a che fare con la convisenza in genere tra le persone, ma si complicano nella città «e tuttavia, sempre più nel mondo la gente abita le città e fugge dai villaggi: questo dato può non piacere, ma è incontrovertibile e non si può certamente proporre il ritorno al villaggio premoderno. La questione semmai è un’altra: pensare alla città moderna come un insieme di villaggi, alleanza fra unità, corpi che vivano in spazi concreti e che si possano incontrare, toccare».
La deistituzionalizzazione, cioè, si può fare soltanto avendo per interlocutore il paese o il municipio, nelle grandi dimensioni è impossibile.
Ma sono anche altre le questioni che Venturini affronta senza reticenze, e vanno dall’ambiguità del ruolo sindacale che rischiano di assumere i familiari quando, attorno alla rappresentanza, rischiano di costruire «una loro professionalità ed un loro potere sociale». All’ambiguità dell’apprezzamento del mondo psichiatrico verso la rappresentanza dei pazienti mentali – «tipico di alcune società che esaltano il garantismo formale, ma che lasciano inalterato il manicomio e i circuiti della violenza istituzionale». Alle pratiche stesse della deisti-tuzionalizzazione, che Venturini sceglie di rileggere utilizzando come griglia cinque temi che riprende da Italo Calvino: “Leggerezza”, “Rapidità”, “Esattezza”, “Visibilità”, “Molteplicità”. Alla questione, ancora aperta in molte parti d’Italia, del riutilizzo delle aree degli ex OP che incontrò difficoltà anche in quello che per altri aspetti appare il fortunato caso di Imola: «nessuno dei progetti di riutilizzo culturale del Parco è andato in porto. Né soprattutto il progetto di farne un luogo della memoria, come da noi richiesto e come sembrava essere stato accettato dai politici e dagli amministratori. Sono prevalse logiche speculative, anche se è stata preservata una parte verde del parco e sono state parzialmente recuperate le biblioteche. È evidentemente questo, dal nostro punto di vista, un insuccesso della riabilitazione cittadina: testimonia l’ignavia di chi ha preferito far dimenticare un luogo di violenza e, soprattutto, il valore di una lotta collettiva di liberazione. Ben diversa è stata invece la scelta operata in altre realtà regionali (a Bologna con la Fondazione Minguzzi al Roncati, e a Reggio Emilia con il Museo del San Lazzaro)».
È una storia da non perdere, insomma, quella della psichiatria, e rimaniamo sugli stessi temi ma facciamo un passo indietro di secoli con il secondo libro che desidero presentare. Cinque anni fa avevo intitolato Psichiatri a scuola dai contadini? Il “miracolo” di Geel tra devozione, integrazione e terapia dei folli una mia ricostruzione sulla rivista “Humanitas” dei tratti essenziali della vicenda della cittadina belga nel suo rapporto con gli psichiatri. E oggi ho trovato di grande interesse il libro di Renzo Villa Geel, la città dei matti. L’affidamento familiare dei malati mentali: sette secoli di storia, edito da Carocci. Partendo dal viaggio a Geel nel 1838 di Giovanni Stefano Bonacossa, il primo italiano ad avere vent’anni dopo un insegnamento di psichiatria all’Università, Villa ricostruisce la storia di questo strano villaggio dal martirio della giovane Dimphna, collocato nel contesto di vicende analoghe tramandate dalla tradizione, all’origine del suo culto nel contesto delle conoscenze della follia che affondavano le radici nell’antichità greco-latina e sopravvivevano nel medioevo.
Villa penetra con grande precisione le storie toccanti di alcuni pellegrini che si snocciolano nei secoli, l’istituzionalizzarsi del rituale, le tensioni interne alla piccola comunità fiamminga intorno a questa pratica così particolare. E ricostruisce le vicissitudini della particolare cittadina nelle turbolenze tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, tra guerre, rivoluzione, impero, restaurazione in bilico tra il richio dell’abolizione dell’esperienza, quelli dell’istituzionalizzazione, i momenti di abbandono a se stesa e di disordine. È in quel periodo che si colloca la famosa vista a Geel di due dei più importanti alienisti francesi, Esquirol e Voisin, e anche il primo articolo che testimonia un’attenzione a Geel dall’Italia, datato 1826 e usccito sulla “Biblioteca italiana”, nel quale è interessante che si legga che: «Le città di Bruxelles, d’Anversa e molte altre di que’ paesi, invece di tenere i pazzi poveri chiusi in uno spedale, dove quasi sempre lo stato di que’ meschini non fa che peggiorare, li mandano a Gheel» proseguendo con la considerazione di «quale possa essere l’ifluenza che sopra ervelli stravolti o male organizzati esercitino la detenzione, la severità e spesso ancora la violenza propria degli stabilimenti» (p. 109); quasi un secolo e mezzo dopo Franco Basaglia – che pure come Villa ricorda da una testimonianza personale non amava Geel perché lo considerava un esempio di paternalismo – avrebbe fatto scandalo per aver detto cose infondo non poi tanto diverse. Ma, insieme, nell’articolo si osserva già il pregiudizio che ricorrerà poi lungo il secolo quando nel dibattito italiano si prenderà in considerazione il modello Geel come rimedio all’affollamento dei manicomi (come avvenne a Milano, ad esempio o a Genova): inapplicabile ai popoli latini nei quali la follia si accompagna a un temperamento più focoso rispetto a quello degli europei del nord. Anche a Geel non mancarono, peraltro, gli incidenti: così il 12 luglio 1844 è il borgomastro a essere ucciso da un alienato. Ma il modello Geel resiste anche a questo trauma come aveva resistito agli sconvolgimenti politici, e a partire dagli anni ’40 Geel diventa luogo di pellegrinaggio non più solo di alienati ma anche d’alienisti. Tra i primi è nel 1845 Moreau de Tours, che ne appare entusiasta; più scettico invece un altro dei principali alienisti francesi, Brierre de Boismont, turbato alla vista di alcuni ospiti incatenati e convinto che quel modello sia applicabile soltanto a cronici tranquilli. Saranno questi infondo i due poli opposti del dibattito su Geel che si svilupperà in tutta la seconda metà del secolo: alienati che sono protetti dai danni dell’istituzione psichiatrica grazie alla vita in condizioni normali e all’esperta tolleranza dei contadini; o alienati che devono essere protetti dalle violenze arbitrarie, dall’ignoranza e dall’avidità dei contadini grazie alla psichiatria istituzionale. E ancora: un modello che potrebbe essere applicato, a esserne capaci, a tutti gli alienati; oppure inapplicabile se non ai più tranquilli.Nel 1850, la legge belga sugli alienati riconosce la particolaree situazione di Geel, che l’anno successivo sarà oggetto di apposito regolamento e si avvierà verso una sempre più marccata medicalizazione. Poi Villa riassume il dibattito alla Société Médico-Psychologique del 1860, quello italiano tra i lombardi Biffi, Verga, Castiglioni; ma di Geel ormai si discute i tutto il mondo, e non solo tra i medici: alcune delle testimonianze che Villa riporta rivestono davvero un interesse straordinario per il confronto, tutt’altro che sopito, tra un approccio prevalentemente naturale, umano e un approccio prevalentemente tecnico-istituzionale alla follia. Da Geel passa il famoso alienista australiano George Alfred Tucker, autore di un’inchiesta mondiale, in quegli anni, sulle caratteristiche migliori per un manicomio, e ne rimane malamente impressionato; a Geel il padre e il fratello di Van Gogh vorrebbero che Vincent si recasse per un periodo di cura. Nonostante le opinioni su Geel continuino a divergere, si tenta di replicare l’esperienza o almeno organizzare forme di affidamento eterofamiliare, che trovano in Itali sostenitori tra i quali Augusto Tamburini, in Belgio, Francia, Olanda, ma anche in Giappone, dove nella tradizione autoctona del tempio di Iwakura si crede di individuare qualcosa di simile a Geel e altrettanto antico. Nel ‘900 Geel continua a essere studiata, dibattuta, fatta oggetto d’interesse da parte di viaggiatori, giornalisti, leterati come l’italiano Marino Moretti; attraversa il dramma delle due guerre, riesce a salvare miracolosamente dalla deportazione la quasi totalità dei suoi ospiti ebrei, ma dopo il 1945 la situazione cambia radicalmente. La trasformazione del mercato del lavoro, la meccanizzazione dell’agricoltura, l’introduzione degli psicofarmaci riducono notevolmente l’importanza dell’ospitalità dei folli nell’economia della cittadina, e il culto di Dimphna ha ormai un’importanza solo folkloristica. Poi, Villa prosegue riferendo dei tempi più recenti, quando cercando di costruire un delicato equilibrio e una non sempre facile integrazione tra la sua tradizione di ospità familiare della follia e la realtà istituzionale venutasi a creare dal dopoguerra, Geel tenta di proporsi oggi come riferimento per la “belanced care”, un modello di cura fondato sull’alternanza e l’integrazione appunto tra psichiatria e affidamento in famiglia; e così l’ho incontrata anchh’io quando le ho fatto visita nel 2005. Ho trovato, infine, molto interessanti le testimonianze che Villa raccoglie nelle ultime pagine nelle famiglie affidatarie, dalle quali emerge come ospitare per tempi anche molto lunghi persone estranee affette da disturbi mentali e di relazione anche gravi, non sia cosa né facile né banale. Come possano essere cioè complesse, nella quotidianità, le dinamiche di potere, che già possono esserlo nelle normali famiglie, all’interno della casa e come sia necessario misurarcisi per chi ospita; o come sia difficile su entrambi i versanti individuare la distanza giusta, l’equilibrio reciprocamente tollerabile tra il coinvolgimento affettivo, che è in qualche misura indispensabile e nasce da sé e il fatto di rimanere in qualche misura estranei o, ancora, il richio dell’inautenticità; o la difficile integrazione tra approccio umano e approccio tecnico al soffrire. Un gruppo di esperienze anche italiane ispirate all’esperienza di Geel, quello dell’IESA (Inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici), gestisce tramite la sezione torinese una rubrica su questa stessa rivista: I porti aperti (segui il link).
Rimaniamo in ambito di storia della psichiatria ma ritorniamo al tema della relazione tra psichiatria e prima guerra mondiale con Soldati e neuropsichiatria nell’Italia della Grande Guerra. Controllo militare e pratiche assistenziali a confronto (1915-1918), di Marco Romano, – uno degli autori del volume collettaneo I conflitti e i traumi che abbiamo già presentato (segui il link) – edito da Firenze University Press e disponibile in PDF (segui il link).
Nel testo, Romano ricostruisce in primo luogo l’evoluzione del dibattito storiografico recente sul rapporto tra guerra, mondo mentale e psichiatria a partire dagli anni ’60, e le principali questioni all’ordine del giorno nella discussione tra gli psichiatri durante la guerra e negli anni immediatamente precedenti su temi di grande rilevo, che vanno dall’effetto psicologico del trauma, al rilievo che assume a suo proposito la predisposizione, ai possibili significati della simulazione di malattia mentale nel corso della guerra ecc. Il materiale del quale si avvale riguarda due dei manicomi provinciali più prossimi alla zona di guerra, come il Sant’Artemio di Treviso e il San Servolo di Venezia, ma si estende poi al San Lazzaro e al Centro di Prima Raccolta di Reggio Emilia, che ha funzionato nell’ultimo anno di guerra, e a manicomi meno direttamente coinvolti, come quello di Arezzo e quello di Napoli. È molto interessante anche l’ultimo capitolo, nel quale Romano prende in esame tre dei centri neurologici aperti durante la guerra – furono in tutto una decina – a Milano, Ferrara e Arezzo per coglierne la caratteristica comune di aver costituito tentativi di rispondere a una stessa necessità, quella della neurologia di stabilire rapporti diversi con la psichiatria da una parte e la medicina interna dall’altra, affrancandosi da entrambi come scienza autonoma, e la grande importanza che ebbe, in tutti e tre i casi, la società civile mobilitata nello sforzo bellico nel sostenere i progetti. Ma erano anche profonde le differenze che la ricostruzione di Romano ha il merito di evidenziare. Se il centro di Milano, infatti, nel quale Carlo Besta ebbe la possibilità di occuparsi della sola patologia neurologica e consentire al suo interno lo sviluppo, grazie anche alla contingenza bellica, di una neurochirurgia di alta qualità, appare quello più moderno, gli altri due casi appaiono progetti più confusi. Quello di Ferrara guidato da Gaetano Boschi, poi trasferito a Bari dato l’avvicinarsi del fronte, per l’idea di porre – come sarebbe poi effettivamente avvenuto per qualche decennio anni dopo in Italia – il confine tra neurologia e psichiatria molto all’interno della seconda, accorpando sostanzialmente alla neurologia l’ampia area dei disturbi nevrotici e lasciando appanaggio della psichiatria la sola area delle vere alienazioni mentali e dei manicomi. E quello di Arezzo guidato da Arnaldo Pieraccini, per l’idea del tutto controcorrente in quel momento di evitare alla psichiatria e al manicomio la marginalizzazione cui cominciavano a essere ineluttabilmente condannati col trattenere la neurologia al loro interno (si tratta di un modello che mi è capitato di vedere applicato, in occasione del XII World Congress of Psychiatry del 2002, a Tokio, ma che non ebbe fortuna in Italia né credo in Europa con la neurologia tutta protesa verso la medicina).
Mi pare che, come Romano scrive, il passaggio da una visione d’insieme a studi sempre più dettagliati delle diverse realtà nelle quali ebbe luogo il difficile incontro tra guerra e psichiatria sveli la complessità delle situazioni e la difficoltà di dare giudizi e interpretazioni che valgano in modo generale; anzi, più gli studi proseguono direi, più dimostrano quanto la situazione sia difficile da riportare a una loettura unitaria. Contribuisce a questo, come ho accennato nell’introduzione al volume Il conflitto, i traumi paragonando i casi di Consiglio, Zanon Dal Bo’, Salemi, Colucci – tutti psichiatri implicati nell’assistenza ai militari – il fatto che uno stesso atteggiamento possa avere motivazioni diverse, o anche opposte. Ciò vale ad esempio per la scelta se prorogare le degenze, le licenze o aumentare le proposte di riforma; per quella se mantenere più o meno alta la soglia per le diagnosi psichiatriche e l’indicazione all’internamento (in Prticolare per ciò che riguarda i soggetti “asociali” che spesso già avevano avuto problemi con la giustizia in tempo di pace, allora considerati “degenerati”, che né l’esercito – dove era ancora vivo il ricordo della vicenda di Salvatore Misdea – né il manicomio volevano).
Rispondere poi, da parte degli psichiatri, in senso negativo a quello che era uno dei principali quesiti in quel momento – cioè se la guerra producesse o meno, sul piano qualitativo, patologie specifiche, a essa (e solo a essa) riconducibili, diverse dalla comune patologia mentale traumatica – non significava sostenere che la guerra non producesse, sul piano quantitativo, con maggiore frequenza rispetto alle situazioni di pace la comune patologia mentale traumatica (fosse essa sulla base, o meno, di predisposizione).
Se tante erano dunque le questioni che agitavano il dibattito tra gli psichiatri, anche per ciò che riguardava il soggetto uno stesso comportamento – come la diserzione, la fuga, la simulazione o il rifugiarsi nella nevrosi, fosse esso legato a spinte consce o inconsce, più o meno riconducibili a “patologia” – poteva nascere da sentimenti opposti, che però la cultura psichiatrica dell’epoca avrebbe considerato entrambi “degenerati” perché indegni dell’uomo sano, che doveva essere abbastanza coraggioso e violento per fare la guerra. Da un lato un sentimento egoistico, che spingeva a proteggersi e salvarsi, ed è quello cui Freud, dopo il 1917, attribuisce le nevrosi di guerra; o all’opposto un sentimento altruistico, che portava a rifiutare – più o meno consapevolmente – nella guerra la violenza fratricida verso il nemico. Ma anche, mettendo insieme entrambi questi sentimenti, da un desiderio complessivo di pace nel quale potevano coesistere, in proporzione variabile, l’uno e l’altro. Un desiderio di vivere e lasciar vivere, cioè.
Sono di grande interesse alcuni casi al centro della ricerca di Romano, come la diaspora cui diede luogo il trasferimento dei manicomi veneziani dopo Caporetto, cui tentò inutilmente di opporsi il direttore Cappelletti; o la polemica, riferita a inquadramenti diagnostici oppopsti delle stesse situazioni, tra Consiglio, direttore del Centro di Prima Raccolta, e Colucci, direttore a Napoli, il quale gli rivolgeva proprio le stesse accuse che lui, psichiatra militare, era solito rivolgere ai colleghi civili o mobilati in occasione della guerra.
Il volume di Romano ha infine, tra gli altri, il merito di tracciare interessanti profili biografici di alcuni dei direttori ai quali fa riferimento, e ho particolarmente apprezzato quelli dedicati ad Arnaldo Pieraccini, Cesare Colucci, Carlo Besta.
Altri volumi che mi incuriosiscono ma mi limito qui a segnalare sono Mais e pellagra. Storia della pellagra in Romagna di Giancarlo Cerasoli per le edizioni Il ponte vecchio; Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro di Giovanni Stanghellini per Feltrinelli; Storia critica della psicoterapia di Renato Foschi e Marco Innamorati, edito da Cortina; Storia della psicologia e della mente, dello stesso Renato Foschi, edito da Mondadori.
Vorrei poi segnalare l’uscita, a cura di Chiara Volpato e Luca Andrighetto, di un numero monografico della rivista Minority Reports, il n. 10, dedicato a Deumanizzare l’altro. Forme e declinazioni. Nel contributo che mi è stato affidato sulla deumanizzazione in psichiatria, a partire da una problematizzazione del concetto stesso di “umanità” ho fatto riferimento a vari passagi della storia della psichiatria da Von Galen, a Goffman e Basaglia, a un’analisi sotto questo profilo del film Family life, ma senza trascurare i rischi di deumanizzazione che anche oggi corriamo nei nuovi servizi. Flavia Albarello si occupa dell’animalizzazione come strumento per svilire l’umanità altrui; Maria Giuseppina Pacilli, Eraldo Cadeddu e Federica Spaccatini dell’oggettivazione sessuale; Cristina Baldissarri dell’oggettivazione nel lavoro; Roberta Rosa Valtorta di un tema quanto nessun altro attuale, quello della biologizzazione; Dora Capozza, Rossella Falvo Daiana Colledani della biologizzazione nei contesti medici; Mario Sainz, Rocío Martínez, Miguel Moya e Rosa Rodríguez-Bailón del mantenimento del gap socioeconomico attraverso l’anmalizzazione del povero e la meccanizzazione della salute; Patrizia Romano della deumanizzazione nella violenza contro le donne e Silvia Buzzelli del rapporto tra deumanizzazione, diritti umani e ius migrandi.
Il che ci collega alla sezione successiva di questa rassegna bibliografica, la cui lunghezza davvero mi imbarazza. Nonostante, ancora, sul Mediterraneo sia calato uno sterminato silenzio e le navi solidali siano quasi tutte in rada (ma è di questi giorni un salvataggio operato da Open Arms), le sue onde e le sue sponde continuano a essere disturbate dal solletico del silenzioso e faticoso brulicare dei percorsi dei migranti. E in molti studiosi non rinunciano a loro volta a un lavorio altrettanto incessante di studio e di denuncia. Abbiamo anticipato la segnalazione di quattro volumi relativi alle questioni migratorie, a partire da Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente scritto da Sandro Mezzadra ed edito da Meltemi, nell’intervento a Reggio Emilia. E a essi ora aggiungiamo: Underground Europa: lungo le rotte dei migranti di Luca Queirolo Palmas e Federico Rahola (Meltemi) nel quale gli autori propongono alla riflessione la storia della rete di assistenza degli schiavi in fuga dalle piantagioni del sud degli Stati Uniti verso il Canada a metà dell’Ottocento, la “ferrovia sotterranea”, con gli itinerari dei migranti oggi dal Paese d’approdo a quello di destinazione attraverso l’Europa, i percorsi e le stazioniche incontrano, le pratiche di solidarietà che incontrano, a proposito delle quali insistono sul carattere eterogeneo (che va dai giovani delle parrocchie, a quelli delle ONG, a quelli dei Centri sociali…) e l’importanza che al loro interno assumono l’autoorganizzazione tra i migranti stessi e la presenza femminile. Bucare il confine di Gabriele Proglio (Mondadori), del quale abbiamo già recensito un saggio su Fanon (segui il link), e Abitare la frontiera di Luca Giliberti (Ombre ccorte) raccolgono interviste inerenti il migrare rispettivamente a Ventimiglia e nella Val Roja; passi e sentieri percorsi nei secoli da anarchici, disoccupati, dissidenti politici, ebrei, partigiani che ora sono di nuovo testimoni di esperienze, dall’esito a volte drammatico, di attraversamento illegale del confine. Un territorio urbano dentro la città di Ventimiglia fatto di luoghi che tendono a riorganizzarsi e segregare gli spazi dove la vita della cittadina può proseguire e altri luoghi dove l’esperienza migrante e solidale, con le tante difficoltà dell’una e dell’altra e la persecuzione di cui sono entrambe oggetto, cercano di darsi a loro volta un’organizzazione.
È andato incontro a seconda ristampa per DeriveApprodi Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa nel quale Miguel Mellino rintraccia le radici della razzializzazione e della guerra ai migranti di oggi all’origine stessa di quel formarsi di una cultura europea dei diritti umani che non seppe da subito farsi “universale” ma nacque segnata dalla ferita del confine che prevedeva riconoscimento dei diritti per alcuni ed esclusione dai diritti per altri. Non stupisce allora che la conclusione di Mellino sia che tra le politiche migratorie liberali – interpretate per noi ad esempio dal decreto Minniti (segui il link) – e quelle sovraniste – interpretate qui dai decreti Salvini (segui il link) – ci siano certo importanti differenze di ordine quantitativo, ma sul piano qualitativo un’unica radice. Ed è quella separazione tra i diritti nostri e quelli degli altri, che diventa differenza di valore tra la vita nostra e quella degli altri e sta all’origine nell’incapacità dell’Europa moderna di parlare una lingua davvero universale, e uscire dal razzismo che le è intimament connaturato,.
Sono temi, tutti questi, che trovano una sorta di sintesi in un testo collettaneo in lingua inglese, e avere notizia della sua pubblicazione già in questi primi giorni del 2021 mi ha fatto piacere: Debordering Europe. Migration and Control across the Ventimiglia Region (Palgrade Macmillan). Il titolo parla da sé; i curatori sono Livia Amigoni, Silvia Aru, Ivan Bonnin, Gabriele Proglio, Cecilia Vergnano. Alla prefazione di Sandro Mezzadra segue la prima sezione dedicata alla prospettiva storica raccoglie contributi di Gabriele Proglio, Sandro Rinaudo e Marina Marengo; la seconda dedicata alle infrastrutture del confine raccoglie saggi di Ivan Bonnin, Marta Meghi, Giacomo Donadio; la terza dedicata agli attori sociali saggi di Livio Amigoni, Chiara Molinero e Cecilia Vergnano; Silvia Aru, Daniela Trucco, Luca Giliberti e Francesco Migliaccio. La postfazione è affidata a Luca Palmas e Federico Rahola, della cui attività sul tema abbiamo visto.
Dei cascami della questione coloniale si occupa Francoise Vergès con Un femminismo decoloniale, curato da Gianfranco Morosato (Ombre corte), nel quale l’autrice ricerca nella vicenda schiavistica del XVI secolo le origini di quella triplice oppressione di genere, di razza e di classe che caratterizza anche oggi tante lavoratrici straniere che negli Stati Uniti e in Europa si dedicano all’ingrato e malpagato compito di “pulire il mondo”: il che mi ha fatto da un lato riflettere sul fatto che anche nelle nostre realtà gran parte delle operaie nelle imprese di pulizia oggi è strraniera; e anche su come questa realtà sia stata oggetto di un bellissimo film di Ken Loach, Il pane e le rose, sul quale già ci siamo soffermati (segui il link). Si tratta di un compito che è divenuto tanto più prezioso (e anche pericoloso, però) nell’attuale pandemia. Nel raccontare vicende di oppressione nell’oppressione, che diventano a volte storie coraggiose d’insorgenza, Vergès non trascura il fatto che la relazione tra le diverse condizioni di oppressione, e perciò anche di rivendicazione, di genere, di razza e di classe non è lineare. Così talvolta proprio il maschio che ne condivide la condizione di razza e di classe è, in una complessa relazione tra i tre piani, il primo oppressore della donna; o la relazione tra movimenti femministi del nord e sud del mondo è sotto molti aspetti attraversata da incompatibilità e incomprensioni che hanno a che fare con la linea del colore e la lotta di classe. Su un altro dei temi dei quali non rinunciamo ad occuparci su questa rubric accanto a quelli di salute mentale, quello della penalità, Luigi Manconi e Federica Graziani hanno pubblicato Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale (Einaudi).
Nel testo, gli autori denunciano la ferocia che la penalità è andata assumendo negli ultimi anni, complici fenomeni e speculazioni interne al mondo giudiziario, a quello giornalistico, a quello politico. Potremmo citare, e gli autori citano, un’infinità di soggetti che hanno costruito carriere, fame nella predica moraliatica di una penalità priva di pietà e di perdono (salvo poi, in qualche caso trovarsi poi essi stessi vittima di quella stessa penalità). Il libro è quanto mai attuale, perché nei primi mesi dell’odierna pandemia, sono esplose improvvise (ma non imprevedibili) le rivolte nelle carceri, che hanno portato anche a decessi tra i detenuti. Solo una pervicacia sorda e cieca, quella della quale qui scrivono gli autori, ha potuto non far immaginare che a stare in sette per cella mentre tutti predicavano intorno di tenere uno, due, cinque metri di distanza la paura e la rabbia potessero esplodere. Abbiamo visto adottare comportamenti irrazionali da molti di noi nei luoghi della vita e del lavoro, dove si era liberi di muoversi, e di trascorrere gran parte del tempo chiusi a casa propria. E non ci si è chiesti come dovevano sentirsi quelli, chiusi dentro e schiacciati uno addosso all’altro. Né si è voluto comprendere che un provvedimento ampio di clemenza – adottato persino pare nella Repubblica Islamica, che non brilla certo per umanità nell’infliggere la pena – sarebbe stato la cosa più ovvia. E questo perché il buon senso – come questo testo dimostra – ha dovuto cedere il passo alla paura di compiere scelte impopolari; persino di fronte al rischio di un’epidemia che, stante il sovraffollamento, avrebbe potuto avere esiti gravi. Di fronte al virus abbiamo visto forze politiche tentennare persino di fronte alla scelta di osare chiudere i bar: figuriamoci aprire le carceri! Sono rimasti (quasi) tutti prigionieri del “giustizialismo morale” che essi stessi hanno contribuito a seminare. Poi si è appreso che, dopo le rivolte, il ritorno all’ordine forse è stato ottenuto anche a prezzo del fatto che le “squadrette” della penitenziaria entrassero in azione: pena informale in aggiunta alla pena formale, se già essa non basta. Giustizialismo un po’ meno morale, quindi, se così è stato davvero; ma sempre utile a recuperare quando le cose sfuggono di mano. Oggi, con la seconda ondata, il virus che nel corso della prima aveva risparmiato le carceri, pare vi si sia invece entrato. Qualcuno sta digiunando per ottenere provvedimenti di amnistia e/o indulto, e Manconi, uno dei due autori del volume, è tra loro. Non basterà, temo: come il libro giustamente sostiene, il giustizialismo morale tiene in scacco la politica e la cultura ed è più forte. E gli autori hanno ragione nel concludere il loro studio che, dopo la pandemia, saremo forse tutti più poveri, ma saremo stronzi uguale; i carcerati, per primi, ne fanno già le spese. E i migranti con loro, vittime di una xenofobia – sulla quale Manconi ha ragionato in altra occasione (segui il link) – che è, rispetto al moralismo penale, altrettanto cinica, stupida, cattiva.
Nel video, la conversazione tenuta il 7 gennaio 2021 con Chiara Bombardieri sul volume "Il conflitto, i traumi" (clicca qui per il link) e sul rapporto tra Grande Guerra, mondo mentale e psichiatria per la Biblioteca “Carlo Livi” di Reggio Emilia.
Ex libris – Basterà il volgere dell’anno a lasciarci indietro dolori, amarezze, delusioni che questo 2020 ha comportato? E riusciranno i vaccini a liberarci dall’incubo che ha tanto complicato e appesantito le nostre vite? Beh, staremo a vedere; per intanto, non resta che augurare a tutti noi buona prosecuzione e proseguire con la segnalazione dei libri che questo 2020 lascia in eredità al 2021. Su venti di essi ci siamo già soffermati in occasione del mio intervento da remoto alla “XV Settimana della salute mentale” di Reggio Emilia, e non mi pare necessario ritornarci (segui il link). A queste venti si sono aggiunte poi strada facendo tre recensioni: quella della monografia collettanea Basaglia’s international legacy, curata da Tom Burns e John Foot per l’Oxford University Press (segui il link) e quella del volume La forza delle idee. Silvano Arieti: una biografia (1914-1981) di Roberta Passione per le edizioni Mimesis (segui il link), pubblicate enrambe su questa rubrica; e quella del volume di Ernesto Venturini Mi raccomando non sia troppo basagliano. La vittoriosa sconfitta del manicomio aperto di Gorizia, scritto per le edizioni Armando, pubblicata sul sito del Forum per la Salute Mentale (segui il link) cui sono seguiti commenti di Peppe Dell’Acqua (segui il link) e Luigi Benevelli (segui il link).
Un altro testo pubblicato da Venturini quest’anno, dal quale partiremo, è Il sale e gli alberi. La linea curva della deistituzionalizzazione, edito da Negretto. Nel testo, edito una prima volta in Brasile nel 2016, Venturini racconta il processo di deistituzionalizzazione posto in essere a Imola, nel corso della dismissione degli ex Ospedali Psichiatrici della cittadina, tra 1987 e 1996. La deistituzionalizzazione è stata, allora, ripetere i gesti di vent’anni prima a Gorizia, e sono gesti che anche oggi sarebbe bene, in molte situazioni, conoscere e ripetere anche noi.
Ricordo che durante il convegno Isole. Percorsi delle difese e della libertà, organizzato da Antonio Slavich a Genova dall’8 al 12 ottobre 1992, ascoltai la relazione di Venturini, nella quale raccontava della “Ca’ del vento”, una casa famiglia aperta due anni prima e autogestita da un’associazione di pzienti, operatori e cittadini realizzata nell’ambito dell’operazione in atto di superamento degli ex ospedali psichiatrici di Imola. La cosa mi incuriosì, e gli chiesi i contatti per una visita. L’anno successivo dovevo recami, con l’assistente saniaria Vittoria Sira, a Budrio, per incontrare una donna di Vado Ligure ospite da una quarantina d’anni di una IPAB a seguito di una delle operazioni di sfoltimento di internati tranquilli che periodicamente avevano luogo negli Ospedali Psichiatrici (OP) genovesi, e organizzarne il rientro. Cogliemmo l’occasione per effettuare la visita e costatammo che sì, le cose erano effettivamente come Venturini le aveva descritte e gli ospiti della Ca’ del vento erano loro ad avere la chiave ed erano i committenti della cooperativa di servizi che forniva il personale necessario al suo funzionamento.
Non è stata del tutto una novità, quindi, per me la lettura di questo volume che raccoglie una serie conferenze tenute in Brasile sull’esperienza antiistituzionale italiana e rende conto del progetto complessivo nel quale l’esperienza della Ca’ del vento si inscrive.
Venturini, che ha lavorato a Gorizia e a Trieste, è chiamato a Imola dalla Regione Emilia Romagna nel 1986 per occuparsi della chiusura dei due ex OP della città. Certo si tratta, rispetto al superamento degli ex OP che ebbe luogo in tutta Italia alla fine degli anni ’90, di una condizione resa eccezionale dall’impegno delle istituzioni, Regione e Comune, che investirono nel progetto cogliendovi una opportunità doverosa di progresso civile e credendoci, e non obtorto collo, sotto la minaccia di tagli nel finanziaento, come avvenne in altri casi. E anche per la ricchezza in “capitale sociale” della cittadina, che presenta un contesto favorevole con l’alto numero di cooperative e associazioni, e il basso tasso di disoccupazione e disuguaglianze.
L’importanza del volume mi pare stia soprattutto nel dimostrare come anche il superamento degli ex OP che ebbe luogo oltre vent’anni dopo l’esperienza di Gorizia e dieci dopo l’approvazione della Legge 180, avrebbe potuto – se affrontata per tempo e con la giusta capacità progettuale – guardare a Gorizia, replicarne sostanzialmente i gesti e costituire un’effettiva deistituzionalizzazione.
Può cambiare il contesto infatti, viene da pensare leggendo il libro, ma i gesti della deistituzionalizzazione quelli sono, e di lì bisogna necessariamente passare ogni volta.
Il testo si apre dunque interrogandosi sul concetto di deistituzionalizzazione attraverso i diversi autori che se ne sono occupati dopo Basaglia e, in sintesi, mettendo in luce da un lato il tentativo di evitare il ricorso all’istituzione che nasce dalla consapevolezza dei suoi potenziali effetti deleteri (istituzionalizzazione) e dall’altro quello di affrontare i problemi attraverso un approccio non convenzionale, non scontato, critico, creativo, flessibile.
Comincia quindi la presentazione del “Progetto Valerio”, che prende il nome da un cerebropatico grave con il quale – a partire dal rifiuto della soluzione più semplice, la contenzione fisica – un’esperienza difficile ma entusiasmante di riabilitazione a partire dai gesti più semplici condotta faticosamente giorno dopo giorno ebbe successo, e ha come finalità il superamento completo degli OP di Imola realizzato nel 1996.
Vent’anni dopo si ripetono dunque i gesti di Gorizia: l’individualizzazione di ciò che prima era affrontato in modo seriale, il lavoro sulle capacità, i gesti fondamentali della deistituzionalizzazione (i vestiti, le posate, la dignità degli spazi, la riconnessione al tessuto affettivo e familiare, il soggiorno vacanza, la festa aperta alla partecipazione della città, l’evento eccezionale come in questo caso l’udienza con papa Giovanni Paolo II). Come a Gorizia, centrale è il rapporto tra corpo e istituzione e Venturini allude al fatto di mangiare con gli internati, dormire tra gli internati.
È interessante il confronto che propone tra l’esperienza di Imola e il Taps Project di Londra, un’esperienza di deospedalizzazione realizzata nello stesso periodo e a partire da condizioni simili, perché, ritornando con la mente alla dismissione degli ex ospedali psichiatrici nella propria realtà, ciascuno può riflettere sulle scelte che sono state operate e le caratteristiche che esse hanno in comune con Imola o con Londra.
Seguono pagine stimolanti dedicate al rapporto tra la deistiruzionalizzazione e una sorta di semeiotica dello sguardo, e poi all’importanza dei giovani operatori delle cooperative, la scelta di immettere i giovani nell’ex OP per consentire ai vecchi operatori di sperimentare situazioni nuove, l’immissione di giovani volontari stranieri (brasiliani), il tutto per animare, riscaldare, rendere vivo (originale, divertente anche) ciò che pareva definitivamente consegnato alla cronicità. Un condimento, quello brasiliano della deistituzionalizzazione a Imola che è oggetto poi di una sorta di appendice condivisa con Maria Stella Brandão Goulart, e Adelaide Lucimar Fonseca Chaves.
La preoccupazione è che, in mancanza di esperienze di questo genere nella loro formazione – scrive Venturini ricorrendo a una metafora da Saint-Exupery – ai nuovi operatori «si insegnano le tecniche di costruzione della nave – l’appropriatezza, la managerialità, l’accreditamento – ma non si è in grado di trasmettere alle persone l’intenso amore per il mare».
Già, deistituzionalizzazione e accreditamento, psichiatria ed epidemiologia; sono molto belle le pagine dedicate all’ordine della casa, che deve essere quello liberamente scelto dagli ospiti, nche quando proprio ordine secondo i nostri criteri non è; alla gestione della cucina, che pone problemi con i quali ci confrontiamo anche nei nostri centri diurni. E Venturini cita l’architetto Giovanni Michelucci, per il quale: «non vi può essere un luogo predisposto per la follia – se mai possa esistere un tale luogo – se non dove il disagio psichico e coloro che in qualche modo con esso convivono, diventino protagonisti della ricostruzione di spazi».
È molto bello il ricordo del primo incontro con un paziente d’eccezione, Primo Vanni – autore di uno scritto autobiografico ripubblicato nel 1995 dall’editore “Sensibili alle foglie”, in una collana di autobiografie dal manicomio, con curatore assai più noto di lui alle cronache, Renato Curcio – con l’ammiccare dell’infermiere alle sue spalle alla ricerca di una complicità tra sani, che subito Venturini avverte incompatibile con la deistituzionalizzazione e sfugge puntando al rapporto diretto col soggetto e le cose che lo interessano. Ed è davvero ricca di poesia ed emozione la pagina del suo riaccompagnamento in visita a casa, nei luoghi che furono quelli di Dino Campana.
Non si tratta solo di riabilitare – o, come Venturini preferisce – “abilitare” il paziente: nella deistituzionalizzazione occorre anche por mano a “riabilitarci” – riabilitare cioè la nostra dis/abilità di terapeuti, il riduzionismo delle nostre pratiche (e mi torna in mente quando, con il gruppo che ha lavorato con me al Centro diurno nei primi anni 2000 avevamo intitolato una nostra riflessione “riabilitare il centro diurno”) – e “riabilitare la città”. Riabilitarla alla tolleranza e all’accoglienza del diverso, e anche del fastidioso, perché a volte tale è realmente – bisogna dirlo – il diverso.
Così, di fronte a un paziente che grida e disturba il vicinato, la soluzione rocambolesca individuata dal sindaco per mettere tutti d’accordo è acquistare una casa isolata, dove sia libero di gridare quanto ne ha necessità (abbiamo proprio in questo periodo un problema simile, ma temo che non avrà la stessa soluzione…). «Questo acquisto» – commenta Venturini – «ha significato un esborso di 249 milioni di lire da parte di quel Comune. È stato il prezzo per sanare una controversia. Paradossalmente è stato anche un modo per capire quanto valeva F. fuori dal manicomio!».
Ma sono anche altri i soggetti “di pubblico scandalo” che l’OP restituisce alla città nel momento in cui chiude e la psichiatria non si presta a chiuderli in altri contenitori, e che le chiedono che se ne lasci abitare. È molto bella e vera la storia di Iole che impatta nella città quando comincia a uscire liberamente dall’OP, con i suoi comportamenti stravaganti, inopportuni, disturbanti, e Venturini si chiede se è possibile che la città diventi anche “la città di Iole”, che sia capace di accoglierla senza chiuderla e senza farle male. E che diventi anche la città di tanti altri: di Alì (l’extracomunitario), di Mariolina (la bambina), di Giulio (l’handicappato fisico), di Johnny (il tossicodipendente), del signor Mario (l’anziano)? E tanti altri ancora che conosciamo e che potremmo aggiungere noi…
Sono problemi che hanno a che fare con la convisenza in genere tra le persone, ma si complicano nella città «e tuttavia, sempre più nel mondo la gente abita le città e fugge dai villaggi: questo dato può non piacere, ma è incontrovertibile e non si può certamente proporre il ritorno al villaggio premoderno. La questione semmai è un’altra: pensare alla città moderna come un insieme di villaggi, alleanza fra unità, corpi che vivano in spazi concreti e che si possano incontrare, toccare».
La deistituzionalizzazione, cioè, si può fare soltanto avendo per interlocutore il paese o il municipio, nelle grandi dimensioni è impossibile.
Ma sono anche altre le questioni che Venturini affronta senza reticenze, e vanno dall’ambiguità del ruolo sindacale che rischiano di assumere i familiari quando, attorno alla rappresentanza, rischiano di costruire «una loro professionalità ed un loro potere sociale». All’ambiguità dell’apprezzamento del mondo psichiatrico verso la rappresentanza dei pazienti mentali – «tipico di alcune società che esaltano il garantismo formale, ma che lasciano inalterato il manicomio e i circuiti della violenza istituzionale». Alle pratiche stesse della deisti-tuzionalizzazione, che Venturini sceglie di rileggere utilizzando come griglia cinque temi che riprende da Italo Calvino: “Leggerezza”, “Rapidità”, “Esattezza”, “Visibilità”, “Molteplicità”. Alla questione, ancora aperta in molte parti d’Italia, del riutilizzo delle aree degli ex OP che incontrò difficoltà anche in quello che per altri aspetti appare il fortunato caso di Imola: «nessuno dei progetti di riutilizzo culturale del Parco è andato in porto. Né soprattutto il progetto di farne un luogo della memoria, come da noi richiesto e come sembrava essere stato accettato dai politici e dagli amministratori. Sono prevalse logiche speculative, anche se è stata preservata una parte verde del parco e sono state parzialmente recuperate le biblioteche. È evidentemente questo, dal nostro punto di vista, un insuccesso della riabilitazione cittadina: testimonia l’ignavia di chi ha preferito far dimenticare un luogo di violenza e, soprattutto, il valore di una lotta collettiva di liberazione. Ben diversa è stata invece la scelta operata in altre realtà regionali (a Bologna con la Fondazione Minguzzi al Roncati, e a Reggio Emilia con il Museo del San Lazzaro)».
È una storia da non perdere, insomma, quella della psichiatria, e rimaniamo sugli stessi temi ma facciamo un passo indietro di secoli con il secondo libro che desidero presentare. Cinque anni fa avevo intitolato Psichiatri a scuola dai contadini? Il “miracolo” di Geel tra devozione, integrazione e terapia dei folli una mia ricostruzione sulla rivista “Humanitas” dei tratti essenziali della vicenda della cittadina belga nel suo rapporto con gli psichiatri. E oggi ho trovato di grande interesse il libro di Renzo Villa Geel, la città dei matti. L’affidamento familiare dei malati mentali: sette secoli di storia, edito da Carocci. Partendo dal viaggio a Geel nel 1838 di Giovanni Stefano Bonacossa, il primo italiano ad avere vent’anni dopo un insegnamento di psichiatria all’Università, Villa ricostruisce la storia di questo strano villaggio dal martirio della giovane Dimphna, collocato nel contesto di vicende analoghe tramandate dalla tradizione, all’origine del suo culto nel contesto delle conoscenze della follia che affondavano le radici nell’antichità greco-latina e sopravvivevano nel medioevo.
Villa penetra con grande precisione le storie toccanti di alcuni pellegrini che si snocciolano nei secoli, l’istituzionalizzarsi del rituale, le tensioni interne alla piccola comunità fiamminga intorno a questa pratica così particolare. E ricostruisce le vicissitudini della particolare cittadina nelle turbolenze tra la fine del XVIII e l’inizio del XIX secolo, tra guerre, rivoluzione, impero, restaurazione in bilico tra il richio dell’abolizione dell’esperienza, quelli dell’istituzionalizzazione, i momenti di abbandono a se stesa e di disordine. È in quel periodo che si colloca la famosa vista a Geel di due dei più importanti alienisti francesi, Esquirol e Voisin, e anche il primo articolo che testimonia un’attenzione a Geel dall’Italia, datato 1826 e usccito sulla “Biblioteca italiana”, nel quale è interessante che si legga che: «Le città di Bruxelles, d’Anversa e molte altre di que’ paesi, invece di tenere i pazzi poveri chiusi in uno spedale, dove quasi sempre lo stato di que’ meschini non fa che peggiorare, li mandano a Gheel» proseguendo con la considerazione di «quale possa essere l’ifluenza che sopra ervelli stravolti o male organizzati esercitino la detenzione, la severità e spesso ancora la violenza propria degli stabilimenti» (p. 109); quasi un secolo e mezzo dopo Franco Basaglia – che pure come Villa ricorda da una testimonianza personale non amava Geel perché lo considerava un esempio di paternalismo – avrebbe fatto scandalo per aver detto cose infondo non poi tanto diverse. Ma, insieme, nell’articolo si osserva già il pregiudizio che ricorrerà poi lungo il secolo quando nel dibattito italiano si prenderà in considerazione il modello Geel come rimedio all’affollamento dei manicomi (come avvenne a Milano, ad esempio o a Genova): inapplicabile ai popoli latini nei quali la follia si accompagna a un temperamento più focoso rispetto a quello degli europei del nord. Anche a Geel non mancarono, peraltro, gli incidenti: così il 12 luglio 1844 è il borgomastro a essere ucciso da un alienato. Ma il modello Geel resiste anche a questo trauma come aveva resistito agli sconvolgimenti politici, e a partire dagli anni ’40 Geel diventa luogo di pellegrinaggio non più solo di alienati ma anche d’alienisti. Tra i primi è nel 1845 Moreau de Tours, che ne appare entusiasta; più scettico invece un altro dei principali alienisti francesi, Brierre de Boismont, turbato alla vista di alcuni ospiti incatenati e convinto che quel modello sia applicabile soltanto a cronici tranquilli. Saranno questi infondo i due poli opposti del dibattito su Geel che si svilupperà in tutta la seconda metà del secolo: alienati che sono protetti dai danni dell’istituzione psichiatrica grazie alla vita in condizioni normali e all’esperta tolleranza dei contadini; o alienati che devono essere protetti dalle violenze arbitrarie, dall’ignoranza e dall’avidità dei contadini grazie alla psichiatria istituzionale. E ancora: un modello che potrebbe essere applicato, a esserne capaci, a tutti gli alienati; oppure inapplicabile se non ai più tranquilli.Nel 1850, la legge belga sugli alienati riconosce la particolaree situazione di Geel, che l’anno successivo sarà oggetto di apposito regolamento e si avvierà verso una sempre più marccata medicalizazione. Poi Villa riassume il dibattito alla Société Médico-Psychologique del 1860, quello italiano tra i lombardi Biffi, Verga, Castiglioni; ma di Geel ormai si discute i tutto il mondo, e non solo tra i medici: alcune delle testimonianze che Villa riporta rivestono davvero un interesse straordinario per il confronto, tutt’altro che sopito, tra un approccio prevalentemente naturale, umano e un approccio prevalentemente tecnico-istituzionale alla follia. Da Geel passa il famoso alienista australiano George Alfred Tucker, autore di un’inchiesta mondiale, in quegli anni, sulle caratteristiche migliori per un manicomio, e ne rimane malamente impressionato; a Geel il padre e il fratello di Van Gogh vorrebbero che Vincent si recasse per un periodo di cura. Nonostante le opinioni su Geel continuino a divergere, si tenta di replicare l’esperienza o almeno organizzare forme di affidamento eterofamiliare, che trovano in Itali sostenitori tra i quali Augusto Tamburini, in Belgio, Francia, Olanda, ma anche in Giappone, dove nella tradizione autoctona del tempio di Iwakura si crede di individuare qualcosa di simile a Geel e altrettanto antico. Nel ‘900 Geel continua a essere studiata, dibattuta, fatta oggetto d’interesse da parte di viaggiatori, giornalisti, leterati come l’italiano Marino Moretti; attraversa il dramma delle due guerre, riesce a salvare miracolosamente dalla deportazione la quasi totalità dei suoi ospiti ebrei, ma dopo il 1945 la situazione cambia radicalmente. La trasformazione del mercato del lavoro, la meccanizzazione dell’agricoltura, l’introduzione degli psicofarmaci riducono notevolmente l’importanza dell’ospitalità dei folli nell’economia della cittadina, e il culto di Dimphna ha ormai un’importanza solo folkloristica. Poi, Villa prosegue riferendo dei tempi più recenti, quando cercando di costruire un delicato equilibrio e una non sempre facile integrazione tra la sua tradizione di ospità familiare della follia e la realtà istituzionale venutasi a creare dal dopoguerra, Geel tenta di proporsi oggi come riferimento per la “belanced care”, un modello di cura fondato sull’alternanza e l’integrazione appunto tra psichiatria e affidamento in famiglia; e così l’ho incontrata anchh’io quando le ho fatto visita nel 2005. Ho trovato, infine, molto interessanti le testimonianze che Villa raccoglie nelle ultime pagine nelle famiglie affidatarie, dalle quali emerge come ospitare per tempi anche molto lunghi persone estranee affette da disturbi mentali e di relazione anche gravi, non sia cosa né facile né banale. Come possano essere cioè complesse, nella quotidianità, le dinamiche di potere, che già possono esserlo nelle normali famiglie, all’interno della casa e come sia necessario misurarcisi per chi ospita; o come sia difficile su entrambi i versanti individuare la distanza giusta, l’equilibrio reciprocamente tollerabile tra il coinvolgimento affettivo, che è in qualche misura indispensabile e nasce da sé e il fatto di rimanere in qualche misura estranei o, ancora, il richio dell’inautenticità; o la difficile integrazione tra approccio umano e approccio tecnico al soffrire. Un gruppo di esperienze anche italiane ispirate all’esperienza di Geel, quello dell’IESA (Inserimento eterofamiliare supportato di adulti sofferenti di disturbi psichici), gestisce tramite la sezione torinese una rubrica su questa stessa rivista: I porti aperti (segui il link).
Rimaniamo in ambito di storia della psichiatria ma ritorniamo al tema della relazione tra psichiatria e prima guerra mondiale con Soldati e neuropsichiatria nell’Italia della Grande Guerra. Controllo militare e pratiche assistenziali a confronto (1915-1918), di Marco Romano, – uno degli autori del volume collettaneo I conflitti e i traumi che abbiamo già presentato (segui il link) – edito da Firenze University Press e disponibile in PDF (segui il link).
Nel testo, Romano ricostruisce in primo luogo l’evoluzione del dibattito storiografico recente sul rapporto tra guerra, mondo mentale e psichiatria a partire dagli anni ’60, e le principali questioni all’ordine del giorno nella discussione tra gli psichiatri durante la guerra e negli anni immediatamente precedenti su temi di grande rilevo, che vanno dall’effetto psicologico del trauma, al rilievo che assume a suo proposito la predisposizione, ai possibili significati della simulazione di malattia mentale nel corso della guerra ecc. Il materiale del quale si avvale riguarda due dei manicomi provinciali più prossimi alla zona di guerra, come il Sant’Artemio di Treviso e il San Servolo di Venezia, ma si estende poi al San Lazzaro e al Centro di Prima Raccolta di Reggio Emilia, che ha funzionato nell’ultimo anno di guerra, e a manicomi meno direttamente coinvolti, come quello di Arezzo e quello di Napoli. È molto interessante anche l’ultimo capitolo, nel quale Romano prende in esame tre dei centri neurologici aperti durante la guerra – furono in tutto una decina – a Milano, Ferrara e Arezzo per coglierne la caratteristica comune di aver costituito tentativi di rispondere a una stessa necessità, quella della neurologia di stabilire rapporti diversi con la psichiatria da una parte e la medicina interna dall’altra, affrancandosi da entrambi come scienza autonoma, e la grande importanza che ebbe, in tutti e tre i casi, la società civile mobilitata nello sforzo bellico nel sostenere i progetti. Ma erano anche profonde le differenze che la ricostruzione di Romano ha il merito di evidenziare. Se il centro di Milano, infatti, nel quale Carlo Besta ebbe la possibilità di occuparsi della sola patologia neurologica e consentire al suo interno lo sviluppo, grazie anche alla contingenza bellica, di una neurochirurgia di alta qualità, appare quello più moderno, gli altri due casi appaiono progetti più confusi. Quello di Ferrara guidato da Gaetano Boschi, poi trasferito a Bari dato l’avvicinarsi del fronte, per l’idea di porre – come sarebbe poi effettivamente avvenuto per qualche decennio anni dopo in Italia – il confine tra neurologia e psichiatria molto all’interno della seconda, accorpando sostanzialmente alla neurologia l’ampia area dei disturbi nevrotici e lasciando appanaggio della psichiatria la sola area delle vere alienazioni mentali e dei manicomi. E quello di Arezzo guidato da Arnaldo Pieraccini, per l’idea del tutto controcorrente in quel momento di evitare alla psichiatria e al manicomio la marginalizzazione cui cominciavano a essere ineluttabilmente condannati col trattenere la neurologia al loro interno (si tratta di un modello che mi è capitato di vedere applicato, in occasione del XII World Congress of Psychiatry del 2002, a Tokio, ma che non ebbe fortuna in Italia né credo in Europa con la neurologia tutta protesa verso la medicina).
Mi pare che, come Romano scrive, il passaggio da una visione d’insieme a studi sempre più dettagliati delle diverse realtà nelle quali ebbe luogo il difficile incontro tra guerra e psichiatria sveli la complessità delle situazioni e la difficoltà di dare giudizi e interpretazioni che valgano in modo generale; anzi, più gli studi proseguono direi, più dimostrano quanto la situazione sia difficile da riportare a una loettura unitaria. Contribuisce a questo, come ho accennato nell’introduzione al volume Il conflitto, i traumi paragonando i casi di Consiglio, Zanon Dal Bo’, Salemi, Colucci – tutti psichiatri implicati nell’assistenza ai militari – il fatto che uno stesso atteggiamento possa avere motivazioni diverse, o anche opposte. Ciò vale ad esempio per la scelta se prorogare le degenze, le licenze o aumentare le proposte di riforma; per quella se mantenere più o meno alta la soglia per le diagnosi psichiatriche e l’indicazione all’internamento (in Prticolare per ciò che riguarda i soggetti “asociali” che spesso già avevano avuto problemi con la giustizia in tempo di pace, allora considerati “degenerati”, che né l’esercito – dove era ancora vivo il ricordo della vicenda di Salvatore Misdea – né il manicomio volevano).
Rispondere poi, da parte degli psichiatri, in senso negativo a quello che era uno dei principali quesiti in quel momento – cioè se la guerra producesse o meno, sul piano qualitativo, patologie specifiche, a essa (e solo a essa) riconducibili, diverse dalla comune patologia mentale traumatica – non significava sostenere che la guerra non producesse, sul piano quantitativo, con maggiore frequenza rispetto alle situazioni di pace la comune patologia mentale traumatica (fosse essa sulla base, o meno, di predisposizione).
Se tante erano dunque le questioni che agitavano il dibattito tra gli psichiatri, anche per ciò che riguardava il soggetto uno stesso comportamento – come la diserzione, la fuga, la simulazione o il rifugiarsi nella nevrosi, fosse esso legato a spinte consce o inconsce, più o meno riconducibili a “patologia” – poteva nascere da sentimenti opposti, che però la cultura psichiatrica dell’epoca avrebbe considerato entrambi “degenerati” perché indegni dell’uomo sano, che doveva essere abbastanza coraggioso e violento per fare la guerra. Da un lato un sentimento egoistico, che spingeva a proteggersi e salvarsi, ed è quello cui Freud, dopo il 1917, attribuisce le nevrosi di guerra; o all’opposto un sentimento altruistico, che portava a rifiutare – più o meno consapevolmente – nella guerra la violenza fratricida verso il nemico. Ma anche, mettendo insieme entrambi questi sentimenti, da un desiderio complessivo di pace nel quale potevano coesistere, in proporzione variabile, l’uno e l’altro. Un desiderio di vivere e lasciar vivere, cioè.
Sono di grande interesse alcuni casi al centro della ricerca di Romano, come la diaspora cui diede luogo il trasferimento dei manicomi veneziani dopo Caporetto, cui tentò inutilmente di opporsi il direttore Cappelletti; o la polemica, riferita a inquadramenti diagnostici oppopsti delle stesse situazioni, tra Consiglio, direttore del Centro di Prima Raccolta, e Colucci, direttore a Napoli, il quale gli rivolgeva proprio le stesse accuse che lui, psichiatra militare, era solito rivolgere ai colleghi civili o mobilati in occasione della guerra.
Il volume di Romano ha infine, tra gli altri, il merito di tracciare interessanti profili biografici di alcuni dei direttori ai quali fa riferimento, e ho particolarmente apprezzato quelli dedicati ad Arnaldo Pieraccini, Cesare Colucci, Carlo Besta.
Altri volumi che mi incuriosiscono ma mi limito qui a segnalare sono Mais e pellagra. Storia della pellagra in Romagna di Giancarlo Cerasoli per le edizioni Il ponte vecchio; Selfie. Sentirsi nello sguardo dell’altro di Giovanni Stanghellini per Feltrinelli; Storia critica della psicoterapia di Renato Foschi e Marco Innamorati, edito da Cortina; Storia della psicologia e della mente, dello stesso Renato Foschi, edito da Mondadori.
Vorrei poi segnalare l’uscita, a cura di Chiara Volpato e Luca Andrighetto, di un numero monografico della rivista Minority Reports, il n. 10, dedicato a Deumanizzare l’altro. Forme e declinazioni. Nel contributo che mi è stato affidato sulla deumanizzazione in psichiatria, a partire da una problematizzazione del concetto stesso di “umanità” ho fatto riferimento a vari passagi della storia della psichiatria da Von Galen, a Goffman e Basaglia, a un’analisi sotto questo profilo del film Family life, ma senza trascurare i rischi di deumanizzazione che anche oggi corriamo nei nuovi servizi. Flavia Albarello si occupa dell’animalizzazione come strumento per svilire l’umanità altrui; Maria Giuseppina Pacilli, Eraldo Cadeddu e Federica Spaccatini dell’oggettivazione sessuale; Cristina Baldissarri dell’oggettivazione nel lavoro; Roberta Rosa Valtorta di un tema quanto nessun altro attuale, quello della biologizzazione; Dora Capozza, Rossella Falvo Daiana Colledani della biologizzazione nei contesti medici; Mario Sainz, Rocío Martínez, Miguel Moya e Rosa Rodríguez-Bailón del mantenimento del gap socioeconomico attraverso l’anmalizzazione del povero e la meccanizzazione della salute; Patrizia Romano della deumanizzazione nella violenza contro le donne e Silvia Buzzelli del rapporto tra deumanizzazione, diritti umani e ius migrandi.
Il che ci collega alla sezione successiva di questa rassegna bibliografica, la cui lunghezza davvero mi imbarazza. Nonostante, ancora, sul Mediterraneo sia calato uno sterminato silenzio e le navi solidali siano quasi tutte in rada (ma è di questi giorni un salvataggio operato da Open Arms), le sue onde e le sue sponde continuano a essere disturbate dal solletico del silenzioso e faticoso brulicare dei percorsi dei migranti. E in molti studiosi non rinunciano a loro volta a un lavorio altrettanto incessante di studio e di denuncia. Abbiamo anticipato la segnalazione di quattro volumi relativi alle questioni migratorie, a partire da Un mondo da guadagnare. Per una teoria politica del presente scritto da Sandro Mezzadra ed edito da Meltemi, nell’intervento a Reggio Emilia. E a essi ora aggiungiamo: Underground Europa: lungo le rotte dei migranti di Luca Queirolo Palmas e Federico Rahola (Meltemi) nel quale gli autori propongono alla riflessione la storia della rete di assistenza degli schiavi in fuga dalle piantagioni del sud degli Stati Uniti verso il Canada a metà dell’Ottocento, la “ferrovia sotterranea”, con gli itinerari dei migranti oggi dal Paese d’approdo a quello di destinazione attraverso l’Europa, i percorsi e le stazioniche incontrano, le pratiche di solidarietà che incontrano, a proposito delle quali insistono sul carattere eterogeneo (che va dai giovani delle parrocchie, a quelli delle ONG, a quelli dei Centri sociali…) e l’importanza che al loro interno assumono l’autoorganizzazione tra i migranti stessi e la presenza femminile. Bucare il confine di Gabriele Proglio (Mondadori), del quale abbiamo già recensito un saggio su Fanon (segui il link), e Abitare la frontiera di Luca Giliberti (Ombre ccorte) raccolgono interviste inerenti il migrare rispettivamente a Ventimiglia e nella Val Roja; passi e sentieri percorsi nei secoli da anarchici, disoccupati, dissidenti politici, ebrei, partigiani che ora sono di nuovo testimoni di esperienze, dall’esito a volte drammatico, di attraversamento illegale del confine. Un territorio urbano dentro la città di Ventimiglia fatto di luoghi che tendono a riorganizzarsi e segregare gli spazi dove la vita della cittadina può proseguire e altri luoghi dove l’esperienza migrante e solidale, con le tante difficoltà dell’una e dell’altra e la persecuzione di cui sono entrambe oggetto, cercano di darsi a loro volta un’organizzazione.
È andato incontro a seconda ristampa per DeriveApprodi Governare la crisi dei rifugiati. Sovranismo, neoliberalismo, razzismo e accoglienza in Europa nel quale Miguel Mellino rintraccia le radici della razzializzazione e della guerra ai migranti di oggi all’origine stessa di quel formarsi di una cultura europea dei diritti umani che non seppe da subito farsi “universale” ma nacque segnata dalla ferita del confine che prevedeva riconoscimento dei diritti per alcuni ed esclusione dai diritti per altri. Non stupisce allora che la conclusione di Mellino sia che tra le politiche migratorie liberali – interpretate per noi ad esempio dal decreto Minniti (segui il link) – e quelle sovraniste – interpretate qui dai decreti Salvini (segui il link) – ci siano certo importanti differenze di ordine quantitativo, ma sul piano qualitativo un’unica radice. Ed è quella separazione tra i diritti nostri e quelli degli altri, che diventa differenza di valore tra la vita nostra e quella degli altri e sta all’origine nell’incapacità dell’Europa moderna di parlare una lingua davvero universale, e uscire dal razzismo che le è intimament connaturato,.
Sono temi, tutti questi, che trovano una sorta di sintesi in un testo collettaneo in lingua inglese, e avere notizia della sua pubblicazione già in questi primi giorni del 2021 mi ha fatto piacere: Debordering Europe. Migration and Control across the Ventimiglia Region (Palgrade Macmillan). Il titolo parla da sé; i curatori sono Livia Amigoni, Silvia Aru, Ivan Bonnin, Gabriele Proglio, Cecilia Vergnano. Alla prefazione di Sandro Mezzadra segue la prima sezione dedicata alla prospettiva storica raccoglie contributi di Gabriele Proglio, Sandro Rinaudo e Marina Marengo; la seconda dedicata alle infrastrutture del confine raccoglie saggi di Ivan Bonnin, Marta Meghi, Giacomo Donadio; la terza dedicata agli attori sociali saggi di Livio Amigoni, Chiara Molinero e Cecilia Vergnano; Silvia Aru, Daniela Trucco, Luca Giliberti e Francesco Migliaccio. La postfazione è affidata a Luca Palmas e Federico Rahola, della cui attività sul tema abbiamo visto.
Dei cascami della questione coloniale si occupa Francoise Vergès con Un femminismo decoloniale, curato da Gianfranco Morosato (Ombre corte), nel quale l’autrice ricerca nella vicenda schiavistica del XVI secolo le origini di quella triplice oppressione di genere, di razza e di classe che caratterizza anche oggi tante lavoratrici straniere che negli Stati Uniti e in Europa si dedicano all’ingrato e malpagato compito di “pulire il mondo”: il che mi ha fatto da un lato riflettere sul fatto che anche nelle nostre realtà gran parte delle operaie nelle imprese di pulizia oggi è strraniera; e anche su come questa realtà sia stata oggetto di un bellissimo film di Ken Loach, Il pane e le rose, sul quale già ci siamo soffermati (segui il link). Si tratta di un compito che è divenuto tanto più prezioso (e anche pericoloso, però) nell’attuale pandemia. Nel raccontare vicende di oppressione nell’oppressione, che diventano a volte storie coraggiose d’insorgenza, Vergès non trascura il fatto che la relazione tra le diverse condizioni di oppressione, e perciò anche di rivendicazione, di genere, di razza e di classe non è lineare. Così talvolta proprio il maschio che ne condivide la condizione di razza e di classe è, in una complessa relazione tra i tre piani, il primo oppressore della donna; o la relazione tra movimenti femministi del nord e sud del mondo è sotto molti aspetti attraversata da incompatibilità e incomprensioni che hanno a che fare con la linea del colore e la lotta di classe. Su un altro dei temi dei quali non rinunciamo ad occuparci su questa rubric accanto a quelli di salute mentale, quello della penalità, Luigi Manconi e Federica Graziani hanno pubblicato Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale (Einaudi).
Nel testo, gli autori denunciano la ferocia che la penalità è andata assumendo negli ultimi anni, complici fenomeni e speculazioni interne al mondo giudiziario, a quello giornalistico, a quello politico. Potremmo citare, e gli autori citano, un’infinità di soggetti che hanno costruito carriere, fame nella predica moraliatica di una penalità priva di pietà e di perdono (salvo poi, in qualche caso trovarsi poi essi stessi vittima di quella stessa penalità). Il libro è quanto mai attuale, perché nei primi mesi dell’odierna pandemia, sono esplose improvvise (ma non imprevedibili) le rivolte nelle carceri, che hanno portato anche a decessi tra i detenuti. Solo una pervicacia sorda e cieca, quella della quale qui scrivono gli autori, ha potuto non far immaginare che a stare in sette per cella mentre tutti predicavano intorno di tenere uno, due, cinque metri di distanza la paura e la rabbia potessero esplodere. Abbiamo visto adottare comportamenti irrazionali da molti di noi nei luoghi della vita e del lavoro, dove si era liberi di muoversi, e di trascorrere gran parte del tempo chiusi a casa propria. E non ci si è chiesti come dovevano sentirsi quelli, chiusi dentro e schiacciati uno addosso all’altro. Né si è voluto comprendere che un provvedimento ampio di clemenza – adottato persino pare nella Repubblica Islamica, che non brilla certo per umanità nell’infliggere la pena – sarebbe stato la cosa più ovvia. E questo perché il buon senso – come questo testo dimostra – ha dovuto cedere il passo alla paura di compiere scelte impopolari; persino di fronte al rischio di un’epidemia che, stante il sovraffollamento, avrebbe potuto avere esiti gravi. Di fronte al virus abbiamo visto forze politiche tentennare persino di fronte alla scelta di osare chiudere i bar: figuriamoci aprire le carceri! Sono rimasti (quasi) tutti prigionieri del “giustizialismo morale” che essi stessi hanno contribuito a seminare. Poi si è appreso che, dopo le rivolte, il ritorno all’ordine forse è stato ottenuto anche a prezzo del fatto che le “squadrette” della penitenziaria entrassero in azione: pena informale in aggiunta alla pena formale, se già essa non basta. Giustizialismo un po’ meno morale, quindi, se così è stato davvero; ma sempre utile a recuperare quando le cose sfuggono di mano. Oggi, con la seconda ondata, il virus che nel corso della prima aveva risparmiato le carceri, pare vi si sia invece entrato. Qualcuno sta digiunando per ottenere provvedimenti di amnistia e/o indulto, e Manconi, uno dei due autori del volume, è tra loro. Non basterà, temo: come il libro giustamente sostiene, il giustizialismo morale tiene in scacco la politica e la cultura ed è più forte. E gli autori hanno ragione nel concludere il loro studio che, dopo la pandemia, saremo forse tutti più poveri, ma saremo stronzi uguale; i carcerati, per primi, ne fanno già le spese. E i migranti con loro, vittime di una xenofobia – sulla quale Manconi ha ragionato in altra occasione (segui il link) – che è, rispetto al moralismo penale, altrettanto cinica, stupida, cattiva.
Nel video, la conversazione tenuta il 7 gennaio 2021 con Chiara Bombardieri sul volume "Il conflitto, i traumi" (clicca qui per il link) e sul rapporto tra Grande Guerra, mondo mentale e psichiatria per la Biblioteca “Carlo Livi” di Reggio Emilia.
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