Sulla “neurofenomenologia”

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15 febbraio, 2021 - 18:41

Dalla fenomenologia filosofica alla psicopatologia fenomenologica alla fenomenologia quantistica.*

 

Introduzione

Il lavoro clinico è reificante, schiaccia in una dimensione di concretezza quasi materiale propria dell’esistenza comune, costringe ad operare in un mondo di costrutti, modelli, concezioni e credenze condivise, lascia poco spazio alla speculazione, ma anche alla riflessione critica. Un tempo si diceva che per riflettere su quello che si fa occorre avere un “terzo occhio” o “un terzo orecchio” (laddove si privilegia l’ascolto), cioè un punto di vista sulla situazione terapeutica diverso da quello dei protagonisti della cura. Questo terzo occhio (orecchio) serve per osservare la situazione, così come in terapia familiare chi sta dietro il vetro polarizzato osserva l’interazione terapeutica operatori/familiari. Più il punto di vista si discosta dal luogo in cui si svolge l’interazione terapeutica (il setting), più si allontana dall’atteggiamento naturale, più sfumano gli elementi contingenti, contenutistici, i modelli e le teorie psicologiche, il senso comune: l’interazione si mostra nella sua purezza, lasciando vedere solo la relazione, cioè il legame energetico che quel paziente e quel terapeuta hanno in quel determinato momento (l’evento interazione nel campo psichico). Introducendo un concetto proprio della meccanica quantistica, ciò che si osserva muta in funzione della distanza da cui si guarda la scena e ciò che resta di oggettivo da una visione decontaminata dal contingente è un’interazione puntiforme tra due soggettività, unica e irripetibile.

Questo distanziarsi dalla fatticità dell’evento è sempre stato un po’ il modo di lavorare della fenomenologia, col suo richiamo alla sospensione gnoseologica (di ogni giudizio) su quanto si osserva di concreto (comportamenti, sintomi, narrative, etc.) alla ricerca di un altro significato (Calvi, 2005) dotato di maggior valore in termini di essenzialità e assolutezza.

Oggi è tornato di moda il neopositivismo, e vengono ampiamente rivalutati autori della fine dell’800, come William James per la teoria e Pierre Janet (Dimaggio, 2020) per la pratica clinica, ma anche gli psichiatri pre-kraepeliniani per quanto riguarda le attuali teorie sul neurosviluppo tardivo nella genesi dei maggiori disturbi mentali (Maggini e Dalle Luche, 2018). La cosa più inquietante è che il neopositivismo ripropone alla lettera, in operazioni come quelle di Northoff (2011), di correlare i costrutti psicoanalitici della teoria delle relazioni oggettuali con l’enorme messe dei dati apportati dalla neurofisiologia e dal neuroimaging negli ultimi decenni: non siamo molto lontani da quello che si proponeva Freud nei suoi studi pre-psicoanalitici quali la monografia sulle afasie (1891) e il Progetto per una psicologia (1895).

Certamente oggi siamo molto lontani dall’idea di tentare correlazioni localizzatorie tra esperienze e attivazioni neuronali: piuttosto i modelli più recenti delle funzioni psichiche valutano le correlazioni con una intricatissima struttura a rete (il cosiddetto connettoma) nel quale i nuclei cerebrali sono tutt’al più dei fulcri (hub) per infinite diramazioni e connessioni (spoke) (Gemignani, comunicazione personale). Tuttavia, così come in psichiatria il primo problema è che cosa correlare col neurobiologico (sintomi, categorie diagnostiche o dimensioni?), così per quanto riguarda lo psichico in generale, la questione è: quale psiche, quali funzioni, quali vissuti, ammesso che ne esistano di isolati, correlare col neurobiologico? La mente umana è davvero fatta a scompartimenti (pensieri, affetti, atti volitivi?) oppure ogni funzione ha aspetti, fenomeniche, scopi molto complessi (pensiamo alla memoria, dalla working memory alla memoria operativa a quella autobiografica) inestricabilmente connessi a tutte le altre dimensioni psichiche cognitive, emotive e volitive? Questi modelli neurobiologici più recenti evocano piuttosto correlazioni non lineari, concetti, organizzazione, connessione, energia, riduzione e crescita di entropia.

 

  1. Il passato

Tutto questo discorso preliminare serve per sottolineare il rischio insito in un termine come neuro-fenomenologia, che è, da un lato, quello di riproporre paradigmi positivistici ottocenteschi, dall’altro di dare uno spessore umanistico a scienze molto aride di per sé quali la neurofisiologia, come è accaduto in modo parossistico per la importante scoperta dei mirror neurons, che nel dibattito hanno assunto funzioni e valori molto lontani dal dato scientifico (ad esempio diventando tout court la base dell’empatia, di qualcosa, cioè, che non si sa esattamente cosa sia); oppure, al contrario, una nobilitazione, una verniciatura scientifica ad atteggiamenti sostanzialmente umanistici come la fenomenologia tradizionale. Tutte e tre queste accezioni del termine sono, a mio avviso, artificiose e sterili.

Ai tempi della mia formazione la parola fenomenologia era invariabilmente associata alla filosofia ed in effetti attirava gli psichiatri più colti che, forse, per la medicina, avevano sacrificato la loro vocazione umanistica. Ricordo un congresso (seminale per la mia formazione) organizzato a Milano nei primi anni ’80 da Cazzullo, il primo cattedratico di Psichiatria in Italia, insieme a Carlo Sini, Ordinario di Filosofia teoretica, dal titolo: Fenomenologia: filosofia e psichiatria (Cazzullo e Sini, 1984). I partecipanti erano tutti i maggiori psichiatri di orientamento fenomenologico (Borgna, Callieri, Cargnello, Beluffi) che si confrontavano con filosofi come lo stesso Sini, Galimberti, Ruggenini, Vitiello. Gli autori di riferimento dei nostri colleghi di allora erano tutti filosofi (Husserl, Heidegger, Sartre, Merleau Ponty, Levinas, Buber, Dilthey) ma non veniva citato da nessuno quello che è per me il più grande teorico della psicologia fenomenologica, vale a dire William James (1890), forse per l’etichetta troppo positivistica di pragmatista.

Ancora oggi la maggioranza degli psichiatri che si dicono fenomenologi fanno un po’ i filosofi o cercano di diventarlo, seguendo l’esempio di Karl Jaspers. Come tutti più o meno sanno a lui si fa risalire l’ingresso della fenomenologia in psicopatologia per sanare il vizio dell’organicismo psichiatrico di allora, il riduzionismo e il misconoscimento della soggettività. Jaspers (1913-59) semplicemente invitò i clinici a rivolgersi all’esperienza soggettiva dei malati attraverso il meccanismo ottocentesco che faceva da pendant all’introspezione, cioè l’immedesimazione (Einfühlung, il “sentire dentro l‘altro”, l’”Altrocezione” si potrebbe dire oggi), un concetto che sostituiva l’empatia (nata nella psicologia estetica di Lipps) per divenirne ricorsivamente col tempo il precursore in psicologia, psichiatria e psicoterapia, quando questo concetto è tornato di moda. Con-sentire (Ein-fühlung) significava all’epoca semplicemente trattare l’altro (il malato) come un essere umano, cosa che, non solo in psichiatria, ma anche in medicina, chirurgia e perfino psicoterapia (pensiamo ai primi comportamentisti), non avveniva di regola. In questo senso si cita spesso l’importanza che ha avuto la fenomenologia nella pratica psichiatrica clinica ed in particolare nel superamento dell’istituzione manicomiale, luogo in cui spesso i malati erano considerati e soprattutto trattati con modi che non potevano dirsi umani (Basaglia, Barison, Borgna e Piro, ad esempio, avevano avuto una più o meno solida formazione fenomenologica). Tuttavia anche dopo la 180 ho memoria di vecchi primari che trattavano i malati psichiatrici a letto come corpi anatomici se non come esseri subumani che occupavano i nobili letti delle discipline mediche e chirurgiche, mentre i cattedratici di psichiatria erano ancora usi a “portare a lezione”, cioè esibire agli studenti, i malati di cui stigmatizzavano pubblicamente sintomi, disfunzioni e comportamenti abnormi.

Le ambizioni delle correnti fenomenologiche erano però teoretiche prima che etiche e politiche, e sono confluite in varie fonti di ispirazione per la cosiddetta psicopatologia fenomenologica, una disciplina che mirava ad andare aldilà della mera semeiologia psichiatrica, già compiutamente e mirabilmente descritta dagli psichiatri della seconda metà dell’ottocento: la psicopatologia fenomenologica guardava oltre il sintomo per rivelare i fenomeni che vi soggiacevano, ad esempio le strutture esperienziali sovraordinate e gli ordinatori formali psicopatologici e nosografici che sorreggevano i sintomi e le categorie diagnostiche empiricamente definibili. La psicopatologia fenomenologica mirava cioè ad oltrepassare l’empirico (i sintomi e i comportamenti, ma anche i modi di pensare del cosiddetto senso comune, cioè ogni sorta di pregiudizio) non per cogliere un empirico più generale (come ad esempio accade oggi con tentativi dimensionali quali i Research Diagnostic Criteria – Insel e Wang, 2010) ma per cogliere realtà più essenziali, più generali o più autentiche; queste non si sarebbero mai svelate, cioè rese visibili all’occhio della mente, senza un percorso metodico che prevedesse di iniziare con la sospensione gnoseologica detta epochè (già teorizzata dai filosofi scettici della Grecia ellenistica). Le correnti fenomenologiche hanno cercato di sviluppare dei metodi di indagine ispirandosi a vari filosofi, inizialmente soprattutto all’ambizione husserliana di individuare delle componenti essenziali dell’esperire (la intuizione eidetica: il concetto di triangolo invece degli infiniti triangoli; la costituzione della percezione attraverso la somma degli adombramenti invece dei singoli dati percepiti etc). Altri studiosi di impostazione fenomenologica sono poi transitati nella filosofia del Dasein (o dell’esistenza, ma non più nella versione di Jaspers, che come filosofo dell’esistenza è stato irrilevante per la psicopatologia), bensì dell’allievo di Husserl, Heidegger, che ha fornito il materiale - oltre che per decenni di elevatissime speculazioni filosofiche - per la più rigorosa, ma anche la più esoterica, delle applicazioni della filosofia alla clinica, la Daseinsanalyse, che oggi si sente ancora evocare dagli ultimi profeti (in estinzione) dell’esistenzialismo.

 

2. I classici

a) Fortunatamente, anche per ragioni culturali - il fatto che gli psichiatri abbiano continuato ad avere una formazione naturalistica di tipo medico-biologico - la versione dominante della psicopatologia fenomenologica è rimasta quella jaspersiana, volta all’ascolto del paziente e alla ricostruzione formale (non contenutistica, non ermeneutica, come avveniva nella psicoanalisi di quel tempo) del vissuto; a questo livello la psicopatologia fenomenologica ha sempre avuto uno sguardo medico-naturalistico ed ha dato molti frutti importanti per arricchire la cultura psichiatrica; basti pensare alla lezione di Kurt Schneider e alla sue importanti descrizioni dall’interno dei mondi psicotici acuti (i sintomi di primo rango) e delle diverse forme di esperienza depressiva e melanconica. Da questa scuola è nata la teoria dei sintomi di base di Gerd Huber (uno psichiatra degli anni ’70 e ’80 considerato eccessivamente organicista e poco intellettuale, per questo alquanto snobbato dalla intellighenzia fenomenologica). La teoria dei sintomi di base, che col professor Maggini abbiamo introdotto in Italia nei primi anni ’90 e che stiamo riproponendo in una versione aggiornata ed arricchita (Maggini e Dalle Luche, 2021), è a tutt’oggi il modello fenomenologico descrittivo più fine e dettagliato delle psicosi croniche viste dal vissuto percepito e riferito del paziente: una prospettiva in prima persona che consente di evitare tutte le illusioni e gli equivoci e i limiti della Einfühlung ed accedere in modo preciso ai disturbi e al vissuto dei pazienti. Non si limita ad enumerare tutti i microsintomi pre- e post-psicotici, quelli più correlati alla durata e alla cronicizzazione del disturbo, ma anche a stabilirne la natura fluttuante (il comparire, l’attenuarsi, lo scomparire) e ciclica (stadi pre- e post-psicotici, cicli della psicosi bipolare): fenomeni dinamici naturali, il fluttuare, lo svanire e il riproporsi, sui quali nessuno si interroga realmente nel campo della ricerca. La fluttuazione dinamica basica dei sintomi di base porta ai sintomi psicotici caratteristici, con un meccanismo a cascata, denominata da Huber attività di processo e descritta da molti psicopatologi, Conrad, Janzarik e Klosterkotter, ed in altro contesto da Kapur, come salienza, ma è totalmente ignorata dalla ricerca neurobiologica (Maggini e Dalle Luche, 2018, 2021. Come interpretare l’instabilità dei sintomi da un punto di vista fisico? Variazioni dell’energia, passaggi reversibili tra configurazioni di diversa entropia?

Per il modello dei sintomi di base, che mira a definire quali siano i sintomi più vicini al substrato neurobiologico (livello pre-fenomenico), pur con la mediazione “trans-fenomenica” di quelli che oggi si possono chiamare i software dell’integrazione cognitiva o affettivo-cognitiva, si potrebbe parlare appropriatamente di neurofenomenologia.

b) Tuttavia anche la psicopatologia fenomenologica meno attratta dal semeiologico e dall’empirico, e molto di più dal linguaggio filosofico, ha portato dei contributi interessanti per le neuroscienze: ad esempio andando a rintracciare dietro le esperienze cliniche classiche (quella melanconica, maniacale e schizofrenica) un’alterazione basica e correlata di strutture ordinative dello psichico quali la temporalità e la spazialità. Esaminando il vissuto di questi malati seguiti meticolosamente per anni, fenomenologi illuminati hanno scoperto che il loro vissuto soggettivo si allontana in modo diverso sia dalla comune percezione dello scorrere del tempo astronomico (il tempo oggettivo dell’orologio nella fisica newtoniana) che dalle alterazioni fisiologiche di quello psicologico nei diversi vissuti emotivi (quali la noia, l’entusiasmo, l’attesa e così via). Il mondo melanconico è dominato dalla retrospezione, dal sovrastare del passato sul presente (attualizzazione o presentificazione del passato) alla base del rimuginìo infinito e sterile nel quale si collassa l’ideazione, mentre il paziente maniacale giustappone il futuro al presente, dando per già realizzati quelli che sono le sue aspettative o i suoi desideri; lo schizofrenico (lo psicotico cronico), da parte sua, vive in un tempo sostanzialmente identico a se stesso, non procedente, marciante sul posto, non evolutivo: per lui il passare degli anni e l’invecchiamento fisico-biologico non corrisponde, come nel sano, ad un mutamento coordinato ed armonico della vita psichica per cui se si vede un paziente psicotico decenni dopo il primo incontro, lui ricomincerà a parlare dei suoi soliti deliri, magari aggiornati dalla cronaca, come se fosse la prima volta. In coerenza con i vissuti temporali, il melanconico non può procedere sul suo cammino esistenziale e quindi non si alza dal letto per l’intera giornata, il maniacale, al contrario, andrà a comprare un’auto di lusso con i soldi che sicuramente guadagnerà con le attività che ha in mente di iniziare, mentre lo schizofrenico se ne sta benissimo nel suo perenne lockdown, visto che in sostanza è estraneo al proprio passato quanto al proprio futuro e perfino il presente, così ricco di manifestazioni trascendentali, ha scarse caratteristiche di un vero presente. E’ proprio questo, non il comportamento, non i sintomi, non le bizzarrie, che rende un essere umano un vero psicotico. La vita, quando perde il suo dinamismo evolutivo e “si fissa” nei fenomeni morti del delirare, delle allucinazioni acustico-verbali, della perdita dello slancio vitale, nell’eterna ripetizione dell’identico, e nella continua fluttuazione dei medesimi sintomi basici, indica un danno del substrato neurobiologico che clinicamente chiamiamo “psicosi cronica”, una stabilizzazione di una forma di entropia accresciuta.

In un mio lavoro uscito sul Journal of Psychopathology (Dalle Luche, 2019) ho proposto la suddivisione del tempo soggettivo in tempo cronologico o oggettivo, tempo biologico, quello necessario perché si compiano i processi psicologici (ad esempio l’archiviazione dei ricordi e l’oblio, processo indispensabile per il superamento dei lutti e delle separazioni), tempo psicologico, che riguarda sostanzialmente la percezione della durata, un tempo autobiografico o narrativo, che può saltare in avanti e indietro a piacimento collegando e talora identificando presente e passato interiori, come si vede nelle analisi in molti romanzi autoanalitici, ed infine tempo psicopatologico, che riflette un’alterazione globale della temporalità sottesa da importanti alterazioni dell’elaborazione cognitiva, affettiva, volitiva, diverse nelle varie aree della psicopatologia, come si è accennato sopra.

Si potrebbe fare una suddivisione analoga e corrispondente della spazialità (annullamento delle distanze, creazione di distanze, claustralità o lockdown interiore, fuga etc.), e anche della dinamica affettiva (espansione, equilibrio, inclusione, collasso), ma non è questa la sede. Basti qui osservare che queste trasformazioni si accompagnano a quelle della temporalità, quindi che ogni psicopatologia si esprime con un’alterazione dello spazio-tempo.

 

In conclusione si può affermare che la fenomenologia più avvertita abbia tenuto sempre aperto, e, anzi, contribuito, al dialogo con la ricerca scientifica, suggerendole la necessità di prendere atto non solo dei comportamenti osservabili e misurabili, ma anche dei modi nei quali si trasforma, a causa del disturbo neurobiologico, il vissuto soggettivo, una realtà sicuramente più “primaria” dei sintomi, delle dimensioni psicopatologiche e soprattutto delle categorie nosografiche.

 

3. Il futuro

Il futuro scientifico e pratico del nostro settore si compone fondamentalmente di due pratiche: la psicofarmacologia, sempre meno categorialmente specifica, quindi dimensionale e trans-nosografica, obbligante a coinvolgere il paziente (al suo empowerment) come soggetto della cura, della scelta dei farmaci, della testimonianza della loro efficacia (il bravo medico è un po’ come un sarto artigianale di una volta che cuce addosso al paziente l’abito psicofarmacologico più appropriato, adeguato, comodo ed elegante, seguendo anche le richieste del paziente). L’altra pratica è quella della psicoterapia, che vive oggi un’epoca rivoluzionaria sotto molti aspetti, in primo luogo su quello teoretico e del superamento dei confini di scuola, a vantaggio di un atteggiamento fenomenologico che, potremmo dire, sta diventando il linguaggio comune, più o meno esplicitamente accettato, di molte scuole. In cosa consiste questo linguaggio? Essere fenomenologi o, meglio, essere fenomenologici significa innanzitutto fare piazza pulita sia del senso comune che delle teorie (idee, modelli, ideologie): per quanto vadano studiate, e verificate, vanno anche dimenticate, sospese nel loro valore esplicativo, smaterializzate, rese eteree, ridotte a pensieri che vengono in mente al terapeuta ma anche al paziente, e che non hanno un valore esplicativo ma piuttosto quello di alimentare un dialogo, creare un’intesa ed una pulsione conoscitiva, e fare progredire il processo di cura: quest’ultimo, indipendentemente dalle diverse scuole, è sempre più consensualmente ritenuto basarsi su quel particolare rapporto intersoggettivo che si instaura tra quel terapeuta e quel paziente, nel quale si ripropongono tutti gli altri rapporti significativi che si è avuti nella vita (si potrebbe dire che il rapporto col terapeuta è il campo di tutti i campi relazionali vissuti e impressi nella memoria - Dalle Luche, 2021).

La fenomenologia non è disgiuntiva: la realtà non si può dividere in categorie, in contenitori concettuali non comunicanti: le teorie e le categorie concettuali comunicano, transitano l’una nell’altra: oggi non si può pensare che, ad esempio, se un paziente presenta modalità relazionali pre-edipiche non possa, in certe situazioni e in determinate relazioni, mostrare modalità edipiche; oppure un altro, che pare avere modalità di attaccamento disorganizzato, mostrare in altre situazioni una inimmaginabile capacità di attaccamento sicuro; oppure, sul lato clinico, pensare che un fobico degli aghi o degli animali col becco non possa essere un temerario scalatore alpino, oppure che chi ha presentato, in un certo momento, sintomi psicotici, debba essere considerato (e curato) come psicotico per tutta la vita. Tutto (tra)scorre, direbbe Eraclito, e nel suo trascorrere costituisce un Logos: una ipotesi che è giusta o reale in un certo momento non necessariamente è giusta o reale in un altro, dipende dal contesto, da diverse variabili, nonché da chi osserva e da quando lo osserva. E’ sotto gli occhi di tutti, ad esempio, che il passaggio da una situazione di ricovero in SPDC ad una presa in carico territoriale comporta spesso una diversità radicale di trattamento anche farmacologico, oltre che relazionale e psicoterapeutico. Il mondo è dinamico, la psichiatria e la psicoterapia sono dinamiche a meno che non si abbia a che fare con delle aree morte, spente, eternamente presenti o eternamente fluttuanti.

La fenomenologia trascina dunque una forma di relativismo? Assolutamente no, perché il riferimento è sempre il reale e non l’idea che si ha del reale, e non c’è niente di più reale della sofferenza e di quella psichica e psicopatologica in particolare, se la si sa cogliere nelle sue determinanti essenziali. La fenomenologia è radicalmente anti-idealistica, questo sì: l’abilità del fenomenologo è quella di non coprire il reale con le teorie, di non approcciarle con dei filtri mentali che proiettano sulla realtà una luce teorica che appartiene all’osservatore e non all’osservato e che spesso vede solo il primo. Sembra facile, ma non lo è: il mondo (quello non scientifico) funziona ancora in gran parte nella convinzione che le idee possano interpretare la realtà e modificarla: sappiamo bene come la realtà si sottragga sistematicamente a questa illusione, propria di certi modelli psicoterapeutici, così come alla politica, alla ricerca scientifica e alle pianificazioni strategiche aziendali: l’abbiamo visto, è bastato un virus per far saltare tutte le organizzazioni preventivate (con principi di economicità e appropriatezza) della sanità nazionale.

Per essere fenomenologici bisogna quindi non farsi condizionare da opzioni precostituite: bisogna saper vedere la realtà per come è: “vedere è la prima e l’ultima parola della fenomenologia”, come diceva il grande psichiatra fenomenologo Arthur Tatossian (1979).

A questo punto, siccome abbiamo evocato i termini piuttosto impegnativi di “realtà” e di “reale”, abbiamo bisogno di una teoria scientifica aggiornata di riferimento e puntualmente la troviamo nella fisica post-newtoniana, ed in particolare nella meccanica quantistica. Ovviamente, mi devo fidare della divulgazione accreditata, ad esempio di quanto dice Carlo Rovelli (2017), il più esplicitamente presocratico dei fisici contemporanei (esplicita è la sua ammirazione per il filosofo-fisico Anassimandro), da cui riprendo alcune affermazioni fondamentali:

-in accordo alla teoria della relatività spazio e tempo non sono variabili distinte ma solo un effetto dei campi gravitazionali, per questo il tempo oggettivo non esiste ma varia in funzione del luogo e della velocità, inoltre non è orientato dal vettore passato-futuro;

-in accordo alla meccanica quantistica il reale è ciò che accade adesso; il mondo non è fatto di cose, ma di “reti di eventi”; un essere umano, ad esempio, “è un processo complesso (…) un nodo di nodi di una rete di relazioni sociali, in una rete di processi chimici, in una rete di emozioni scambiabili con i propri simili” (p.89); “le cose non sono, accadono” (p.86);

Capiamo la psicologia (un po’, non molto) –sottolinea Rovelli- studiando come interagiamo tra di noi, come pensiamo. Capiamo il mondo nel suo divenire, non nel suo essere.” (p. 91). “Pensieri ed emozioni che ci legano gli uni agli altri non hanno difficoltà ad attraversare mari e decenni, a volte persino secoli” (p.106).

Tuttavia il divenire non è un processo lineare: in natura non esistono il passato, il presente e il futuro, quindi non abbiamo una grammatica adeguata a rappresentarla (p.98). Il tempo (e la temporalità) sono solo un ordine, un “germe di temporalità”, derivato dalla legge della non commutatività delle variabili quantistiche (p. 121).

Il fluire del tempo è la percezione di flussi non simmetrici e dell’aumento dell’entropia (p.135), sostanzialmente di passaggi tra configurazioni a bassa entropia ed altre ad alta entropia (l‘invecchiamento ed anche la psicosi, cosa sono se non il manifestarsi di questo passaggio?).

Questi orizzonti aperti dalla meccanica quantistica sono molto fenomenologici: considerano le apparenze per quello che sono e vanno a cercare la realtà oltre le apparenze in processi formalizzabili e verificabili anche se, molto spesso, difficili da immaginare, proprio perché siamo abituati a pensare con la “sfocatura”, come dice Rovelli, propria di chi vive in orizzonti ristretti. Credo che nei prossimi decenni si potrà parlare di neurofenomenologia facendo riferimento al matrimonio non impossibile tra fenomenologia come scienza della soggettività e fisica contemporanea. Del resto questo dialogo è già cominciato molti anni fa con l’epistolario tra Carl Gustav Jung, che per primo descrisse e tentò di studiare la sincronicità, e Wolfgang Pauli, uno dei primi teorici della meccanica quantistica (Jung e Pauli, 1932). La psiche è molto quantistica nel suo funzionamento, se la osserviamo senza le catene concettuali dei nostri sistemi abituali, tutti imprecisi e “sfocati”, condizionati dalle contingenze, dal senso comune, dagli obblighi sociali così ciechi e costrittivi sul libero dispiegarsi dello psichico. Ad esempio lo spazio-tempo psichico è legato al campo relazionale affettivo creato con tutti gli altri significativi incontrati nella vita: il sogno li ripesca dalla memoria e li rievoca, ad esempio; oppure il crearsi di una nuova relazione trasforma la temporalità e la spazialità: l’amore, ad esempio, diceva già Binswanger nella sua opera teoretica maggiore, ancora inedita in italiano (Binswanger,1949), unisce gli amati al di là del tempo e dello spazio. Il concetto psichico di “presente” è, quindi, quantomeno duplice: il primo senso rinvia alla sincronia col tempo del mondo e delle date, il secondo indica il fatto che psichicamente, tutto quello che abbiamo vissuto è sempre presente (altrimenti non sarebbe possibile alcuna psicoterapia -Dimaggio, 2020) e che, filosoficamente, esiste solo il presente. Nello psichico esiste inesorabilmente una doppia logica (che Matte Blanco definì come simmetrica e asimmetrica inconsapevolmente dai concetti quantistici (1975): quest’ultima distingue e discrimina, la prima collega ed identifica le rappresentazioni più diverse; l’una utilizza algoritmi lineari e causali, l’altra algoritmi asimmetrici e probabilistici (semplifico un discorso che sarebbe infinitamente più complesso).

Bisognerà quindi che la psicologia si abitui a parlare di eventi o di fenomeni piuttosto che di cose (funzioni e categorie), e che anche la psichiatria clinica e la psicoterapia vi si adeguino. Quest’ultima, largamente transitata nei tempi-spazi indefiniti della rete già prima del lockdown, e molto di più durante, dovrà confrontarsi anche teoreticamente con la scomparsa del setting inteso come spazio-tempo standardizzato della seduta. Anche qui, è bastata l’invenzione di un’applicazione come whatsapp a trasformare completamente la comunicazione terapeutica, ed a farla avvenire in uno spazio-tempo virtualmente continuo e concretamente istantaneo. Forse si scoprirà che nei setting tradizionali la psiche, per sua natura, vi stava stretta, e che “respira meglio” libera di muoversi nel campo psichico che si crea tra terapeuta e paziente, in fondo uno spazio gravitazionale che plasma il rivelarsi e l’oscurarsi della comunicazione. I concetti, i modelli, le regole, le tecniche (soprattutto quando intese pedissequamente come protocolli, procedure) sono configurazioni statiche, che devono applicarsi ad un flusso psichico che è sempre dinamico e che tende a modificarle e sostituirle. Per questo saranno sempre più i pazienti a fare la terapia: noi terapeuti potremo solo modularla, governarla, sempre più spesso attraverso un’applicazione online, in un processo continuo.

Una nuova psicologia ci attende, o forse ci siamo già immersi ma ancora non ce ne siamo accorti. Per fare un esempio, anche i neuroscienziati dovrebbero cercare di capire se il cervello umano è solo un sensore del tempo, che può regolarsi diversamente, determinando una variazione percettiva a seconda degli stati emotivi e delle situazioni (ad esempio il fenomeno delle rievocazioni mood congruent), oppure se l’orizzonte temporale è interamente un fenomeno psichico parallelo allo scorrere del tempo oggettivo.

 

Conclusioni

Il rapporto tra fenomenologia e neuroscienze è sostanzialmente di interdipendenza, come quello tra fisica contemporanea e filosofia. La distinzione diltheyana tra scienze naturali e scienze dello spirito è finalmente tramontata, come il valore scientifico di molti concetti della psicologia tradizionale. Purtroppo il mondo è ancora pieno di residui storici, cioè idee, ideologie e istituzioni che le riflettono e che “contaminano” la pratica e la riflessione psicologica. Il rischio che corriamo è di mantenere vive pratiche residuali del tutto svincolate dalle conoscenze scientifiche, oppure di avere delle conoscenze scientifiche ininfluenti sulle pratiche relazionali come la psicoterapia. Ma la natura è una e certamente non è influenzata dalle nostre categorie concettuali e dalle nostre distinzioni: tutt’al più, come nella meccanica quantistica, dalla nostra posizione di osservazione. Il nostro sforzo di colmare sempre più le visioni aggiornate della natura e della realtà che la ricerca scientifica ci propone (dalla genetica/epigenetica alla fisica contemporanea) con la definizione delle tecniche coerenti con esse, è il solo a poter legittimare il termine di neurofenomenologia.

 

Riferimenti

*Testo riveduto dell’intervento all’Opening Anno Accademico 2021 della Scuola di Psicoterapia Erich Fromm, International Foundation Erich Fromm, 15/1/2021.

 

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